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Autore: xNewYorker__    24/07/2012    1 recensioni
Se solo le cose fossero andate diversamente. Ogni tanto sembra esserci spazio soltanto per il rimorso, soprattutto nella mente di un poliziotto.
«Getti quell’arma».
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il sangue pulsava nelle vene della testa, persino in quelle degli occhi, che tenevo spalancati e fissi nello sguardo truce del Generale col mio stesso cognome.
Augurarmi che fosse davvero morto sette anni prima era come infilarmi lentamente un coltello col manico intagliato in pancia e rigirarlo quattro volte in un senso e dieci in un altro, lasciando scivolare il sangue giù come se fosse acqua, e sentendo la libertà dalla vita.
Ah, sì, e poi tirarlo via con altrettanta lentezza, nello scorrere inesorabile dei minuti, impresso nella mente per il ticchettio incessante di un orologio nell’orecchio.
Riuscivo a rivederlo dietro la telecamera a riprendere la mia recita di terza elementare, accanto agli altri padri, fiero della sua piccola comparsa come fosse la protagonista muta della scena, con un sorriso e un  occhiolino ricambiati proprio da quel piccolo e biondo pezzo di scenografia di otto anni. E rivederlo così era peggio di vederlo nel presente col revolver contro quella che era diventata unapoliziotta bionda che avrebbe dovuto guardarlo con la stessa commozione di vent’anni prima, vedendolo fiero di lei e non pronto afarla fuori per salvarsi il culo.
La mano gelava, stretta attorno alla pistola in un disperato bisogno di trovare protezione, e l’altra l’accompagnava, spingendola a non mollare, anche se un paio di cellule vorticavano a suggerire di buttarmela alle spalle e confessare a lui e al suo revolver che sapevo, e che anche lui avrebbe dovuto sapere, solo dagli occhi, chi ero e cosa stavo facendo impalata lì con la faccia dietro a un’arma
Non mollava la presa.
Il suo disgusto non lo avevo mai visto. Non lo avevo mai immaginato.
A otto anni non avrei mai pensato che potesse guardare qualcuno – che potesse guardare me – come se in realtà di fronte avesse un pugno di granelli di sabbia.
Ne sentivo altre sessanta, di quelle coltellate.
A una a una si giocavano tre quarti d’ora del mio respiro contro lo stomaco e il petto e riprendevano il giro perché non erano soddisfatte.
«Getti quell’arma».
Volevo urlarlo, ma era solo un sibilo.
Nei suoi occhi scorsi il video del primo giorno di liceo.
Ero da poco adolescente e i miei ricordi si perdevano dietro alle foto scolorite dei sussulti notturni di mia madre, e del giorno in cui il respiro le mancò fino a seccarle il cuore.
I miei giorni li buttavo a fare la diva davanti al suo obiettivo o ai suoi fari castani e troppo amorevoli per essere parte integrante della mia debole realtà.
La avevo costruita con tanta attenzione da preoccuparmene a ogni alito di vento.
Le immagini si sgretolavano come fumo e marmo e piombavano giù a scoprire di nuovo il revolver che avevo contro.
Dovevo togliermi dalla mente quella maledetta telecamera, perché lui non era più Randall Carpenter, era solo il Generale che con un po’ di precisione avrebbe trapassato la poliziotta stupida che lo vedeva ancora come quello che l’aveva messa al mondo.
Mi rise in faccia con un carico di disgusto che mi fece paura.
Strinsi di più sulla mia pistola e deglutii.
Non mi avrebbe vista piangere come la terza notte di campeggio senza mia madre.
Vidi un lampo di luce che durò un secondo e non colpì neanche la mia visuale.
Un’infinità di gente era ammassata intorno per curiosità o per costrizione, tutti temevano ma nessuno si permetteva di andarsene e di farmi fare il mio lavoro, che faceva già schifo senza il loro aiuto.
Avvertii in ritardo un’aria gelida e diversa al braccio.
Oh, sapevo cos’era. La avevo sentita già parecchie volte.
Io…non volevo.
Il mio indice scivolò sul grilletto e il rumore che ne seguì fu assordante.
Avevo gli occhi aperti, perfettamente.
Vidi il proiettile squarciare la sua cravatta blu, la camicia da signore che troppi innocenti avevano pagato col sangue, squarciò il petto e un paio di ossa e le restanti si ruppero contro l’asfalto una volta che i suoi occhi avevano smesso di vedermi.
Non avrebbe mai saputo.
Avevo ucciso una persona per la seconda volta nella mia carriera.
Assurdamente, tutti quelli che avevo guardato negli occhi in una supplica silenziosa volevano ammazzarmi.
E quel freddo al braccio sinistro era la mia morte, che non faceva neanche così male come le altre volte. Il dolore era più pressante da un’altra parte.
Quella era la tredicesima volta che una delle mie giacche veniva strappata da un proiettile rovente. E quel proiettile era di mio padre.
Nel mio armadio-catalogo delle sparatorie, quella sarebbe stata la giacca di “quella volta che mio padre mi ha sparato e io lo ho ucciso”.
E lo squarcio sulla carne era preciso, sulla cicatrice analoga lasciata da un proiettile solo quattro mesi prima.
La gente intorno a me era paralizzata. Gli adulti dal cadavere che avevo lasciato a mezzo metro dai miei piedi, i bambini dall’orrore della ferita enorme che avevo sul braccio e che stavo guardando come fosse un graffio di gatto, anche se il sangue si stava beatamente facendo strada per la manica di pelle nera, dall’interno e dall’esterno.
Tanto per far capire che non dovevano denunciarmi mi ficcai una mano dentro la giacca e mostrai il distintivo ruotando su me stessa.
Presi il telefono e chiamai i miei colleghi, nella certezza dell’errore: mi avrebbero rotto per spedirmi a farmi medicare fino a portarmici in braccio.
La ferita pulsava, ma ero ben consapevole che il profondo segno di un’arma da fuoco fosse il male minore.

Angolo autrice:
Buuh! Questa è una delle shot di una raccolta a cui lavoro da un po' di mesi, ormai. 
Potrei dire che non abbiano un perfetto ordine cronologico, per cui ho voluto pubblicare questa perché è, grossomodo, una delle prime. 
In futuro ne pubblicherò delle altre. Questa introduce, grossomodo, il personaggio.
Alla prossima!




 
   
 
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