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Autore: Eryca    25/07/2012    6 recensioni
Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.
Non c’era persona più colpevole di lei.
Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.
C’era musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro la sentivano.
Vita.

****
C'è Anne, con i suoi demoni del passato e la sua maschera perenne. Ha un sogno.
C'è Davide, con la sua purezza d'animo. Ha un sogno.
C'è Matteo, con la sua spavalderia e il suo disinteresse. Ha un sogno.
C'è Riccardo, con le sue dipendenze, le sue paure e le sue bugie. Ha un sogno.
Un sogno.
Hanno tutti lo stesso sogno.
La musica.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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6.

Intoccabile e Afferrabile

 

 

 

 

 

 

Started at the age of four

My mother went to the grocery store

Went sneaking through her bedroom door

To find something in a size four

Sugar and spice and everything nice

Wasn’t made for only girls

 

Green Day – “King For A Day”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’erano momenti in cui Matteo si sentiva intoccabile.

E quello, si disse alzandosi dalla sedia per mettersi in spalla lo zaino con una mossa spavalda, era proprio uno di quegli splendidi attimi.

Consegnò il foglio a protocollo riempito di scritte in inchiostro, di lettere e parole, che si univano a formare frasi; la sua calligrafia era così anonima che lo faceva sembrare altrettanto, quindi doveva rivederla.

Intoccabile.

Il professore dai folti capelli bianchi e gli occhialetti antiquati lo squadrò quasi fosse un esperimento genetico, per poi alzare le sopracciglia con fare incredulo; il ragazzo gli rispose con una scrollata di spalle, girò sui tacchi e sfilò per la stanza, come se in realtà fosse sul tappeto rosso.

Niente e nessuno avrebbe potuto rovinargli quella giornata, perché aveva appena dato dimostrazione del suo innato talento di faccia da culo, nonché scritto un tema degno del più merdoso intellettuale.

Intoccabile.

Prima di uscire dalla sala, diede uno sguardo ai ragazzi con cui aveva condiviso cinque anni, nella stessa classe, con gli stessi problemi adolescenziali; probabilmente avrebbe dovuto commuoversi, scoppiare in lacrime, così quei piccoli bastardi avrebbero avuto ragione a dire che era una “checca frignona”.

La verità è che avrebbe voluto sputare in faccia ad ognuno di loro, magari togliendo loro l’uso di un occhio. O due, anche meglio. Quegli stronzetti dalle polo bianche e i pantaloni cachi, gli avevano reso la vita un inferno, canzonandolo e stuzzicandolo con frasi offensive, degne di qualsiasi stupido eterosessuale da riproduzione.

E ora, mentre li osservava scrivere panicati, i volti chini sui loro fogli, si prendeva la sua rivincita; perché loro non potevano sapere quanto il suo tema fosse stato geniale, il migliore testo che avesse mai scritto in tutta la sua vita. Forse era stata davvero una questione di illuminazione o ispirazione, come scrivevano nei romanzi, ma a Matteo piaceva di più pensare che fosse stata semplicemente la voglia di umiliare tutti i suoi merdosissimi compagni di classe.

Intoccabile.

Lanciò un’occhiata ad Anne, ancora indaffarata a scribacchiare, mentre si ravvivava i capelli ricci, più scompigliati del solito; la sera prima lo aveva chiamato in lacrime, dicendogli che era stata una stupida a non studiare, che aveva una paura folle e che l’avrebbero bocciata. Era tipico della sua migliore amica, farsi prendere dagli attacchi di ansia all’ultimo momento, pentendosi di tutto ciò che aveva fatto, o meglio, che non aveva fatto.

Uscì dall’aula e si chiuse la porta dietro, con la sensazione di aver appena lasciato dietro di sé un passato che non aveva alcuna intenzione di riportare a galla; aveva lasciato alle sue spalle non solo una semplice porta di legno, ma un Matteo un po’ più giovane, con i capelli meno curati e l’espressione del viso meno strafottente, meno sicura di sé.

Era ora di ricominciare.

Intoccabile.

Nessuno  ̶  nessuno  ̶  avrebbe potuto più farlo sentire un piccolo verme indegno di essere al mondo, perché, ora, riusciva a camminare a testa alta, senza vergognarsi di essersi innamorato di un uomo, di essere andato a letto con un uomo.

Era consapevole di non essere un mostro.

Normale.

Aveva superato la prima prova d’esame in modo più che degno, facendo vedere a tutti quanto valeva, cosa che attendeva fin da piccolo, quando aspettava che sua madre uscisse per provarsi tutti i suoi vestiti scollati.

Ora sapeva molte più cose rispetto ad allora, come ad esempio il fatto che le gonne a pois della madre non gli donavano per niente ed era meglio optare per una semplice maglietta.

Non si fermò nell’atrio del liceo, dove stavano seduti diversi suoi professori, ma tirò dritto, la nuova sensazione di vittoria ormai sorta dentro di lui che gli suggeriva la via da percorrere.

Mi presento.

Matteo Damiani, diciotto anni compiuti da poco.

Una nuova persona.

Avrebbe voluto gridare al mondo quanto quello stupido tema avesse significato, perché non era un semplice testo di esame, era il traguardo finalmente raggiunto, la linea di orizzonte non più così lontana.

Era un nuovo inizio.

Intoccabile.

Spalancò con una mano la porta che aveva dovuto varcare per cinque eterni anni, affiancato dall’unica persona che lo avesse fatto sentire normale, Anne.

Non appena si ritrovò alla scalinata d’entrata del Liceo Statale Giovanni Pascoli di Torino, si sentì libero come non lo era stato in tutta la sua vita; la voglia di provare nuove esperienze, di riprovare in ciò in cui non era riuscito, scalare nuove montagne, anche se sembravano insormontabili.

Inspirò. Espirò. E si rese conto che era proprio bello respirare.

Prese a scendere le scale, soffermandosi  sul gruppetto di ragazzini  ̶  probabilmente del biennio  ̶  intenti a fumare le loro sigarette, l’aria di chi della vita ha già imparato ogni cosa e non ha alcun bisogno di ascoltare ciò che i più grandi suggeriscono; li vide tirare boccate di fumo, avidi, come se la nicotina fosse l’unica cosa importante nella loro esistenza, esattamente come i motorini truccati e il gel per capelli.

E poi c’erano quelle bambine di quattordicenni con il trucco pesante sulle palpebre, le guance rosee infantili coperte da strati di fondotinta, i capelli tirati così tanto da sembrare di plastica; se ne stavano in compagnia di quei finti uomini, aspettando che uno di loro gli chiedesse di aprire le gambe per qualche minuto da donna matura.

Ma a Matteo non importava  ̶  non poteva importare  ̶  perché doveva concentrarsi sui suoi problemi, sulla sua vita, e non aveva alcuna intenzione di dire a quei bambocci quanto risultassero ridicoli.

Intoccabile.

Mentre faceva mente locale su cosa aveva o no negli scaffali della sua cucina, e a cosa doveva o no comprare da lì a pochi minuti  ̶  salsa di pomodoro, sì, maionese... sì, la maionese serve sempre  ̶  , notò una figura magrolina appoggiata al muro che separava la scuola dalla strada.

Matteo dovette sbattere più volte le palpebre per essere sicuro di essere sveglio e non in uno di quei sogni favolosi; si rese conto di essere fermo a metà scalinata, una sopraciglia inarcata e lo zaino di scuola su una sola spalla.

Non doveva sembrare poi così affascinante agli occhi del suo spettatore, Riccardo.

Riccardo che lo guardava con un espressione che era a metà tra il divertito e l’intimorito, le mani nella tasche degli sgualciti jeans e il viso di chi ha passato tutta la notte in piedi, tirando cocaina.

Non era poi più tanto intoccabile, ora.

Non sapeva bene come comportarsi: il ragazzo che lo attendeva pochi metri più in là era un membro del suo gruppo musicale, quindi, per logica, avrebbe dovuto assumere quell’aria da ragazzo svelto e socievole; ma quello che sembrava in apparenza il tipico rockettaro eterosessuale, con tanto di cresta verde, era un gay non dichiarato che faceva arrapare Matteo.

L’apparenza inganna, pensò in modo sarcastico.

Stare lì impalato non aiutava di certo a migliore la tensione, quindi si costrinse a scendere le ultime gradinate e a fermarsi davanti al suo amico, che si massaggiava le mani con fare ansioso, quasi fosse stato lui ad aver appena affrontato l’esame di Maturità.

Adesso doveva parlare, e lo sapeva, perché se avesse aspettato Ricca, probabilmente sarebbero rimasti zitti e muti finché quello dai capelli verdi non si fosse agitato e sarebbe scappato.

Quanto sei cinico e negativo, Matteo.

«Per quanto ancora hai intenzione di fissarmi senza dire una parola?» commentò infine, rendendosi conto di non avere fatto affatto una mossa furba; ma d’altronde si stava parlando si sé stesso, come poteva abbandonare quel suo istinto che gli faceva dire cose offensive?

Ricca sembrò sbiancare un po’, poi il suo viso mutò forma, come quel pongo con cui si gioca da bambini, e prese a ridere di gusto, quasi avesse appena sentito la barzelletta più esilarante del mondo.

Matteo era perplesso: solitamente quando se ne usciva con una delle sue frecciatine taglienti, le persone ne rimanevano ferite e lo evitavano.

Perché, adesso, quell’imbecille dai capelli inguardabili rideva come un matto?

«In realtà» disse quando si fu ripreso e reso conto del fatto che Matteo non si stava per niente divertendo «ero venuto a chiederti scusa per il gelato che ti ho lasciato da pagare…»

Si era aspettato di tutto: la scusa di una nuova canzone, il pretesto di aver finito prima lavoro o di aver fatto il turno di mattina, ma non aveva messo in conto la verità.

Quel ragazzo impacciato e timido, incapace di ammettere di essere omosessuale, aveva appena spiazzato il veterano.

Che cosa si rispondeva ad un’affermazione del genere?

“Scuse accettate” ?

Si, “Scuse accettate” andava benone.

«Andiamo a prenderci un caffè, Ricca.» nessuna domanda, era un’affermazione.

Sarebbe stato molto meglio il famoso “Scuse accettate”, ma Matteo non sapeva fare le cose che si prefissava, sapeva di poter dire ciò che voleva.

Intoccabile.

 

 

 

****

 

 

 

Afferrabile.

Riccardo non poteva che sentirsi esposto alla vista di una bellezza perfetta, come quella del bassista, che lo aveva appena obbligato ad andare in un bar insieme a lui. E se qualcuno li avesse visti? Se avessero subito pensato al peggio?

Riccà, rilassati. Le persone non pensano a due omosessuali, se vedono due uomini prendere un caffè insieme.

Il fatto era che la sua coscienza era, per così dire, sporca; sapeva benissimo che non stava andando a fare due passi con un amico, come poteva essere con Davide, ma non riusciva a smettere di fissare il sedere perfetto di Matteo.

Ecco, quella non era una cosa normale, una cosa che un ragazzo virile ventenne come lui non avrebbe dovuto pensare neanche nei sogni più deviati; era meglio concentrarsi su una bella ragazza immagine, magari vestita da infermiera, come piaceva a tanti uomini viscidi e schifosi e …

No, di certo quelle riflessioni non lo stavano portando ad un buon traguardo.

Matteo gli lanciò un’occhiata di sottecchi, mentre camminavano fianco a fianco per le vie di Torino, facendo sentire il già abbastanza ansioso Riccardo, ancora più a disagio.

Afferrabile.

«Va bene qua?» domandò il moro, fermandosi davanti al molto frequentato bar che, a quanto poté notare Ricca, era stracolmo di gente.

Si guardò intorno in cerca di un locale meno affollato, dove sarebbero passati indiscreti e, se gli fosse andata bene, non sarebbero passati come una coppia di froci.

Dio, che cazzo pensi, Riccà?

Adocchiò un bar che non prometteva un eccellente servizio, le vetrine impolverate e l’insegna al neon bruciata in diversi punti, cosa che rovinava la scritta “Caffè” in “Cfè”.

Era il posto perfetto.

Sei ridicolo, mormorò la sua coscienza, che nell’ultimo periodo lo martellava togliendogli anche la fame, nei giorni peggiori.

Ma Riccardo non aveva alcuna intenzione di ammettere che stava cercando di sotterrare i problemi e le paure, invece di affrontarle, perché voleva dire di essere un vigliacco, un codardo; così continuava a scusarsi, dicendosi che forse era normale essere un po’ nervosi, quando si aveva un gruppo musicale di successo, richiesto da decine di locali di Torino.

I Mad stavano facendo scintille. La notizia del loro concerto al Porto di Città si era sparsa in fretta, come un virus, ed in poco tempo erano diventati popolari nei sobborghi urbani, inducendo i pub più squallidi a contattarli per le loro serate.

Erano abbastanza esaltati, nonostante tutto.

«Che ne dici di quello là?» incominciò «Sai, ho dei problemi con la folla nei luoghi chiusi…» balbettò in un modo non troppo convincente.

Si rese conto che Matteo aveva un espressione saputa sul viso, il ghigno beffardo appena comparso, come se gli stesse dicendo “Ci sono passato anche io, bello, chi vuoi prendere in giro?”.

«Oh, non ne ho dubbi… Infatti suoniamo sempre in enormi stadi olimpici e parchi naturali.»

Afferrabile.

Cercò di trattenere il rossore, che però non tardò ad arrivare, facendolo sprofondare in quello che era un imbarazzo assoluto, senza ritorno. Avrebbe dovuto immaginarlo, che non avrebbe potuto prendere in giro un tipo sveglio come Matteo.

Comunque, il bassista non fece altri commenti e attraversò la strada, seguito da un Riccardo sempre meno sicuro di sé, avente la sola voglia di tornarsene a casa per rintanarsi nell’oblio della droga.

Non credere di scappare da te stesso creandoti una dipendenza da cocaina, amico, borbottò la sua coscienza, sempre più spazientita dal suo comportamento infantile.

Anche sua madre, che andava a fargli visita all’appartamento, lo ammoniva quando notava bustine con della polvere bianca sparse un po’ ovunque, in quella casa; un giorno, quando lo aveva trovato stordito sul letto, con occhi simili a due palline da tennis, era scoppiata a piangere, urlando che suo figlio era un drogato.

Ma cosa ne poteva sapere lei di ciò che significava essere un mostro?

Lei non doveva scappare costantemente dalla verità, dai suoi desideri, che erano così malati da indurlo a graffiarsi la pelle, cercando di farsi del male, perché si odiava.

Perché non si accettava.

Perché non poteva essere così.

La cocaina mi aiuta, concluse zittendo quella stupida voce che continuava a parlare, dentro di lui.

Si sedettero in uno dei tanti tavolini impolverati, prima di rendersi conto che quel posto faceva veramente pena; sembrava un luogo abbandonato, talmente era maltenuto e la cameriera era una vecchia anziana, probabilmente con otto ernie, che si avvicinava a loro con fare infastidito, come se gli unici clienti che aveva da un mese fossero indesiderati.

«Un caffè» disse Matteo, non appena vide la nonnina.

«Anche per me.»

Ci mise un po’ a tornare dietro al bancone, la vecchia, e con molte probabilità avrebbero atteso fino al giorno dell’Apocalisse per avere i loro due caffè, che sarebbero stati bruciati.

«Se scappi anche questa volta ti vengo ad acchiappare per la pelle del culo, perché non ti pago di nuovo il conto.»

Risero entrambi e per un attimo Ricca abbandonò il pensiero di essere sbagliato, perché stava ridendo di gusto, come non succedeva da parecchio tempo.

Forse, era perché non si sentiva giudicato, perché Matteo non si faceva problemi a dire ad alta voce di essere gay  ̶  dio, che pensiero  ̶ , anzi sembrava esserne fiero.

«Direi che rimango, anche perché scommetto che Davide non ha rispettato il turno in cucina e mi lascerà senza cena, quindi il caffè sarà il mio pasto.»

Matteo ridacchiò, sfoderano un sorriso che avrebbe lasciato senza fiato anche Brad Pitt.

No. Brad Pitt no, perché lui era normale.

Non avrebbe voluto finire in un altro bar, avrebbe preferito passeggiare, aveva pensato ad una camminata di cinque minuti di numero, giusto il tempo di scusarsi, per poi tornare da dov’era venuto con molta nonchalance.

Ma, ovviamente, la cosa non aveva funzionato, perché niente  ̶  ma niente per davvero  ̶  di quello che Ricca programmava, andava in porto.

«Allora, ehm, quest’esame?»

Ma certo, la prossima volta chiedigli se ricama la sera, prima di andare a dormire.

«Oh! Alla grande!» riuscì a vedergli gli occhi illuminarsi, in un emozione palpabile «li ho stesi tutti, quei figli di puttana! Non avrei potuto scrivere qualcosa di migliore.»

Modesto, il ragazzo.

Matteo era l’incarnazione della sensualità, cosa che lo rendeva estremamente sicuro di sé, quasi borioso, in effetti; ma lui non si preoccupava di apparire petulante o fastidioso, perché sapeva di essere affascinante ed interessante.

Riccardo si sentiva solo un completo idiota.

Afferrabile.

«Se fossimo stati in una commedia americana, a questo punto avremmo discusso riguardo a qualche merdoso filosofo, facendo uscire tutte le cose che avevamo in comune.»

Se lo lasciò sfuggire, perché non voleva davvero dire ad alta voce che stava pensando a loro come una coppietta  ̶  eppure l’idea di avere un ragazzo come Matteo glielo faceva venire duro  ̶ , però la sua bocca aveva agito senza il suo permesso.

«Si… lo stramaledetto colpo di fulmine! E poi magari saremmo andati a pattinare sul ghiaccio di notte, per poi coricarci sulla neve a guardare le stelle!» continuò Matteo, che non sembrava affatto sconvolto dalla sua affermazione, ma sembrava condividere quegli stupidi pensieri.

Riccardo trattenne a stento il sorriso che fremeva per uscire, perché l’emozione lo aveva messo sotto: ne aveva detta una giusta e il disagio sembrava essere improvvisamente svanito, come in quei cartoni animati in cui gli oggetti spariscono con un “puff”; stava ridendo tranquillamente insieme al ragazzo più intrigante che avesse mai conosciuto, parlando di film e musica, sorseggiando un caffè che avrebbe fatto vomitare chiunque.

Eppure lui era contento, contento come non lo era mai stato in vita sua.

Il fatto era che solo con Matteo riusciva ad abbandonare l’idea di sentirsi diverso e giudicato, ma allo stesso tempo la consapevolezza si faceva sempre più martellante, facendolo soffermare sul pacco del bassista.

Non mi rovinare anche questi momenti, coscienza del cazzo, pensò prima di mettere a tacere tutte le sue ansie sulla questione omo… omoses… omos… No, non riusciva neanche a pensarla, quella parola.

Mentre ridacchiavano per l’ennesima battuta tagliente di Matteo riguardo la donna della lavanderia di Corso Dante, Riccardo si chiese da quanto tempo erano seduti a quel tavolino, parlando di cose futili, che però erano essenziali.

Doveva tornare al lavoro, il turno probabilmente stava per iniziare e se fosse arrivato in ritardo, il capo del Supermercatino del cazzo non ne sarebbe stato molto felice. E nemmeno la sua paga.

E il suo stipendio era la cosa più importante.

«Devo tornare al lavoro…» mormorò guardando la tazza di caffè vuota.

Matteo non rispose, sorrise e andò alla cassa  ̶  una calcolatrice dei primi del Novecento  ̶  con quel passo seducente che non permetteva a nessuno di distogliere lo sguardo, nemmeno se fossi stato il più eterosessuale di tutta Torino.

Come poteva essere così bello? Avrebbero dovuto mettere dei divieti per la troppa bellezza, perché per le persone deboli come Riccardo non era un bene vedere tutto quell’armamentario.

Pagarono quello schifo che si ostinavano a chiamare caffè, per poi uscire nuovamente in strada, la consapevolezza di essere in compagnia di un uomo gay affascinante tornò a colpirlo e con essa il disagio e l’introversione.

«Ci separiamo qua, allora, io devo andare nella traversa a sinistra…» sussurrò debolmente Ricca, sperando che l’amico non si offendesse per quell’evidente imbarazzo di arrivare al lavoro con lui.

Ma Matteo non disse assolutamente nulla, non espose nessuna espressione, nessun segno di aver sentito ciò che il batterista aveva detto, ma fece una cosa così inaspettata che Riccardo rimase attonito. Si avvicinò a lui e, semplicemente, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, appoggiò le labbra sulle sue, prendendo a baciarlo.

Non è normale. Non è normale. Non è normale.

Mandando a quel paese tutto il buon senso del mondo, rispose al bacio, inducendo Matteo a far scivolare la lingua nella sua bocca, prendendo ad esplorarla in ogni suo centimetro; le mani del bassista si erano strette alla vita sottile di Riccardo, che ormai aveva perso qualsiasi cognizione di tempo e luogo, perché se avesse saputo che due anziani li avevano visti ed erano inorriditi, gli sarebbe preso un colpo al cuore.

Ma non importava, non aveva più alcuna importanza, perché le loro labbra sembravano essere fatte per stare unite, le loro lingue per roteare in quella danza d’amore, le loro mani per intrecciarsi in quella morsa senza via d’uscita.

Era intontito, ma non aveva alcuna intenzione di fermare le sue mani, che toccavano i morbidi capelli del bassista.

Pelle, profumo, labbra, lingue…

Matteo e Riccardo.

Uomo e uomo.

La consapevolezza tornò all’attacco nel momento meno inopportuno, scuotendolo quasi fosse un frullatore, per urlargli nel cervello che erano in mezzo ad una strada, Matteo era un maschio e lui lo stava baciando. Contro natura. Mostro.

Si staccò dal bassista, guardandolo con gli occhi sgranati, la paura leggibile sul suo viso, la voce che era scappata dal suo corpo.

Si girò e prese a correre verso il Supermercatino, lasciando Matteo lì, come un pollo, mentre le lacrime correvano veloci lungo le sue guance, incapaci di rimanere dentro.

Mostro.

Mostro.

Mostro.

Gli sarebbe servita una quantità industriale di cocaina, quella sera, per addormentarsi.

 

Afferrabile.

 

 

 

****

 

 

Miei cari lettori,

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la scena del bacio tra Matteo e Riccardo sia stata abbastanza veritiera, ci ho messo me stessa lì dentro, cercando di renderlo reale.

Ho voluto rendere l’idea dell’immensa differenza tra i due ragazzi con le parole opposte “Intoccabile” ed “Afferrabile”.

Un grazie speciale alla mia beta reader, Lavisvampita, che non si è ancora stufata di me e mi sopporta con pazienza e dedizione.

Vi sarei grata se lasciaste una piccola recensione.

 

Un abbraccio,

Eryca.

   
 
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