6.
Intoccabile e Afferrabile
Started at the age of four
My mother went to the grocery store
Went sneaking through her bedroom door
To find something in a size four
Sugar and spice and everything nice
Wasn’t made for only girls
Green Day – “King For A Day”
C’erano
momenti in cui Matteo si sentiva intoccabile.
E
quello, si disse alzandosi dalla sedia per mettersi in spalla lo zaino
con una
mossa spavalda, era proprio uno di quegli splendidi attimi.
Consegnò
il foglio a protocollo riempito di scritte in inchiostro, di lettere e
parole,
che si univano a formare frasi; la sua calligrafia era così anonima che
lo
faceva sembrare altrettanto, quindi doveva rivederla.
Intoccabile.
Il
professore dai folti capelli bianchi e gli occhialetti antiquati lo
squadrò
quasi fosse un esperimento genetico, per poi alzare le sopracciglia con
fare
incredulo; il ragazzo gli rispose con una scrollata di spalle, girò sui
tacchi
e sfilò per la stanza, come se in realtà fosse sul tappeto rosso.
Niente
e nessuno avrebbe potuto rovinargli quella giornata, perché aveva
appena dato
dimostrazione del suo innato talento di faccia da culo, nonché scritto
un tema
degno del più merdoso intellettuale.
Intoccabile.
Prima
di uscire dalla sala, diede uno sguardo ai ragazzi con cui aveva
condiviso
cinque anni, nella stessa classe, con gli stessi problemi
adolescenziali;
probabilmente avrebbe dovuto commuoversi, scoppiare in lacrime, così
quei
piccoli bastardi avrebbero avuto ragione a dire che era una “checca
frignona”.
La
verità è che avrebbe voluto sputare in faccia ad ognuno di loro, magari
togliendo loro l’uso di un occhio. O due, anche meglio. Quegli
stronzetti dalle
polo bianche e i pantaloni cachi, gli avevano reso la vita un inferno,
canzonandolo e stuzzicandolo con frasi offensive, degne di qualsiasi
stupido
eterosessuale da riproduzione.
E
ora, mentre li osservava scrivere panicati, i volti chini sui loro
fogli, si
prendeva la sua rivincita; perché loro non potevano sapere quanto il
suo tema
fosse stato geniale, il migliore
testo che avesse mai scritto in tutta la sua vita. Forse era stata
davvero una
questione di illuminazione o ispirazione, come scrivevano nei romanzi,
ma a
Matteo piaceva di più pensare che fosse stata semplicemente la voglia
di
umiliare tutti i suoi merdosissimi compagni di classe.
Intoccabile.
Lanciò
un’occhiata ad Anne, ancora indaffarata a scribacchiare, mentre si
ravvivava i
capelli ricci, più scompigliati del solito; la sera prima lo aveva
chiamato in
lacrime, dicendogli che era stata una stupida a non studiare, che aveva
una
paura folle e che l’avrebbero bocciata. Era tipico della sua migliore
amica,
farsi prendere dagli attacchi di ansia all’ultimo momento, pentendosi
di tutto
ciò che aveva fatto, o meglio, che non aveva
fatto.
Uscì
dall’aula e si chiuse la porta dietro, con la sensazione di aver appena
lasciato dietro di sé un passato che non aveva alcuna intenzione di
riportare a
galla; aveva lasciato alle sue spalle non solo una semplice porta di
legno, ma
un Matteo un po’ più giovane, con i capelli meno curati e l’espressione
del
viso meno strafottente, meno sicura di sé.
Era
ora di ricominciare.
Intoccabile.
Nessuno ̶
nessuno
̶ avrebbe
potuto più farlo
sentire un piccolo verme indegno di essere al mondo, perché, ora,
riusciva a
camminare a testa alta, senza vergognarsi di essersi innamorato di un uomo, di essere andato a letto con un uomo.
Era
consapevole di non essere un mostro.
Normale.
Aveva
superato la prima prova d’esame in modo più che degno, facendo vedere a
tutti
quanto valeva, cosa che attendeva fin da piccolo, quando aspettava che
sua
madre uscisse per provarsi tutti i suoi vestiti scollati.
Ora
sapeva molte più cose rispetto ad allora, come ad esempio il fatto che
le gonne
a pois della madre non gli donavano per niente ed era meglio optare per
una
semplice maglietta.
Non
si fermò nell’atrio del liceo, dove stavano seduti diversi suoi
professori, ma
tirò dritto, la nuova sensazione di vittoria ormai sorta dentro di lui
che gli
suggeriva la via da percorrere.
Mi
presento.
Matteo
Damiani, diciotto anni
compiuti da poco.
Una
nuova persona.
Avrebbe
voluto gridare al mondo quanto quello stupido tema avesse significato,
perché
non era un semplice testo di esame, era il traguardo finalmente
raggiunto, la
linea di orizzonte non più così lontana.
Era
un nuovo inizio.
Intoccabile.
Spalancò
con una mano la porta che aveva dovuto varcare per cinque eterni anni,
affiancato dall’unica persona che lo avesse fatto sentire normale, Anne.
Non
appena si ritrovò alla scalinata d’entrata del Liceo Statale Giovanni
Pascoli
di Torino, si sentì libero come non lo era stato in tutta la sua vita;
la
voglia di provare nuove esperienze, di riprovare in ciò in cui non era
riuscito, scalare nuove montagne, anche se sembravano insormontabili.
Inspirò.
Espirò. E si rese conto che era proprio bello
respirare.
Prese
a scendere le scale, soffermandosi
sul
gruppetto di ragazzini ̶ probabilmente del biennio ̶
intenti a fumare le loro sigarette, l’aria di chi della
vita ha già
imparato ogni cosa e non ha alcun bisogno di ascoltare ciò che i più
grandi
suggeriscono; li vide tirare boccate di fumo, avidi, come se la
nicotina fosse
l’unica cosa importante nella loro esistenza, esattamente come i
motorini
truccati e il gel per capelli.
E
poi c’erano quelle bambine di quattordicenni con il trucco pesante
sulle
palpebre, le guance rosee infantili coperte da strati di fondotinta, i
capelli
tirati così tanto da sembrare di plastica; se ne stavano in compagnia
di quei
finti uomini, aspettando che uno di loro gli chiedesse di aprire le
gambe per
qualche minuto da donna matura.
Ma
a Matteo non importava ̶ non poteva importare ̶
perché doveva concentrarsi sui suoi problemi, sulla sua
vita, e non
aveva alcuna intenzione di dire a quei bambocci quanto risultassero
ridicoli.
Intoccabile.
Mentre
faceva mente locale su cosa aveva o no negli scaffali della sua cucina,
e a
cosa doveva o no comprare da lì a pochi minuti
̶ salsa di pomodoro, sì, maionese... sì, la maionese
serve sempre ̶ ,
notò una figura magrolina appoggiata al muro che separava la scuola
dalla
strada.
Matteo
dovette sbattere più volte le palpebre per essere sicuro di essere
sveglio e
non in uno di quei sogni favolosi; si rese conto di essere fermo a metà
scalinata, una sopraciglia inarcata e lo zaino di scuola su una sola
spalla.
Non
doveva sembrare poi così affascinante agli occhi del suo spettatore, Riccardo.
Riccardo
che lo guardava con un espressione che era a metà tra il divertito e
l’intimorito, le mani nella tasche degli sgualciti jeans e il viso di
chi ha
passato tutta la notte in piedi, tirando cocaina.
Non
era poi più tanto intoccabile,
ora.
Non
sapeva bene come
comportarsi: il ragazzo che lo
attendeva pochi metri più in là era un membro del suo gruppo musicale,
quindi,
per logica, avrebbe dovuto assumere quell’aria da ragazzo svelto e
socievole;
ma quello che sembrava in apparenza il tipico rockettaro eterosessuale,
con
tanto di cresta verde, era un gay non dichiarato che faceva arrapare
Matteo.
L’apparenza
inganna, pensò
in modo sarcastico.
Stare
lì impalato non aiutava di certo a migliore la tensione, quindi si
costrinse a
scendere le ultime gradinate e a fermarsi davanti al suo amico, che si
massaggiava le mani con fare ansioso, quasi fosse stato lui ad aver
appena
affrontato l’esame di Maturità.
Adesso
doveva parlare, e lo sapeva, perché se avesse aspettato Ricca,
probabilmente
sarebbero rimasti zitti e muti finché quello dai capelli verdi non si
fosse
agitato e sarebbe scappato.
Quanto
sei cinico e negativo,
Matteo.
«Per
quanto ancora hai intenzione di fissarmi senza dire una parola?»
commentò infine,
rendendosi conto di non avere fatto affatto
una mossa furba; ma d’altronde si stava parlando si sé
stesso, come poteva
abbandonare quel suo istinto che gli faceva dire cose offensive?
Ricca
sembrò sbiancare un po’, poi il suo viso mutò forma, come quel pongo
con cui si
gioca da bambini, e prese a ridere di gusto, quasi avesse appena
sentito la
barzelletta più esilarante del mondo.
Matteo
era perplesso: solitamente quando se ne usciva con una delle sue
frecciatine
taglienti, le persone ne rimanevano ferite e lo evitavano.
Perché,
adesso, quell’imbecille dai capelli inguardabili rideva come un matto?
«In
realtà» disse quando si fu ripreso e reso conto del fatto che Matteo
non si stava
per niente divertendo «ero venuto a chiederti scusa per il gelato che
ti ho
lasciato da pagare…»
Si
era aspettato di tutto: la scusa di una nuova canzone, il pretesto di
aver
finito prima lavoro o di aver fatto il turno di mattina, ma non aveva
messo in
conto la verità.
Quel
ragazzo impacciato e timido, incapace di ammettere di essere
omosessuale, aveva
appena spiazzato il veterano.
Che
cosa si rispondeva ad un’affermazione del genere?
“Scuse
accettate” ?
Si,
“Scuse accettate” andava
benone.
«Andiamo
a prenderci un caffè, Ricca.» nessuna domanda, era un’affermazione.
Sarebbe
stato molto meglio il famoso “Scuse accettate”, ma Matteo non sapeva
fare le
cose che si prefissava, sapeva di poter dire ciò che voleva.
Intoccabile.
****
Afferrabile.
Riccardo
non poteva che sentirsi esposto alla vista di una bellezza perfetta,
come
quella del bassista, che lo aveva appena obbligato ad andare in un bar
insieme
a lui. E se qualcuno li avesse visti? Se avessero subito pensato al
peggio?
Riccà,
rilassati. Le persone non
pensano a due omosessuali, se vedono due uomini prendere un caffè
insieme.
Il
fatto era che la sua coscienza era, per così dire, sporca; sapeva
benissimo che
non stava andando a fare due passi con un amico, come poteva essere con
Davide,
ma non riusciva a smettere di fissare il sedere perfetto di Matteo.
Ecco,
quella non era una cosa normale, una cosa che un ragazzo virile
ventenne come
lui non avrebbe dovuto pensare neanche nei sogni più deviati; era
meglio
concentrarsi su una bella ragazza immagine, magari vestita da
infermiera, come
piaceva a tanti uomini viscidi e schifosi e …
No,
di certo quelle riflessioni non lo stavano portando ad un buon
traguardo.
Matteo
gli lanciò un’occhiata di sottecchi, mentre camminavano fianco a fianco
per le
vie di Torino, facendo sentire il già abbastanza ansioso Riccardo,
ancora più a
disagio.
Afferrabile.
«Va
bene qua?» domandò il moro, fermandosi davanti al molto frequentato bar
che, a
quanto poté notare Ricca, era stracolmo di gente.
Si
guardò intorno in cerca di un locale meno affollato, dove sarebbero
passati
indiscreti e, se gli fosse andata bene, non sarebbero passati come una
coppia
di froci.
Dio,
che cazzo pensi, Riccà?
Adocchiò
un bar che non prometteva un eccellente servizio, le vetrine
impolverate e l’insegna
al neon bruciata in diversi punti, cosa che rovinava la scritta “Caffè”
in
“Cfè”.
Era
il posto perfetto.
Sei
ridicolo, mormorò
la sua coscienza, che nell’ultimo periodo lo martellava togliendogli
anche la
fame, nei giorni peggiori.
Ma
Riccardo non aveva alcuna intenzione di ammettere che stava cercando di
sotterrare i problemi e le paure, invece di affrontarle, perché voleva
dire di
essere un vigliacco, un codardo; così continuava a scusarsi, dicendosi
che
forse era normale essere un po’ nervosi, quando si aveva un gruppo
musicale di
successo, richiesto da decine di locali di Torino.
I
Mad stavano facendo scintille. La
notizia del loro concerto al Porto di Città si era sparsa in fretta,
come un
virus, ed in poco tempo erano diventati popolari nei sobborghi urbani,
inducendo i pub più squallidi a contattarli per le loro serate.
Erano
abbastanza esaltati, nonostante tutto.
«Che
ne dici di quello là?» incominciò «Sai, ho dei problemi con la folla
nei luoghi
chiusi…» balbettò in un modo non troppo convincente.
Si
rese conto che Matteo aveva un espressione saputa sul viso, il ghigno
beffardo
appena comparso, come se gli stesse dicendo “Ci sono passato anche io,
bello,
chi vuoi prendere in giro?”.
«Oh,
non ne ho dubbi… Infatti suoniamo sempre in enormi stadi olimpici e
parchi
naturali.»
Afferrabile.
Cercò
di trattenere il rossore, che però non tardò ad arrivare, facendolo
sprofondare
in quello che era un imbarazzo assoluto, senza ritorno. Avrebbe dovuto
immaginarlo, che non avrebbe potuto prendere in giro un tipo sveglio
come
Matteo.
Comunque,
il bassista non fece altri commenti e attraversò la strada, seguito da
un
Riccardo sempre meno sicuro di sé, avente la sola voglia di tornarsene
a casa
per rintanarsi nell’oblio della droga.
Non
credere di scappare da te
stesso creandoti una dipendenza da cocaina, amico, borbottò
la sua coscienza, sempre più spazientita dal suo comportamento
infantile.
Anche
sua madre, che andava a fargli visita all’appartamento, lo ammoniva
quando
notava bustine con della polvere bianca sparse un po’ ovunque, in
quella casa;
un giorno, quando lo aveva trovato stordito sul letto, con occhi simili
a due
palline da tennis, era scoppiata a piangere, urlando che suo figlio era
un
drogato.
Ma
cosa ne poteva sapere lei di ciò che significava essere un mostro?
Lei
non doveva scappare costantemente dalla verità, dai suoi desideri, che
erano
così malati da indurlo a graffiarsi la pelle, cercando di farsi del
male,
perché si odiava.
Perché
non si accettava.
Perché
non poteva essere così.
La
cocaina mi aiuta, concluse
zittendo quella stupida voce che continuava a parlare, dentro di lui.
Si
sedettero in uno dei tanti tavolini impolverati, prima di rendersi
conto che
quel posto faceva veramente pena; sembrava un luogo abbandonato,
talmente era maltenuto
e la cameriera era una vecchia anziana, probabilmente con otto ernie,
che si
avvicinava a loro con fare infastidito, come se gli unici clienti che
aveva da
un mese fossero indesiderati.
«Un
caffè» disse Matteo, non appena vide la nonnina.
«Anche
per me.»
Ci
mise un po’ a tornare dietro al bancone, la vecchia, e con molte
probabilità
avrebbero atteso fino al giorno dell’Apocalisse per avere i loro due
caffè, che
sarebbero stati bruciati.
«Se
scappi anche questa volta ti vengo ad acchiappare per la pelle del
culo, perché
non ti pago di nuovo il conto.»
Risero
entrambi e per un attimo Ricca abbandonò il pensiero di essere
sbagliato,
perché stava ridendo di gusto, come non succedeva da parecchio tempo.
Forse,
era perché non si sentiva giudicato, perché Matteo non si faceva
problemi a
dire ad alta voce di essere gay ̶
dio, che pensiero ̶
, anzi
sembrava esserne fiero.
«Direi
che rimango, anche perché scommetto che Davide non ha rispettato il
turno in
cucina e mi lascerà senza cena, quindi il caffè sarà il mio pasto.»
Matteo
ridacchiò, sfoderano un sorriso che avrebbe lasciato senza fiato anche
Brad
Pitt.
No.
Brad
Pitt no, perché lui era normale.
Non
avrebbe voluto finire in un altro bar, avrebbe preferito passeggiare,
aveva
pensato ad una camminata di cinque minuti di numero, giusto il tempo di
scusarsi, per poi tornare da dov’era venuto con molta nonchalance.
Ma,
ovviamente, la cosa non aveva funzionato, perché niente ̶ ma niente per davvero ̶
di
quello che Ricca programmava, andava in porto.
«Allora,
ehm, quest’esame?»
Ma
certo, la prossima volta
chiedigli se ricama la sera, prima di andare a dormire.
«Oh!
Alla grande!» riuscì a vedergli gli occhi illuminarsi, in un emozione
palpabile
«li ho stesi tutti, quei figli di puttana! Non avrei potuto scrivere
qualcosa
di migliore.»
Modesto,
il ragazzo.
Matteo
era l’incarnazione della sensualità, cosa che lo rendeva estremamente
sicuro di
sé, quasi borioso, in effetti; ma lui non si preoccupava di apparire
petulante
o fastidioso, perché sapeva di essere affascinante ed interessante.
Riccardo
si sentiva solo un completo idiota.
Afferrabile.
«Se
fossimo stati in una commedia americana, a questo punto avremmo
discusso
riguardo a qualche merdoso filosofo, facendo uscire tutte le cose che
avevamo
in comune.»
Se
lo lasciò sfuggire, perché non voleva davvero dire ad alta voce che
stava
pensando a loro come una coppietta
̶ eppure
l’idea di avere un
ragazzo come Matteo glielo faceva venire duro
̶ , però la sua bocca aveva agito senza il suo permesso.
«Si…
lo stramaledetto colpo di fulmine! E poi magari saremmo andati a
pattinare sul
ghiaccio di notte, per poi coricarci sulla neve a guardare le stelle!»
continuò
Matteo, che non sembrava affatto sconvolto dalla sua affermazione, ma
sembrava
condividere quegli stupidi pensieri.
Riccardo
trattenne a stento il sorriso che fremeva per uscire, perché l’emozione
lo
aveva messo sotto: ne aveva detta una giusta e il disagio sembrava
essere
improvvisamente svanito, come in quei cartoni animati in cui gli
oggetti
spariscono con un “puff”; stava ridendo tranquillamente insieme al
ragazzo più
intrigante che avesse mai conosciuto, parlando di film e musica,
sorseggiando
un caffè che avrebbe fatto vomitare chiunque.
Eppure
lui era contento, contento come non lo era mai stato in vita sua.
Il
fatto era che solo con Matteo riusciva ad abbandonare l’idea di
sentirsi
diverso e giudicato, ma allo stesso tempo la consapevolezza si faceva
sempre
più martellante, facendolo soffermare sul pacco del bassista.
Non
mi rovinare anche questi momenti,
coscienza del cazzo, pensò
prima di mettere a tacere tutte le
sue ansie sulla questione omo… omoses… omos… No, non riusciva neanche a
pensarla, quella parola.
Mentre
ridacchiavano per l’ennesima battuta tagliente di Matteo riguardo la
donna
della lavanderia di Corso Dante, Riccardo si chiese da quanto tempo
erano
seduti a quel tavolino, parlando di cose futili, che però erano
essenziali.
Doveva
tornare al lavoro, il turno probabilmente stava per iniziare e se fosse
arrivato in ritardo, il capo del Supermercatino del cazzo non ne
sarebbe stato
molto felice. E nemmeno la sua paga.
E
il suo stipendio era la cosa più importante.
«Devo
tornare al lavoro…» mormorò guardando la tazza di caffè vuota.
Matteo
non rispose, sorrise e andò alla cassa
̶ una
calcolatrice dei primi del
Novecento ̶ con quel passo seducente
che non permetteva a
nessuno di distogliere lo sguardo, nemmeno se fossi stato il più
eterosessuale
di tutta Torino.
Come
poteva essere così bello? Avrebbero dovuto mettere dei divieti per la
troppa
bellezza, perché per le persone deboli come Riccardo non era un bene
vedere
tutto quell’armamentario.
Pagarono
quello schifo che si ostinavano a chiamare caffè, per poi uscire
nuovamente in
strada, la consapevolezza di essere in compagnia di un uomo
gay affascinante tornò a colpirlo e con essa il disagio e
l’introversione.
«Ci
separiamo qua, allora, io devo andare nella traversa a sinistra…»
sussurrò
debolmente Ricca, sperando che l’amico non si offendesse per
quell’evidente
imbarazzo di arrivare al lavoro con lui.
Ma
Matteo non disse assolutamente nulla, non espose nessuna espressione,
nessun
segno di aver sentito ciò che il batterista aveva detto, ma fece una
cosa così
inaspettata che Riccardo rimase attonito. Si avvicinò a lui e,
semplicemente,
come se fosse stata la cosa più normale del mondo, appoggiò le labbra
sulle
sue, prendendo a baciarlo.
Non
è normale. Non è normale. Non è
normale.
Mandando
a quel paese tutto il buon senso del mondo, rispose al bacio, inducendo
Matteo
a far scivolare la lingua nella sua bocca, prendendo ad esplorarla in
ogni suo
centimetro; le mani del bassista si erano strette alla vita sottile di
Riccardo, che ormai aveva perso qualsiasi cognizione di tempo e luogo,
perché
se avesse saputo che due anziani li avevano visti ed erano inorriditi,
gli
sarebbe preso un colpo al cuore.
Ma
non importava, non aveva più alcuna importanza, perché le loro labbra
sembravano essere fatte per stare unite, le loro lingue per roteare in
quella
danza d’amore, le loro mani per intrecciarsi in quella morsa senza via
d’uscita.
Era
intontito, ma non aveva alcuna intenzione di fermare le sue mani, che
toccavano
i morbidi capelli del bassista.
Pelle,
profumo, labbra, lingue…
Matteo
e Riccardo.
Uomo
e uomo.
La
consapevolezza tornò all’attacco nel momento meno inopportuno,
scuotendolo
quasi fosse un frullatore, per urlargli nel cervello che erano in mezzo
ad una
strada, Matteo era un maschio e lui lo stava baciando. Contro
natura. Mostro.
Si
staccò dal bassista, guardandolo con gli occhi sgranati, la paura
leggibile sul
suo viso, la voce che era scappata dal suo corpo.
Si
girò e prese a correre verso il Supermercatino, lasciando Matteo lì,
come un
pollo, mentre le lacrime correvano veloci lungo le sue guance, incapaci
di
rimanere dentro.
Mostro.
Mostro.
Mostro.
Gli
sarebbe servita una quantità industriale di cocaina, quella sera, per
addormentarsi.
Afferrabile.
****
Miei
cari lettori,
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e
che la scena del bacio tra Matteo e Riccardo sia stata abbastanza
veritiera, ci
ho messo me stessa lì dentro, cercando di renderlo reale.
Ho
voluto rendere l’idea dell’immensa
differenza tra i due ragazzi con le parole opposte “Intoccabile” ed
“Afferrabile”.
Un
grazie speciale alla mia beta
reader, Lavisvampita, che non si è
ancora stufata di me e mi sopporta con pazienza e dedizione.
Vi
sarei grata se lasciaste una piccola
recensione.
Un
abbraccio,
Eryca.