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Autore: niiietta    25/07/2012    1 recensioni
Il groppo alla gola divenne sempre più stretto, si trasformò in un singhiozzo. Si sciolse.
Lacrime calde solcarono il mio volto.
Nelle parole, leggo un segreto.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Dedico questa storia a MisSilvieLemon,
perchè è la mia migliore amica e per la sua bellissima storia

e a Enigmami_Arsenico 
per le sue bellissime poesie e perchè senza il suo appoggio, non ce l'avrei mai fatta.



Non ho mai avuto un buon rapporto con mio padre.
Fin da piccolo son sempre stato un ragazzo, per così dire, sognatore. Ho sempre amato l’arte, soprattutto la musica. Mi piaceva tanto ascoltarla ma, soprattutto, danzarla.
Ecco, questo a mio padre non piaceva.
Lui è un uomo di carriera. È un ingegnere, ha un suo studio privato in città, fuori dal nostro piccolo paesino in periferia e, da sempre, ha fatto della razionalità il suo modo di vivere.
Il mio esatto opposto.
Da piccolo ballavo sempre di fronte alla televisione. Amavo guardare i video musicali e imitarli mentre la mamma sbrigava le faccende domestiche. Ricordo sempre il modo in cui mi sorrideva quando le mostravo qualche nuova cosa che avevo imparato e anche quanto questo fosse per me lo spunto per continuare ad impegnarmi.
Ciò che ricordo altrettanto bene è il primo giorno in cui mostrai tutto ciò a mio padre. La gioia negli occhi di mia madre mentre mi guardava e subito dopo lo sgomento sul suo volto quando mio padre mi assestò uno schiaffo in pieno volto.
- Sei un maschio! - urlava - Non voglio mai più vederti fare una cosa del genere! -
Le urla di mia madre sono annebbiate nella mia mente. Quel giorno, dai miei occhi non sgorgò nemmeno una lacrima.
Per molto tempo non danzai più. Eppure era più forte di me.
La voglia era talmente soffocante che una volta, capitato di fronte a una scuola di danza classica in città, restai folgorato. Tra di loro c’era un ragazzo e si muoveva liberamente, come se quello fosse l’unico modo che gli permettesse di respirare. Quel ragazzo, ero io.
Frequentai le lezioni di nascosto, senza farmi scoprire da mio padre, e mia madre, in questo, fu mia complice.
Nel mentre il rapporto con lui non migliorava. Non andavamo d’accordo, fra noi non vi era mai un discorso, il tutto era sempre una discussione. Molte volte arrivò anche alle botte, la maggior parte per motivi futili, finché, a un certo punto, ci fu l’apatia totale.
Nessuno dei due parlava all’altro, ci si rivolgeva la parola solo con frasi di circostanza.
Questo durò fino alle superiori.
Io nel mentre continuavo a frequentare assiduamente le lezioni di danza. La scusa, era che andavo a giocare a pallone con alcuni dei miei amici. Molte volte ho rischiato di essere beccato, ma questo non successe. Arrivato il momento in cui avrei dovuto scegliere quale scuola superiore sarebbe stato meglio frequentare, mio padre non me ne diede neanche il tempo. Mi costrinse ad iscrivermi al Liceo Scientifico, quando io avrei preferito scegliere di tutto, ma non quello. I miei piani nella vita erano altri e lo studio sottraeva il tempo alla danza.
I miei voti a scuola, sempre abbastanza buoni, calarono drasticamente. Mio padre cominciò a tenermi d’occhio più assiduamente, organizzava sempre dei colloqui con i professori finché, stufo della situazione, mi punì. Non potevo uscire di casa, e questo mi sarebbe andato bene se non fosse stato per il fatto che non avrei più avuto la possibilità di frequentare la scuola di danza. La rabbia era tanta, più volte fui tentato di uscire di nascosto ma sarebbe stato rischioso perché mi avrebbe scoperto. Fu per questo motivo che lo convinsi a iscrivermi a dei corsi di recupero, in modo che potessi saltarli e usare tutto il tempo che avevo per trovare un posto dove danzare.
Durò poco.
Una sera mio padre, avendo staccato prima da lavoro, decise di venirmi a prendere fuori da scuola. Non l’aveva mai fatto eppure, proprio quel giorno, lo fece.
Mi aspetto per un po’, poi andò a chiedere informazioni all’interno dell’istituto. Io, al corso, non ci ero mai stato. Come una furia, si diresse a casa. Quando arrivò, io ero già lì.
Sbatté con forza la borsa e il cappotto all’ingresso e mi si avvicinò minaccioso. Io me ne stavo placidamente accomodato sul divano a guardare un programma TV, aspettando che la cena fosse pronta.
- Alzati! -urlò, furibondo.
Non capivo il motivo di tanta rabbia perciò, irritato, sbottai:- Si può sapere che ti è preso? -
Lo vidi assumere un colorito rossastro:- Non osare rivolgermi la parola in quel modo! -continuò a strillare.
Mia madre, allarmata, nel sentire quelle urla, ci raggiunse subito dalla cucina:- Che cosa sta succedendo? -chiese, spaventata.
- STA ZITTA! -le urlò contro lui.
Mi infuriai. Odiavo quando se la prendeva con lei.
Non diedi tempo a mia madre di rispondere qualcosa che mi alzai in piedi:- Mi puoi spiegare perché stai urlando in questo modo? -esclamai.
- TU! - continuò - Invece di preoccuparti del perché io urlo, dimmi immediatamente dove diavolo eri oggi! -
Sbiancai. No, non poteva essere vero.
- Ero... al corso -risposi, titubante.
- BALLE! - tuonò -Tu non hai frequentato neanche una sola di tutte le lezioni di quel maledetto corso! E ora, dimmi immediatamente dove eri finito!-
Dentro di me, quel giorno, accadde qualcosa. Avrei potuto trovare una scusa, avrei potuto dire qualsiasi cosa. Al massimo mi avrebbe controllato di più, mi sarebbe stato più addosso. Avrei preso qualche botta, qualche urlo, avrei risposto ma sarebbe tornato tutto come prima. Tutto come prima... io, questo non lo volevo. Ero stanco di dover fare tutto di nascosto. Ero stanco di sentirmi un peso. Ero stanco di sentirmi inutile. Ero stanco, stanco di tutto.
Per lui non ero niente, niente. Ero un altro di quelli affari che doveva portare a termine, uno dei soliti incarichi. Una volta diventato a sua immagine e somiglianza mi avrebbe lasciato stare. E io cosa ne avrei ricavato? Nulla. Un bel nulla.
Il mio sogno era precario. Non sapevo se ero bravo o meno, se un giorno ce l’avrei fatta. Eppure ci credevo. Volevo provarci. Dovevo provarci.
Quella era la mia vita, e non ci sarebbe stato modo di farmi cambiare idea.
- Ero a danza! -mi liberai. Mia madre trattenne il fiato con un suono sommesso che arrivò però alle mie orecchie. Arrivò nonostante fischiassero.
Tutto era troppo luminoso, troppo amplificato. Mi ero liberato.
Mio padre si gelò, boccheggiò. Pian piano rinsavì, prese colorito. Poi divenne talmente rosso che pensai stesse per scoppiare.
- Tu eri dove? - urlò, con voce strozzata.
- Ero a danza! - ripetei, sempre più convinto. Ormai era fatta e non sarei tornato indietro.
Lo schiaffo che ricevetti mi fece fischiare le orecchie più di prima. Caddi a terra, preso alla sprovvista. Lo strillo di mia madre lo percepii cupo, ovattato.
- Che cosa hai fatto! - urlò mia madre - Lascialo! -
- STA ZITTA! - urlò con più forza di prima mio padre.
Poi sporse un braccio in avanti e mi prese per la maglietta:- Tu eri dove?! - ripeté.
- A danza! - esclamai di nuovo. Un altro schiaffo mi colpì in pieno volto, stavolta più forte.
- TU ERI DOVE? - continuò, sempre più paonazzo.
- A DANZA! - risposi, con ugual forza. Il pugno che mi assestò per poco non mi fece urlare di nuovo. Udii mia madre piangere, i suoi passi affrettati sul pavimento. Avevo gli occhi chiusi, però seppi che stava cercando di allontanare mio padre da me perché lo sentivo dimenarsi.
- Lascialo! - urlava, la voce rotta dal pianto.
Mia madre non sopportava che mi facessero del male. E mio padre, ogni volta, lo faceva. In ogni modo, lo faceva. E la faceva sempre piangere.
Sentendo la rabbia montarmi dentro ancora di più, mi sollevai da terra e lo spinsi lontano da me.
- Sì! - sbottai - Ero a danza! Oggi come in tutti questi anni! Io non ho mai smesso di danzare! -
Stava per darmi un altro pugno ma gli trattenni la mano. Spalancò gli occhi, sorpreso.
- E’ inutile che continui a colpirmi! Non cambieranno le cose! Io amo danzare, è quello che voglio fare! -
Cadde il silenzio. L’unico suono erano i singhiozzi di mia madre.
- È questo quello che vuoi fare? - sibilò.
- Sì! - esclamai, fermo.
Con una calma che non gli apparteneva, gonfiò il petto:- Io un figlio del genere non lo voglio - mi disse.
Fu come una lama sprofondata nel petto. Una lama che mi trapassò silenziosa e veloce.
La rabbia scemò. Restò solo un rivolo amaro in gola.
- E allora non avrai un figlio - mormorai.
Mio padre non batté ciglio. Tenne lo sguardo puntato su di me.
Non dissi nient’altro. Voltai la faccia e mi diressi in camera mia. Non so cosa accadde nel mentre. Ricordo solo me, frenetico, che mettevo dei vestiti dentro una borsa. La voce di mia madre, che mi aveva seguito e che mi chiedeva disperata che cosa stessi facendo. Il rumore della zip fu la mia unica risposta, presi la borsa con l’occorrente per la danza nascosta sotto il letto e uscii dalla stanza. Quando fui di nuovo in salotto mio padre era nella medesima posizione. Non mi guardò.
- Mamma, scusami - le dissi. La sentii singhiozzare forte.
 
Avevo diciassette anni quando andai via di casa. Non vi rimisi più piede.
 
Diventai famoso. Girai teatri e compagnie di tutto il mondo. Mi esibii per spettacoli importanti e vissi il mio sogno fino all’ultimo. Mi sposai con quella che era una mia compagna di lezioni quando ero ragazzo.
Non vidi più mio padre.
Mia madre, invece, la incontrai spesso. Dopo un primo periodo in cui cercò di farmi tornare ai miei passi, e se non di tornare a casa almeno di perdonare mio padre, ci rinunciò.
Fu presente al mio matrimonio. Mio padre non venne. Ebbi qualche sua notizia solo da mia madre, poi più nulla.
 
Mancavano due settimane al mio trentaseiesimo compleanno quando mio padre morì. Mia madre mi chiamò in lacrime mentre ero alle prove di un tour. Un arresto cardiaco nel bel mezzo della cena, non si era potuto fare più nulla. Il modo in cui la notizia non mi sfiorò non mi fece stare tranquillo.
Interruppi il tour e decisi di tornare a casa. Dopo anni, tornare a casa.
Quando con la macchina attraversai il viottolo che conduceva alla nostra villetta a due piani, quasi non ci credetti. Non entrai dentro, aspettai mia madre fuori.
Aveva il viso pallido, smunto. Sotto le pesanti occhiaie e il pallore si celava il suo solito sorriso. Aveva un velo di malinconia, eppure mi colpì l’orgoglio e la gioia che ne trasparì. Mi sembrava di essere tornato a quando ero bambino, a quando mi sorrideva oltre il bancone della cucina e mi diceva parole di incoraggiamento. Di continuare, che ero proprio un bravo bambino. Le sorrisi nel modo più dolce che potessi fare e la feci salire in macchina. La messa sembrò durare pochissimo. Mia moglie, Francesca, passò la maggior parte del tempo a consolare mia madre, a sussurrarle parole di conforto. Io, a fissare l’immagine di mio padre nella foto sopra la bara. Il mondo parve perdere ogni senso. La testa mi sembrava come dentro una campana di vetro. Non percepivo più nulla, non capivo. Avevo perso ogni sicurezza, ogni punto fermo.
Mentre la voce cantilenante del prete ripeteva le sacre parole, io riuscii solo a perdermi.
 
Quando arrivammo a casa, mia madre era distrutta. Pareva che un macigno le fosse precipitato sulle spalle. Prima di andare a preparare il tè per me e mia moglie, si voltò a guardarmi.
- Perché non vai nello studio di tuo padre? - mi disse.
Non capii perché me lo avesse detto e quando glielo chiesi non mi seppe rispondere. Mi disse semplicemente che mi aveva detto solo ciò che sentiva giusto.
Quando salii le scale diretto al piano di sopra e mi trovai di fronte alla porta del suo studio, sentii un peso chiudermi la gola. Con mano incerta, abbassai la maniglia.
Era tutto come lo ricordavo.
Poche volte ero entrato nel suo studio, eppure me lo ricordavo benissimo. Se, in passato, però, avessi scattato una fotografia alla stanza, in quel momento, vedendola, avrei notato che invece qualcosa fuori posto c’era. Delle mensole. Mensole su cui vi erano vari DVD.
Gettai loro un occhiata fugace mentre sorpassavo la soglia. Sfiorai il muro, la pesante libreria, fino ad arrivare alla scrivania color noce posta vicino alla finestra. Vi era sempre quel vecchio catorcio che mio padre si ostinava a chiamare computer, vari fogli e penne sparse.
Poi la notai. Un agenda.
Con passo lento mi ci avvicinai. Non l’avevo mai vista prima, non sapevo nemmeno che mio padre avesse un agenda. Una consapevolezza si fece strada nella mia mente. Se mio padre pensavo non mi conoscesse per niente, nemmeno io lo conoscevo. Questo mi spiazzò più di quanto avrebbe dovuto. Con un groppo in gola che si faceva sempre più stretto, allentai l’elastico che la circondava e la aprii. La sua calligrafia, così rigida e perfetta, me lo ricordò più di quanto aveva fatto la sua foto sopra la bara. Cominciai a leggere. C’erano poesie.
Da quanto mio padre, sinonimo di razionalità, faceva un qualcosa di così libero come quello di scrivere poesie?
Cominciai a leggere. Erano parole bellissime. Non sembravano neanche le sue. Sfogliai varie pagine. Poesie, poesie, poesie. Ai margini, annotazioni, appunti. Poi, a un certo punto, le pagine si infittivano. Vi erano buttati giù pensieri, ragionamenti.
Poi cessarono. Voltai pagina e notai su incollato un ritaglio di giornale. Sopra, vi era una foto che mi ritraeva. Era un articolo sulla mia prima vittoria. In quegli anni, avevo vinto una competizione importante. Era stato da quel momento che la compagnia per cui avevo lavorato per più tempo mi aveva offerto un contratto. Sull’altra pagina vi era un altro ritaglio di giornale. Sfogliai ancora le pagine e ne trovai un infinità. Assieme a pubblicità, biglietti di teatro. Tutti, erano riguardanti me. Avrei potuto sfogliare la mia stessa carriera in quelle pagine. Foto, scontrini. Poi bianco.
Sfogliai le pagine restanti fino ad arrivare alla copertina del retro. Vi era una mia foto. Ero piccolo, potevo avere quattro o cinque anni. Sorridevo. La fissai talmente tanto a lungo che quasi non notai le parole che vi erano scritte sotto, in basso a destra.
Lui è mio figlio.
Il groppo alla gola divenne sempre più stretto, si trasformò in un singhiozzo. Si sciolse.
Lacrime calde solcarono il mio volto.
 
Nelle parole, leggo un segreto.
 
 
 
- Il Signor Bernardi è morto. -
Morto? Cosa voleva dire morto?
- Oh, mi dispiace... chissà come sta Giulia... hai saputo qualcosa del funerale? Vorrei andare a darle le mie condoglianze. -
Mia madre parlava con la nostra vicina di casa, la Signora Martini.
- Il funerale dovrebbe essere fra due giorni, nella Chiesa del paese. -
Funerale?
- Va bene, grazie mille per avermelo detto, magari dopo faccio un salto a casa sua per vedere come sta. -
Non sopportavo quando non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva mi destò. Corsi in camera mia per nascondermi.
Non passò molto tempo prima che potessi vedere il viso di mia madre comparirmi davanti. Mi sorrise.
- Come stai, tesoro? - mi chiese, avvicinandosi al letto. Si sedette al mio fianco.
- Sto benissimo! - le dissi, risoluta. Mia madre mi rivolse uno sguardo intenerito. Non capivo mai il perché mi guardasse così.
- Tu sei una bambina forte, vero? - mi disse, accarezzandomi i capelli.
Le sorrisi, raggiante:- Certo! -
Erano tante le volte in cui frequentavo l’ospedale. Alle volte dovevo stare lì anche per settimane, mesi. Eppure alla fine mi riprendevo sempre.
Odiavo gli ospedali. Dicevo sempre alla mamma che alla fine sarei stata meglio, che non c’era bisogno di portarmi lì. Ogni volta che non stavo bene, però, mi ci portava. E io mi arrabbiavo tantissimo.
Lo odiavo perché usavano tanti aghi e siringhe e a me facevano tanta paura. Non mi piaceva cosa mi davano da mangiare e mi piaceva ancora meno quando mi mettevano il tubicino al braccio e non mi facevano mangiare per un sacco di tempo.
La mamma diceva sempre che ero forte, che ero coraggiosa, che avrei dovuto avere pazienza, me lo ripeteva sempre. E io le davo ascolto perché non mi piaceva vederla piangere.
Dopo avermi controllata e rimboccato le coperte, uscì dalla camera lasciando la porta semiaperta. Sospirai.
Mi misi a sedere per guardare fuori dalla finestra. Un’altra cosa che non mi piaceva degli ospedali era quella che non c’era il mio letto. Da lì bastava mettermi seduta che avrei potuto vedere tutto ciò che succedeva fuori. Si vedeva il parco alla fine della strada e i bambini che giocavano. Mi rattristai un pochino.
Era da tanto che non giocavo con gli altri bambini, che non andavo a scuola. E mi mancava tantissimo. Chiedevo sempre alla mamma perché non potessi andare a scuola con gli altri e lei mi rispondeva sempre le stesse cose. Ero forte, ero coraggiosa e dovevo avere pazienza. Quando sarei stata meglio, sarei tornata a giocare con gli altri bambini.
E io lo facevo. Ero forte, ero coraggiosa e cercavo di avere pazienza.
 
Stavo mangiando la pasta al sugo, quella che mi piaceva tanto, mentre il papà e la mamma stavano parlando di ciò che aveva detto la Signora Martini quando era venuta a casa nostra quella mattina. Continuavano a ripetere cose come “è morto”, “funerale” e io continuavo a chiedermi che cosa volessero dire.
Il braccio di mio fratello mi passò davanti alla faccia mentre prendeva il sale. Voltai il viso verso di lui. Mi sorrise e mi scompigliò i capelli.
Continuavo ad ascoltare mia madre e mio padre. Proprio non capivo...
- Mamma, papà, cosa vuol dire che il Signor Bernardi è morto? - chiesi.
Si fermarono tutti. Ci fu un improvviso silenzio. Li guardai uno per uno, sbattendo perplessa le palpebre.
- Perché siete tutti zitti? - chiesi ancora. Vidi mia madre guardare papà in modo strano e papà ricambiare lo sguardo. Mio fratello rimase col sale a mezz’aria. Ma che succedeva a tutti quanti?
- Allora? - li incitai. Fu il mio papà a parlare.
- Tesoro, perché ci fai questa domanda? -
- Perché ho sentito che ne parlate da questa mattina e sono curiosa di sapere cosa vuol dire - risposi semplicemente. Mio padre si prese un altro secondo di pausa.
- Tesoro, vedi... quella parola, vuol dire che il Signor Bernardi se n’è andato - mi spiegò finalmente.
- Andato? Andato dove? - chiesi ancora. Notai mia madre che mi osservava con degli occhi tristi. Perché mi guardava così?
- Andato in un posto molto lontano - mi rispose mio padre, attirando di nuovo la mia attenzione. Lo guardai per un po’.
- E perché la Signora Giulia è triste? Se è andato da qualche parte ma prima o poi torna, no? - chiesi ancora.
Mio padre assunse lo stesso sguardo di mia madre. Vidi lei mettersi una mano a coprirsi la bocca per poi riprendere a mangiare. Riposai lo sguardo su mio padre. Intravidi mio fratello riprendere a mangiare proprio come aveva fatto la mamma.
- È  proprio questo che rende la Signora Giulia triste, Sara... lui non può tornare - mi sorrise tristemente mio padre. Ancora non capii.
- Perché non può tornare? - chiesi allora.
- Perché... - riprese, stavolta quasi senza lasciarmi finire di parlare - è andato in un posto talmente lontano che non può tornare più - mi rispose mio padre. Io ancora non capii ma preferii smettere di porre domande. Ripresi a mangiare la mia pasta al sugo, pensierosa.
Quale poteva essere questo posto talmente lontano da non poter tornare più?
 
Quella notte, dalla mia camera, sentii la mamma piangere. La voce di papà le diceva qualcosa che io non riuscivo a sentire, qualcosa che poi, alla fine, la fece calmare.
Pianse tanto però. E fece piangere tanto anche me.
Sarei dovuta rientrare a scuola fra qualche giorno. Ero seduta sul mio letto a guardare fuori dalla finestra con dei nuovi pensieri. Guardavo gli altri bambini e sorridevo, perché fra poco anche io sarei uscita lì con loro. Mancava poco, e anche io avrei potuto giocare sull’altalena, sullo scivolo. Avrei potuto rincorrerli, giocare ai castelli di sabbia. Avrei potuto fare tante cose e avrei smesso di essere a casa, sola e triste. Avrei smesso di guardarli e basta. Avrei partecipato, anche io. Finalmente, di nuovo, anche io.
 
È proprio perché avevo tutti questi bei pensieri che quando mi sentii male e mi risvegliai nel letto d’ospedale piansi tantissimo. La mamma cercò di rassicurarmi, mi disse di non piangere, altrimenti non sarei potuta guarire presto. Io però non la ascoltavo, non volevo sentire. Me lo aveva promesso, aveva promesso. Sarei uscita a giocare con loro, me lo aveva promesso. E ora, invece, stavo in quella brutta stanza a piangere di nuovo.
 
Stavo sul mio lettino d’ospedale. Mi faceva tanto male la testa, ero stanca. La mamma era uscita fuori dalla stanza per parlare con il dottore. Non riuscivo a capire perché in tutto quel tempo ero così stanca. Di solito stavo male, ma passato tutto questo tempo di solito stavo meglio. Non avevo neanche la forza di rigirarmi e avevo sete. Volevo chiamare la mamma ma non avevo voce. Quanto ci metteva?
Misi un pochino meglio la testa e notai che la Signora Agata, nel letto di fronte al mio, si era svegliata. Le sorrisi lentamente. Lei ricambiò il sorriso.
Era venuta in ospedale qualche giorno dopo di me. Anche lei stava male. Quando riuscivo ad alzarmi dal letto mi avvicinavo al suo e parlavamo tantissimo. Diceva che somigliavo alla sua nipotina e a me ricordava tanto la mia nonna. Mi raccontava un sacco di storie e quando potevo leggevo io a lei quelle che mi comprava nella libreria al piano terra mia mamma. Mi diceva che ero proprio brava, che avrei dovuto continuare a leggere e a me faceva tanto piacere farlo per lei.
Quando mia madre tornò in camera, aveva una viso pallidissimo. Mi preoccupai e puntai lo sguardo su di lei. Aveva gli occhi rossi.
- Mamma... - mormorai.
Si avvicinò subito al mio letto.
- Ti sei svegliata, piccola - mi disse, accarezzandomi i capelli. Mi piaceva tanto quando lo faceva.
Annuii un pochino. Lei continuò a sorridermi e io a guardarla.
- Ho sete... - mormorai ancora. Lei subito prese l’acqua dal comodino e me ne versò un poco in un bicchiere. Mi aiutò a sollevarmi e a berla. Avevo sempre la bocca secca, mi dava tanto fastidio. Quando mi sdraiai di nuovo, mi rimboccò le coperte. Amavo tanto anche quando mi rimboccava le coperte.
- Perché non ti riposi un altro po’, tesoro? -
Avrei tanto voluto chiederle perché aveva pianto, però ero davvero troppo stanca.
 
Ero riuscita ad alzarmi dal letto e mi ero avvicinata alla Signora Agata per parlare un po’. La mamma era di nuovo fuori che discuteva con i dottori e io avevo tanta voglia di parlare.
Quando finii di leggere il libricino, sollevai lo sguardo e la guardai soddisfatta. Lei mi sorrise, sollevò piano la mano e mi sfiorò i capelli.
- Sei proprio una brava bambina, però vorrei tanto che tu non fossi qui in ospedale a leggermi le storie... - disse, con la sua voce rauca.
- Perché, Signora Agata? - le chiesi - Non le piace più sentirmi leggere? -
- Si, ma preferirei che tu ora stessi a giocare con i tuoi amici... perché sei proprio una brava bambina - mi rispose. Poi fece lo stesso sorriso che mi rivolgeva tante volte anche la mamma. Io non capii ma decisi di annuire. La Signora Agata era solo preoccupata per me, vero?
 
Era notte fonda e sentii dei rumori provenire dal letto di fronte al mio. Dei respiri soffocati. Mi svegliai, mi sollevai un poco e mi guardai intorno. Vidi la mano della Signora Agata alzata verso l’alto, cercando di schiacciare il pulsante per chiamare le infermiere. Mi alzai dal letto e andai da lei il più velocemente possibile.
- Signora Agata, non si sente bene? - le chiesi, allarmata. Pigiai subito il pulsante per lei.
Vidi il suo braccio adagiarsi lentamente al suo fianco. Puntò i suoi occhi liquidi sui miei. Mi sorrise, come faceva sempre. Sembrò volesse dirmi qualcosa, poi li chiuse.
- Signora Agata? - la chiamai.
Non rispose.
La porta della stanza si spalancò. Le infermiere entrarono. Mia madre, nel letto a fianco al mio, si svegliò. Dopo, ci fu solo un via vai di persone e voci che si sovrastavano fra loro.
- SIGNORA AGATA, SIGNORA AGATA! - continuavo a chiamarla.
Ma il suo braccio, restava lì, immobile, al suo fianco.
 
Avevo il viso nascosto sotto le coperte. La Signora Agata non c’era. Nessuno voleva dirmi dove fosse andata. Quella notte mi avevano trasferito momentaneamente fuori dalla stanza e quando ero tornata lei non c’era più. Avevo provato in tutti i modi a capire qualcosa, eppure nessuno mi dava modo di farlo. Sentivo le voci del mio dottore e della mamma fuori dalla porta. L’avevano dimenticata aperta.
- La situazione non sta migliorando... -sentivo dire dal mio dottore - Probabilmente dovremmo ricorrere alla chemioterapia, signora... -
Chemioterapia?
- Chemioterapia? CHEMIOTERAPIA? -sentii urlare mia madre. Aveva una voce agitatissima. Affacciai il viso fuori dalle coperte ma potei vedere solo la porta chiudersi definitivamente.
 
Le infermiere stavano parlando fuori dalla mia camera. Mia madre era andata fuori a chiamare papà per comprarmi delle mele. Stavo leggendo uno dei tanti libri che leggevo alla Signora Agata e non prestavo loro attenzione quando sentii pronunciare proprio il suo nome.
- Chi se lo aspettava che sarebbe morta in quel modo... -
Mi bloccai subito.
- Già, povera donna... nessuno veniva mai a trovarla, era sempre sola... non se lo meritava di morire in quel modo.... -
Puntai il mio sguardo e la mia attenzione fuori dalla porta. Qualcosa nel petto si stava agitando. Morta?
Vidi mia madre oltrepassare la soglia ed entrare nella stanza. Aveva quel solito sorriso stampato sul volto.
- Papà ha detto che arriverà presto - mi disse. Io però non l’ascoltavo.
- Dov’è la Signora Agata? - le chiesi, allarmata. Mia madre si fermò di fronte alla porta.
- Perché me lo chiedi, tesoro? -
Non la ascoltai di nuovo.
- È morta vero? - le chiesi, la voce che mi mancava sempre di più. Respiravo veloce, il cuore in petto sembrava volesse esplodere.
Mia madre spalancò gli occhi e corse subito da me.
- Chi ti ha detto queste cose, tesoro? - mi chiese, spaventata. Ancora non la ascoltai.
- È morta vero? - balbettavo - Non tornerà più, vero? È questo quello che vuol dire, morire, vero? Ha chiuso gli occhi per sempre, vero? È per quello che mi ha sorriso, vero? -
Scoppiai a piangere. Mia madre subito mi abbracciò.
- Tesoro, calmati, perché stai dicendo queste cose? - continuava.
- Morirò anch’io, vero?! - dissi, con tutta la voce che avevo in corpo.
Mia madre si irrigidì. La sentii singhiozzare.
- No, tesoro, tu sei forte, sei coraggiosa, devi avere pazienza, guarirai - mi disse. Ma l’avevo già sentito troppe volte. Non ebbi la forza di rispondere.
Continuai solo a piangere e a piangere e a non crederle più.
 
Nelle parole, leggo un segreto.
 
 
 
- Giacomo, ti va di uscire, stasera? - gli chiesi, levandomi il casco dalla testa.
- No, oggi non mi va... - mi rispose. Eccola, di nuovo, quella voce.
- Dai, ci saranno Sergio, Michele, Vanessa e gli altri! Vedrai, sarà divertente! - cercai di convincerlo. Lui però non mi guardava negli occhi.
- Ho da fare - mi disse solo. Di nuovo.
Lo guardai a fondo. Sospirai.
- Va bene, ho capito - mormorai. Si voltò verso di me. Finalmente mi guardò. Mi mise una mano sulla guancia, sfiorandomi i capelli.
- Ci vediamo domani, ok? - mi disse. Di nuovo quel sorriso.
- D’accordo... - risposi solo. Si avvicinò e mi diede un bacio sulle labbra. Quando si staccò aprii gli occhi e li fissai di nuovo nei suoi. Di nuovo quello sguardo.
Salì sul motorino, lo mise in moto e partì. Lo guardai sparire oltre la via prima di avviarmi a casa.
Da un po’ di tempo Giacomo si comportava così. Era da otto mesi che stavamo insieme, ormai, eppure ultimamente non riuscivo a capirlo. Era sempre scostante, non usciva mai. Se uscivamo poi spariva all’improvviso e non si faceva sentire per giorni. Quando gli mandavo messaggi la maggior parte delle volte non rispondeva e quando lo faceva buttava lì frasi come “Avevo il telefono spento” o “Non ho sentito il messaggio” o “Stavo aiutando mio padre a fare una cosa”. Se lo chiamavo si tratteneva poco, come se non avesse voglia di sentirmi.
Lo so, sono stupida. Magari era solo un momento, magari aveva solo voglia di essere lasciato un po’ in pace. Io, però, avevo come l’impressione che l’unica persona da cui voleva essere lasciato in pace fossi io.
 
- Ha un’altra - sbottò Luisa, mia amica e compagna di banco.
Era l’ora di ricreazione e ci eravamo fermate fuori in cortile a parlare per un po’, come facevamo tutti i giorni. Il mio cuore perse un battito.
- Un’altra? - le chiesi, timorosa.
- Sì, un’altra - ripeté, dando un morso alla sua mela.
- Lu, non metterla più in ansia! - la rimbeccò Anna, altra mia amica.
Misi giù il tramezzino che stavo per addentare. Un’altra?
- Ecco, vedi? L’hai fatta anche smettere di mangiare! - continuò Anna.
Luisa fece spallucce: - Io ho detto solo ciò che penso! Secondo me dovrebbe solo stare un po’ più attenta, tutto qui! -
Anna le disse qualcos’altro e iniziarono a litigare, ma io non le ascoltai.
In mente solo una cosa. Un’altra?
 
Finalmente rispose al telefono.
“Hey, Chiara. Scusami avevo da fare”mi disse, non appena rispose.
Di nuovo.
- Oh, non preoccuparti, non era nulla d’importante. Volevo solo chiederti come stavi, visto che oggi non sei venuto a scuola - gli dissi.
“Ah”fece, distratto, “Si, scusami, è che anche stamattina avevo da fare...” mi disse soltanto.
- Oh, capisco... - mormorai. Presi coraggio: - Giacomo, sei sicuro che vada tutto bene? In questo periodo ti vedo un po’ distratto - buttai lì.
Stette in silenzio per un po’.
“Si, non preoccuparti”mi rispose, la voce un po’ indurita, “È solo che in questo periodo sono un po’ occupato.”
Feci una breve pausa. Sospirai.
- Mmh, ho capito. Ti va di vederci? Potremmo passare un oretta insieme - riprovai.
“Non posso”mi disse subito, “Devo aiutare mia madre a fare delle cose...”
“Mi dispiace”aggiunse poi.
Stetti di nuovo in silenzio.
- Non preoccuparti - gli dissi -Chiamami, più tardi, se ti va, ok? -
“Sì”mi rispose, “Ci sentiamo, va bene?”
- Va bene -
Ovviamente quella sera il telefono non squillò.
 
Non dovevo essere lì. Era una cosa molto stupida e cattiva, lo sapevo. Eppure non riuscivo a darmi pace. Per l’ennesima volta, mi aveva gettato delle scuse ed era sparito. E io, avevo deciso di seguirlo.
Lo so, è sbagliato, l’ho già detto. Ma, davvero, le parole di Luisa non riuscivano a farmi stare tranquilla.
Voltai a destra. Cercai di non perderlo di vista in mezzo alle macchine.
Stavo sul mio motorino. Di solito non lo usavo perché veniva a prendermi lui a scuola, era sempre lui quello che mi riportava a casa ed era il suo motorino quello che usavamo quando dovevamo uscire da qualche parte. Il mio lo usavo solo se dovevo uscire con le mie amiche o... beh, o in quel momento. Lo vidi parcheggiare vicino all’edicola sotto l’ospedale. Finalmente. Mi accostai dall’altra parte della strada. Lo vidi avvicinarsi all’edicolante, comprare una busta sorpresa, qualche altro libro o rivista e dirigersi al motorino. Ma che stava facendo?
No, non si diresse al motorino. Lo oltrepassò, si diresse verso l’ospedale, salì la grande scalinata in pietra ed entrò. Restai paralizzata.
Cosa diamine ci faceva in ospedale?
 
Quando tornò a scuola, il lunedì successivo, non riuscii a guardarlo in faccia. Mi sentivo in colpa per ciò che avevo fatto, per aver dubitato di lui, eppure, ora, un altro pensiero si era impadronito di me. Perché andava in ospedale? Era quello il posto dove andava ogni volta?
Ma, soprattutto... per chi ci andava?
Lui non voleva dirmi nulla ma io mi stavo preoccupando tantissimo.
Vedendomi strana, all’uscita, prima di salire sul motorino, si fermò a guardarmi.
- Chiara, è successo qualcosa? Ti vedo strana - mi chiese.
Non gli risposi. Non potevo davvero dirlo.
Oh, come puoi chiedermi cos’ho quando sei tu quello che veramente ha qualcosa?
 
Stavamo passeggiando in città. Erano già le nove passate e in quelle strade non c’era quasi più nessuno. Mi avvicinai un pochino di più a lui. Faceva veramente freddo. Mi strinse di più il braccio intorno alle spalle e mi baciò i capelli.
Decidemmo di sederci su una panchina prima di tornare a casa. Era da tanto tempo che non stavo un po’ con lui e non avevo proprio voglia di rientrare.
- Sai Chiara - cominciò a parlare - Penso che la vita a volte sia veramente ingiusta -
Lo guardai perplessa.
- Perché dici così? - gli chiesi.
Aveva lo sguardo fisso sul cielo e il chiarore delle stelle gli illuminava gli occhi.
- Perché certe cose accadono a me e non ad altri? Perché quella e non quell’altra persona? E perché succede proprio a delle persone che non se lo meritano? Perché? -
Lo scrutai a fondo. Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando, però gli dissi: - E perché proprio non a quella ma all’altra persona? Perché quella persona non se lo merita e magari qualcun altro sì? -
Lui si voltò a guardarmi. Il suo sguardo era liquido, irrequieto.
- Perché questa persona non se lo merita davvero - disse solo.
 
Era da una settimana che mancava da scuola. Se in quel periodo era stato assente ora era completamente scomparso. Il telefono non era raggiungibile, non veniva a scuola e vani erano stati i miei messaggi di segreteria. Cominciavo a preoccuparmi sul serio, per questo decisi di andare a casa sua. Era quasi ora di cena e speravo davvero di non disturbare. Suonai al campanello e mi rispose la voce di una donna.
- Sono Chiara, una compagna di scuola di Giacomo - risposi.
“Oh, Chiara.” fece la voce al citofono “Aspetta, ti apro.” mi disse. Poi si aprì il cancelletto. La vidi poco dopo comparire alla porta. Era una donna minuta, dai lineamenti dolci, propriamente materni. Un sorriso stanco e delle occhiaie, però, rovinavano il suo bel volto. Sorpassai il cancelletto e mi diressi alla porta d’ingresso.
- Vieni, entra - mi dissi. Salutai e feci come mi aveva detto.
La casa era vuota, cupa. Appena entrai mi sentii come se in quella casa mancasse un elemento importante.
- Vuoi qualcosa da bere, cara? - mi chiese. Aveva gli occhi rossi e fra le mani stava torturando un fazzoletto di stoffa a quadri.
- No, grazie - le risposi - Sono... solo venuta per sapere come stava Giacomo. Mi scusi per l’orario, ma ho potuto solo ora -
- Non preoccuparti - mi disse, con un sorriso triste - Vai pure, Giacomo è in camera sua. E’ la prima a sinistra dopo aver salito le scale -
La ringraziai e feci come aveva detto. Più salivo le scale e più quella casa mi sembrava vuota, triste. Arrivata di fronte alla porta che mi era stata indicata dalla donna, bussai. Non ricevetti risposta.
- Giacomo, sono io, Chiara... posso entrare? - chiesi allora.
Neanche stavolta ricevetti risposta, però la porta poco dopo si aprì. La sua figura apparve di fronte a me. Era palesemente sorpreso.
- Chiara? - mormorò, più come una domanda che come un’affermazione.
- Si, sono io - dissi stupidamente. Lui non disse nulla, mi fece spazio ed entrai.
Chiuse la porta alle nostre spalle e andò a sedersi sulla sedia della scrivania.
- Vieni, siediti - mi disse, indicando il letto. Feci come mi aveva detto.
Passarono solo alcuni secondi prima che lui mi chiedesse: - Come mai sei qui? -
- Ero preoccupata per te - risposi subito - È da una settimana che sei sparito e non ho più tue notizie -
Lo vidi abbassare lo sguardo, pensieroso.
- Si, scusami è che... non avevo proprio testa - mi spiegò.
Continuai a guardarlo.
- È successo qualcosa? - gli chiesi. Sollevò lo sguardo e lo puntò sul mio.
- No, non è successo nulla - mi disse.
- E allora perché sei sparito? Perché non avevi testa? - insistetti.
Lo vidi irrigidire la mascella: - Ero solo impegnato, non è successo nulla -
Mi spazientii.
- Giacomo, è normale che io mi preoccupi! Non puoi dirmi che non è successo nulla! È un periodo che mi rifili sempre le stesse scuse, eppure prima l’ospedale, poi quelle domande strane, poi... -
- Aspetta, ospedale? - mi interruppe. Gelai.
Lo guardai, senza sapere cosa dire.
- Ospedale? - chiese ancora, alzando la voce.
- Io... io ero preoccupata e... non sapevo dove finissi tutte le volte che mi dicevi che avevi da fare e... allora...- balbettai.
- E allora hai deciso che fosse bene seguirmi, vero? - esclamò, alzandosi dalla sedia. Sussultai.
- Giacomo io... scusami, è che sono così preoccupata! Non capisco cosa ti sta succedendo, tu non mi dici niente e io... io ho bisogno di capirci qualcosa! - cercai di spiegarmi.
- Seguirmi non è il modo per capirlo! Se non ti dico nulla, vuol dire che ci sarà un motivo! - continuò a urlare.
- Lo so, lo so! Ma cosa avrei dovuto fare? Cosa devo fare? Ecco, vedi? Anche adesso, non vuoi dirmi nulla! - dissi, alzando la voce anche io.
- E continuerò a non dirti nulla finchè voglio! Ho le mie ragioni e se proprio non puoi fidarti di me al punto da arrivare a seguirmi, allora non ho proprio voglia di parlarne con te, ora più che mai! -
Mi fece male. Tanto male. Sapevo di aver sbagliato, ma mi fece un male enorme.
- Va bene, ho capito - sussurrai, con voce strozzata. Sentivo il naso pungermi così come gli occhi. Non dovevo, non dovevo piangere.
Presi la borsa, che avevo poggiato vicino a me nel letto, me la misi in spalla e uscii velocemente dalla sua stanza. Scesi le scale di corsa.
- Chiara? - mi chiese perplessa la voce della madre di Giacomo, mentre mi dirigevo alla porta.
- Scusi il disturbo, e grazie mille. Ora devo proprio scappare - dissi velocemente.
- Chiara? Che cosa è successo? - mi chiese, alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso di me per aprirmi la porta.
- Nulla, devo solo tornare a casa. Ancora grazie - le risposi. Poi uscii di casa.
Il vento di dicembre mi pungeva sul viso, faceva talmente tanto freddo che le lacrime quasi non le sentii.
 
Erano passate altre due settimane. Me ne stavo sul divano in stato comatoso da giorni e come in tutti quei giorni mangiavo delle patatine e guardavo la TV. Sentii la porta di casa aprirsi e poi chiudersi e la voce di mia madre annunciare il suo arrivo. Poco dopo apparve in cucina.
- Stai ancora sul divano? - esclamò, severa. Non le risposi.
- Oggi ho incontrato la madre di quella bambina che è morta qualche settimana fa - cominciò a dire, mentre si dirigeva in cucina per preparare il pranzo. Di malavoglia mi alzai per apparecchiare la tavola. Era domenica e papà sarebbe rientrato di lì a poco per pranzo.
- Quale bambina? - le chiesi, distrattamente. Se il passatempo preferito di mia madre era quello di parlare di ciò che facevano tutte le persone del paese, a me non importava per niente.
- Come quale bambina? Sara, quella che era malata di leucemia! - mi disse, come se stesse parlando con una persona veramente tonta.
- Leucemia? - chiesi ancora.
- Ma si, quella che aveva un fratello che frequenta la tua stessa scuola! La madre si chiama Benedetta Stefani! Il marito è il proprietario di quella casa editrice importante, come si chiama? Ah, si, Giovanni Scarpa! -
Mi caddero le forchette dalle mani.
- Come si chiama il figlio? - chiesi velocemente, allarmata.
- Oh, quante cose che chiedi oggi! - fece divertita mia madre - Dovrebbe chiamarsi Giacomo, se non sbaglio... perché me lo chiedi? -
Non le diedi più ascolto. Corsi in camera a cambiarmi.
- Tesoro, ma che ti prende?! - mi urlò dalla cucina mia madre.
Uscii poco dopo con addosso non ricordo cosa, presi il casco, il cellulare, le chiavi, le misi in tasca e mi diressi alla porta d’ingresso.
- CHIARA! Dove stai andando?! È quasi ora di pranzo! - urlò ancora mia madre.
- Mamma, mi dispiace! Torno fra un po’, non aspettatemi! - le dissi, e uscii di casa. Mi sarei beccata una bella strigliata appena tornata, ma non mi importava. Misi il casco veloce, salii sul motorino e partii di corsa.
Come avevo fatto a non capirlo prima, come? Ora tutto tornava. Era tutto così semplice. Come avevo fatto a non credergli? Perché non avevo avuto pazienza? Perché, invece di pensare a quelle stupide cose, non gli sono semplicemente rimasta vicina? Perché mi son comportata così tanto da stupida?
Quando arrivai a casa sua avevo l’affanno nonostante non avessi corso.  Suonai il campanello e mi rispose, come settimane prima, sua madre.
- Sono Chiara! - dissi subito - Potrei parlare con Giacomo? - chiesi.
“Aspetta solo un minuto”mi rispose. Attesi per un po’, poi lo vidi comparire fuori dalla porta d’ingresso. Si diresse velocemente verso di me.
- Cosa ci fai qui? - mi chiese subito, duro - Stavamo mangiando e... -
Non gli diedi il tempo di finire. Gli buttai le braccia al collo e lo strinsi forte.
- Scusami! - esclamai, con quanta forza avevo in corpo.
Lui si irrigidì.
- Scusami, ti prego scusami! - continuai.
Rilassò lievemente le spalle. Non ricambiò l’abbraccio, ma nemmeno si staccò.
- L’hai scoperto, vero? - disse, con voce amara.
- Non è quello il punto! - continuai, con fervore - Mi dispiace e basta! Mi dispiace per come mi son comportata, mi dispiace per ciò che ti ho detto! Se non mi fossi comportata così, se avessi agito diversamente magari tu avresti parlato con me! -
- Chiara, io... - cominciò.
- No, aspetta! - lo interruppi - Non mi importa, davvero. Aspetterò, aspetterò tutto il tempo che vorrai. Potrai anche non parlarmi mai di nulla, potrai tacere su tutto ciò che vorrai. Io sono qui, però, va bene? -
Si lasciò andare fra le mie braccia. Nascose il viso sul mio collo.
- Si, va bene - mormorò.
- Andrà tutto bene - gli dissi, e presi ad accarezzargli la schiena.
Mi circondò i fianchi con le braccia e strinse forte. Un singhiozzo.

 
Nelle parole, leggo un segreto.
  
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