Storie originali > Introspettivo
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Autore: franziphan    25/07/2012    0 recensioni
Si tratta di una collana di racconti che trattano vari generi narrativi. Eppure nonostante la loro diversità in genere, hanno molti punti in comune: la loro lunghezza non è eccessiva e si possono comodamente leggere in una volta sola; il finale non è sempre del tutto chiaro e lascia spazio alla fantasia di ognuno; sono raccontati tutti con focalizzazione interna da uno dei personaggi principali del racconto in un passato che da loro molte più consapevolezze o in un presente retrospettivo. Questa raccolta ruba ai suoi narratori alcuni attimi della loro vita, riflessioni, immagini e pensieri segreti e li mette nero su bianco in una magnifica catena di sentimenti contrastanti e finali diversi.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Non ero solito fare cose del genere come sedersi in riva al fiume incantandosi a fissare il riverbero del sole sull’acqua fino a perdere la vista eludendo la lezione di pianoforte, o come ridere senza motivo fissando per più di due secondi negli occhi una persona che pomposamente interloquiva con il sottoscritto. No, io non ero il tipo che faceva cose del genere. Io ero il tipico figlio di papà, garbato e posato. Il futuro preimpostato come manager della compagnia di famiglia e la passione già decisa per la musica ed il teatro. E allora perché mi trovavo sul treno per Lima guardando negli occhi una ragazza che credevo di conoscere? Chi era realmente Rebecca MayFlower, quella ragazzina con i capelli sempre curati ed il sorriso gentile quanto educato sul volto. Non era forse la figlia del Duca, amico da sempre di mio nonno e comproprietario della vigna più grande e fruttuosa di Lothware, o la più brava violinista che la sua casata e la regione intera potessero vantare? Rebecca MayFlower poteva essere tutto questo e non solo. Rebecca MayFlower poteva essere tutto quello che voleva. L’avevo sempre considerata una certezza. Un suono comune da calcolare ogni giorno dalle due del pomeriggio alle tre con melodie suonate a violino. Una presenza obbligatoria ad ogni brunch domenicale sotto il pergolato di gelsomini gialli, seduta fra sua madre e sorella della mia. Eppure non lo era affatto. Mi ero solamente illuso che ella lo fosse. Era un’estranea per me. Una completa estranea mentre apriva quel libro che inspiegabilmente per il sottoscritto aveva avuto il tempo di riporre nella borsa. Un sorriso estraneo quello che mi rivolse notando che la stessi fissando prima di ridare completa udienza a quelle pagine. La colpiva una luce diversa da quella che solitamente la colpiva. I suoi occhi scorrevano instancabili seguendo righe di parole come ipnotizzati, ed i miei lo erano dai suoi. Da quella ciocca di capelli che con il sobbalzare del treno le scese dall’acconciatura che sicuramente le era costata un’ora di messa in piega. Da quella sua immateriale consistenza che quello stesso sobbalzo del treno sembrò non alterare. Sembrò semplicemente volare come fa una piuma ad un alito di vento per poi ricomporsi come se nulla fosse. I suoi occhi non si staccarono dalle pagine, ed i miei dai suoi. Impiegai ancora qualche minuto preso dall’innaturale staticità di quella ragazza che non aveva detto una parola dall’inizio del viaggio, prima di destarmi come da un sogno quando le sue mani si richiusero sul libro lasciandone un dito come segno. Il passo successivo fu infilare un pezzetto di carta all’interno di quella fessura prima di lasciare definitivamente la presa ed accarezzare la copertina del fascicolo sospirando lievemente. Pose il volume nella borsa dalla quale era stato preso e con tutta calma riposò gli occhi sul mio sguardo che aveva seguito ogni suo singolo movimento come la proiezione del cinematografo di un grande classico. Le sue mani erano composte sulle pieghe che il vestito color pesca le creava sulle gambe accavallate, mentre sul suo viso nessuna piega. L’assoluta distensione di ogni muscolo prima che gli angoli delle labbra non si alzarono in un piccolo sorriso. La schiena era composta e ritta sul sedile color porpora del treno, mentre una mano saliva verso la ciocca distaccata dall’acconciatura. L’arricciava ed aiutata dall’altra mano la rimetteva al suo posto. Di nuovo ordine nell’aspetto di quella ragazza ed il suo sguardo, come ispirato, era ora rivolto al paesaggio esterno, al di la del vetro. Seguii i suoi occhi per scorgere cosa potesse vedere di così interessante al di fuori della carrozza del treno, ma scorsi solamente una distesa di alberi, terra e cielo. Notai immediatamente il peso del suo sguardo nuovamente sulla mia persona e di scatto mi rivolsi al suo viso. Ancora quell’assenza di emozione su di esso. Chi era la ragazza che viaggiava con me? Quando l’avevo conosciuta? Si avvicinò scostando la schiena dal sedile e porgendomi una delle sue piccole mani coperte da una guanto bianco che le arrivava al polso. Istintivamente osservai quel gesto con diffidenza ed attesi qualche secondo prima di assecondarla in quell’assurda dimostrazione d’affetto. Che sciocco ero stato. Dubitare di chi fosse Rebecca MayFlower, la ragazza seduta davanti a me sul treno per Lima in una calda giornata estiva. Allora mi fu tutto chiaro, il motivo del viaggio e della sua compagnia. Nei suoi occhi che dapprima parevano immensamente distaccati, quasi finti, scorsi allora una consapevolezza ed una pienezza che avevo scordato prendendo posto in quella carrozza. Era tutto iniziato due giorni prima, quando per la prima volta avevo parlato con lei senza avere un motivo per farlo. Non ricordo nemmeno come cominciammo, ma i nostri discorsi parevano fiumi in piena. La sua voce era pacata e cortese mentre mi confessava i suoi più grandi desideri, quello che il suo cuore le chiedeva di fare e che faceva quando nel mese di marzo si recava in vacanza dalla cugina sui monti. Le risate e le passeggiate, il vento fra i capelli e sedersi per terra qualche volta. Ricordo come i suoi occhi tradivano la riservatezza delle sue labbra, riempiendosi sempre più di energia. Ricordo il suo respiro affannoso dopo avermi preso per mano ed avermi rapito dalla solita lezione di pianoforte, per correre fino alla riva del fiume e sederci sull’erba a ciondolare i piedi nell’acqua fresca. E come erano lunghi i suoi capelli sciolti, e come era leggero il suo capo contro la mia spalla e la sua mano nella mia. Si, la sua mano nella mia. Mi era bastato passare una giornata in compagnia della vera Rebecca, quella che detesta prendere ordini ed ama l’aria aperta. Che preferisce sporcarsi le mani vivendo che restare uccellino in una gabbia d’oro. Mi era bastato vederla veramente e non soltanto osservarla come soprammobile da collezione nella vita preimpostata che i nostri genitori avevano scelto per noi, per innamorarmi di lei e decidere la mattina seguente di scappare. Solo un momento, una piccola pausa dalle buone maniere di Lothware e dai suoi abitanti. Dalle pressioni di casa e dal galateo. Un piccolo viaggio solo noi due, poi saremmo tornati a casa. A suonare il violino dalle due del pomeriggio alle tre e presenziare il bruch domenicale seduti fra la propria madre e la sorella della vicina, ma con la consapevolezza di poter avere di più. Con la consapevolezza di non essere soli e di possedere un pezzetto di vita immortale, che nessuno di loro avrebbe mai potuto toglierci. Un piccolo viaggio per ricordare che eravamo vivi, che potevamo ancora decidere di noi stessi. Che il nostro futuro era ancora nostro, prima di tornare a casa ed accorgerci che era stata tutta un’illusione. Che la vita non era nostra e che noi non decidevamo nulla.
  
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