Martin
si svegliò di soprassalto con un urlo, il respiro affannato
e i muscoli tesi fino a fargli male, mentre una gocciolina di sudore si
faceva strada sulla sua tempia pallida e correva fin sotto il suo
mento, precipitando poi verso le lenzuola. Rimase lì seduto
con gli occhi spalancati per quelli che a me sembrarono una trentina di
secondi, muovendo a malapena il petto per respirare e senza smettere di
rabbrividire e fissare il vuoto per un solo istante, come se stesse
nascondendo qualcosa di orribile, poi deglutì e
s’inumidì le labbra, senza abbassare lo sguardo.
Il cuore gli batteva così forte che mi sembrava di vederlo
spingere contro il suo petto, in un vano tentativo di liberarsi e
fuggire dalla sua cassa toracica, e una grande vena gli s’era
ingrossata a dismisura sul collo, a causa dei muscoli contratti e della
posizione innaturale in cui si era messo. Anche lei non sembrava molto
intenzionata a rimanere dov’era, ma la sua mi pareva
più una battaglia silenziosa, passiva; si limitava a far
sapere al castano che non voleva stare lì, che voleva
staccarsi e trovarsi un’altra sistemazione, ma poi non osava
spingersi oltre e rimaneva immobile, come ad aspettare il momento in
cui il ragazzo stesso l’avrebbe lasciata andare con un gesto
spontaneo, regalandole la tanto bramata libertà.
Mi sentii invadere da un forte senso d’ansia e disagio e
rimasi come paralizzato per una manciata di secondi, incollato al
cuscino, poi deglutii e trovai la forza per alzarmi, spingendomi verso
l’alto con le mani e con un movimento del bacino; trovai una
posizione comoda in cui rimanere e tornai a fissare insistentemente il
ragazzo, che non sembrava essersi mosso durante quell’ultimo
minuto e che sembrava entrato in uno strano stato di trance. Se
possibile, mi sembrava ancor più terrorizzato e spaesato di
prima – sembrava un cucciolo che ha smarrito la strada di
casa e si ritrova in mezzo a un convoglio fermo di camper, dove per la
prima volta incontra l’uomo e dove per la prima volta viene
preso a calci per qualcosa che non è nemmeno importante
– e l’espressione sul suo viso richiamava
terribilmente quella di un animale condotto al macello, se vogliamo
restare in tema. Pareva essersi rimpicciolito di molto in quegli ultimi
istanti, i capelli scuri appiccicati al cranio sudato e gli occhi
circondati da un alone rossastro e inquietante, ma allo stesso tempo
sembrava che nulla fosse mutato, nonostante la schiena drizzata al
massimo e il rumore quasi impercettibile dei suoi denti che battevano,
arcata contro arcata; e faticai a tenere lo sguardo fisso e ben
focalizzato sul suo corpo, così immobile e innaturale da
sembrare una statua, ma allo stesso tempo così vivo e
sveglio da parer pronto a scappar via da un momento
all’altro. D’un tratto un tremolio prima debole poi
più forte partì dalla sua mano e salì
verso l’alto, arrivando a scuoterlo visibilmente da tutte le
parti, e il suo respiro teso si affannò ancora di
più, quando invece avrebbe dovuto cominciare a rilassarsi e
regolarizzarsi. Contrasse i muscoli delle braccia e si
avvinghiò alle lenzuola con tutta la forza che aveva in
corpo, finché le sue nocche non divennero pallide e
cominciarono a fargli male; allora allentò la presa e si
stabilizzò un attimo, chiuse gli occhi, serrò la
mascella e inspirò profondamente, come se stesse cercando di
entrare in un’altra dimensione ed eliminare il mondo dalla
stanza, e increspò le labbra in una smorfia un paio di
volte. Corrugò la fronte, sempre madida e imperlata di
sudore, e si leccò i denti davanti, trovando una specie di
conforto e sicurezza nel sentire il proprio sapore e il loro essere
sempre lisci, in qualsiasi occasione, ed espirò, buttando
fuori praticamente tutta l’aria che aveva nei polmoni e
rimanendo per qualche secondo privo di supporti e difese, come
quand’era piccolo e sua madre lo lasciava a fare la bada alla
spesa mentre lei andava a rimettere a posto il carrello.
Improvvisamente sentii un rumore e avertii il guizzo delle sue
orecchie, protese verso la penombra; i suoi occhi si sgranarono e le
sue mani scattarono in avanti, alla ricerca di un qualcosa da
stringere, per poi chiudersi attorno a un altro lembo di lenzuolo,
mentre il chitarrista si mordeva il labbro inferiore con tutta la forza
possibile e cercava di convincersi che non si trattava di niente di
pericoloso o in qualche modo importante, che era un rumore normale in
una casa normale e che non c’era assolutamente nulla da
temere.
Nonostante il senso di malessere che mi attanagliava le interiora e mi
pesava sul cuore, riuscivo a rimanere cosciente e a percepire i suoi
sbalzi d’umore, sentivo la paura correre dentro le sue vene e
fondersi con il suo lato pessimista in mille modi diversi, per poi
scindersi e riunirsi in nuove forme, più forti e credibili,
e la cosa mi metteva ancor più a disagio. Deglutii, finsi
d’ignorare il tremore quasi impercettibile che ancora lo
scuoteva, e posai la mia mano sulla sua, incredibilmente fredda e
magra, e lui si voltò a guardarmi, cercando nei miei occhi
chiari un segno di pace e salvezza che potesse esorcizzarlo da quella
paura improvvisa, da quel terrore che gli incombeva addosso da quella
che gli sembrava un’eternità e che stava
cominciando a fargli male sul serio. Strinsi le dita attorno alle sue
con più decisione e gli sorrisi, cercando con tutto me
stesso di apparire il più calmo e convincente possibile, e
con il dorso dell’altra mano gli accarezzai lentamente il
braccio, passando poi alla sua gamba scoperta e tesa. Sentii che pian
piano si stava rilassando e abituando al mio tocco delicato e mi
tranquillizzai anch’io, al punto di rompere la nostra stretta
per qualche secondo, giusto il tempo di avvicinarmi e abbracciarlo con
vigore, provando a trasmettergli una parte del mio calore. Eppure mi
sembrava tutto così strano e surreale: quella del castano mi
era parsa una reazione un po’ esagerata per un semplice
incubo - per quanto terribile esso potesse essere stato - e morivo
dalla voglia di scavare più a fondo e scoprire
cos’era che l’aveva intimorito fino a quel punto;
ma sapevo che avrei fatto meglio a non intromettermi e a lasciargli il
tempo di riprendersi da quell’esperienza, prima di provare ad
affrontare l’argomento.
Eppure, nel momento in cui lo abbracciai, ebbi come
l’impressione che non saremmo più riusciti a
dormire quella notte, e mi si accapponò la pelle con un
brivido, come se sentissi qualcosa di orribile incombere su di noi.
Deglutii, respirai a fondo e mi concentrai sul chitarrista, scacciando
dalla mente tutte quelle paranoie e sostituendole con pensieri di
scarsa importanza: l’ultima cosa di cui avevo bisogno era un
ulteriore motivo per agitarlo, e, detto fra noi, anch’io
cominciavo a non sentirmi bene per niente.
“Peter?”,
aveva mormorato Sweet una sera, alzando lo sguardo verso di me e
inumidendosi le labbra.
“Sì, Martin?”, avevo replicato,
sistemandomi il cuscino dietro la schiena.
“Tu ci credi ai mostri?”. La domanda mi era
sembrata così assurda che non avevo potuto evitare di
scoppiare in una sonora risata, ma me ne pentii appena incrociai il suo
sguardo, serio come non mai.
“Oh, scusa, pensavo scherzassi. Comunque no, non ci credo.
Anzi, penso che anche se esistessero girerebbero alla larga da qui,
perché finché sarò accanto a te non
permetterò a nessuno di farti del male, neanche a
loro”.
Martin aveva sorriso ed eravamo rimasti in silenzio per un po', a
goderci la notte.
“Tu non mi abbandonerai mai, vero Peter?”
“Puoi giurarci. Saremo amici per sempre”.
“Peter?”.
Non mi aspettavo di sentirlo parlare. Pensavo sarebbe rimasto in
silenzio ancora per molto, la testa posata sul mio petto e il mio
braccio che gli circondava il collo, andando a cadere sul suo petto
magro e ben delineato, ed ero più o meno convinto che
sarebbe passato molto tempo prima che riuscisse a smettere di
balbettare e a tornare più o meno normale, come prima
dell’incubo.
“Sì, Martin?” ribattei, arrotolandomi
distrattamente una ciocca dei suoi capelli attorno all’indice.
“Tu ci credi ai mostri?”. Sgranai gli occhi per
qualche decimo di secondo e lo guardai, attonito. Avevamo
già avuto quella conversazione anni prima, in quella stessa
stanza, in quello stesso letto, solo che eravamo molto più
piccoli e infantili, e quel breve scambio di battute si era rivelato
molto importante per Martin.
“Dì un po’, stai scherzando?”.
Si morse il labbro e scosse la testa, mugolando un no con un filo di
voce. Mi accigliai un attimo e lo guardai, ma mi sembrava serio e
sincero proprio come quella volta.
“No, Martin, non ci credo. E anche se esistessero, ci sarei
io a proteggerti” risposi. Lui si rasserenò per
qualche secondo, prima di tornare di nuovo cupo, e
portò la mano sul mio petto nudo, esitante.
“E se ti dicessi che l’ho visto?”
insistette.
“Visto chi?”
Espirò abbastanza rumorosamente, lanciò la testa
all’indiero e chiuse gli occhi.
“Il mostro”.
“L’ho visto, ti giuro che l’ho
visto!” continuava a insistere,
sbattendo i piedi a terra. Io non ci credevo: semplicemente non
potevano esistere mostri, non in quel mondo. Martin doveva esserselo
immaginato.
“Era qui! Era
proprio qui! - esclamò,
indicando un punto col dito e andando a sistemarsi proprio
lì, - Era alto, altissimo, e aveva degli artigli
lunghissimi! Non era un essere umano, questo è poco ma
sicuro, ma non era neanche un animale! Era bianchissimo, e la sua non
sembrava né pelle né pelo, chissà,
forse erano squame!”
“Martin, non
ti sembra di esagerare? Insomma, lo sappiamo entrambi che non
è possibile”.
“Ma c'era!
L'ho visto con i miei occhi! Era proprio qui!” aveva insistito, guardandomi con
aria disperata.
“Te lo giuro,
Peter, te lo giuro su mia madre! Era qui, ed era spaventoso!”
“Okay, okay, vuol dire che
stanotte dormirò con te e ti dimostrerò che quel
mostro è solo frutto della tua fantasia, va bene?” avevo acconsentito con uno
sbuffo. Tutta quella storia mi sembrava una gran cavolata.
“Però
se ho ragione io dovrai fare qualcosa per me” dissi, avvicinandomi al mio
amico.
“Che cosa?”
aveva chiesto lui.
“Mi lascerai dormire qui ogni
volta che vorrò”.
“Tutto qui?”
aveva storto la bocca,
deluso. Si era aspettato qualcosa di più dal mio essere un
tormento continuo.
“Già.
Tutto qui” mi
ero limitato a rispondere. Mi piaceva casa mia, certo, ma da Martin
c'era un'atmosfera molto più piacevole e rilassata, e poi
volevo rimanere vicino a lui in ogni momento possibile e immaginabile,
chissà che non gli fosse potuto accadere qualcosa di grave.
Se si fosse messo nei guai, sarebbe stato compito mio salvarlo e
aiutarlo a uscirne. Dopotutto, è quello che fanno gli amici,
no?
“E se vinco io?” s'informò Sweet.
“Verremo
sbranati tutti e due e non rivedremo più le nostre madri.
Non so se ti conviene vincere” sorrisi, mettendogli una mano
sulla spalla con una risata. Martin s'irrigidì e finse di
ridere.
“Allora a
stasera”.
“A stasera”.
Strizzai
gli occhi con decisione mentre i ricordi mi assalivano, disseminati
senza un ordine ben preciso nel mio cervello, come se fossero stati
lanciati lì a caso giusto per confondermi un po' le idee.
“Martin, i mostri non esistono” ripetei, mettendo
più enfasi possibile sul non.
“Tu non capisci Peter, ti giuro che era
lì” sussurrò il castano con voce rotta,
sprofondando il viso nel mio petto pur di non essere costretto a
guardare nuovamente in quella direzione e correre il rischio di
scorgerlo di nuovo.
“Lì dove, Martin?”. Indicò lo
stesso punto di quasi diciassette anni prima e mi sentii rabbrividire.
“Non vedo niente” osservai, cercando di distinguere
un pochino i suoi contorni.
“Ti giuro che era là” insistette Sweet,
alzando la testa dal mio petto.
“I mostri non esistono” ripetei, accarezzandogli la
guancia col dorso della mano.
“Ti dico di sì, invece. Lui esiste”
esclamò, spingendo via la mia mano e portandosi la sua sopra
gli occhi.
“Vuoi che vada a controllare?” proposi. Scosse la
testa.
“Non voglio che ti sbrani”.
“Non mi sbranerà, vedrai - lo tranquillizzai, - i
mostri non esistono”.
Cominciai a tirarmi su.
“I mostri non
esistono. Semplicemente, non possono esistere. Hai presente la scienza
di oggi, no? Se ci fossero davvero dei mostri lo sapremmo, sapremmo
come sono fatti e di cosa si nutrono, e sapremmo anche dove vivono.
Sapremmo tutto di loro e non ci sarebbe più bisogno di
averne paura, perché li conosceremmo proprio come conosciamo
le volpi e sapremmo sia come neutralizzarli che come farceli amici”.
“Oh, andiamo,
smettila. Ti dico che l'ho visto!”
“Dai,
è ridicolo, magari hai avuto le allucinazioni”.
“Ma che
allucinazioni, era reale, realissimo! Sento ancora quel suo alito
puzzolente sulla pelle”. Rabbrividì.
“Io.. voglio
che muoia. Che se ne vada, che si trovi un'altra casa, che mi lasci in
pace. Non lo voglio più qui”.
“Non
può andarsene, se vive nella tua testa” avevo obiettato.
“Non vive
nella mia testa, esiste davvero!”
“Anche il tuo
vecchio amico immaginario esisteva, ma devi ammettere che viveva nella
tua testa”.
“Stavolta non
è la stessa cosa, te lo giuro”.
“Hmmm,
sarà.. Comunque ci sentiamo dopo che mamma vuole il
telefono. Ciao!”.
Avevo
ripreso a ricordarmi di tutte le conversazioni che avevamo avuto sul
mostro, delle descrizioni che mi aveva fornito Martin, dei disegni che
mi aveva fatto, delle azioni che aveva svolto in sua presenza - di
tutto ciò che lo potesse riguardare in qualche modo, insomma
- tutto d’un colpo, e la cosa mi aveva lasciato in bocca un
gusto fastidioso. Avevo dormito da Sweet per tre notti di seguito
all’epoca, ma ovviamente non s’era visto niente,
nonostante le varie esche che avevamo messo e le ronde che
eseguivamo almeno due volte per notte per controllare ogni centimetro
quadrato di casa sua. Semplicemente, il mostro si era volatilizzato.
“Ti ricordi di quando lo vedesti, quando avevamo sette
anni?” mormorai, tirandomi lentamente a sedere.
“Te lo dissi anche allora: i mostri non esistono.”
“E come fai a dirlo?” insistette.
“Guarda tu stesso” sorrisi, sporgendomi e
accendendo la luce. La stanza venne illuminata di colpo e fummo
costretti a socchiudere le palpebre per qualche secondo, prima che ci
abituassimo al nuovo ambiente.
“Bene, vedi qualche mostro?” domandai. Rimase in
silenzio per qualche secondo, guardandosi intorno.
“No..” rispose infine, abbassando lo sguardo.
“Quindi?” lo incalzai io, incitandolo a proseguire
e ammettere che avevo ragione.
“Quindi si è spostato da qualche altra
parte” rabbrividì, sentendosi improvvisamente un
colpo al cuore.
“Dio, Peter, andiamocene, ti prego”
piagnucolò di colpo, stringendosi forte a me.
“Ma ti pare?” replicai, aggrottando le sopracciglia.
“Ti prego Pete..” riprovò, chiudendo le
dita sulle mie. Lo guardai negli occhi e la sua paura mi fece
sussultare.
“Okay, okay, va bene, ho capito. Dammi giusto il tempo di
vestirmi, okay?” acconsentii, alzandomi dal letto.
“Ah, già che sono qui, vuoi che ti passi qualcosa
in particolare?” gli chiesi, fermandomi un attimo davanti al
grande armadio in legno e voltandomi a guardarlo, la mano
già sulla maniglia pronta a scattare.
“Un paio di jeans andrà più che
bene” tagliò corto, guardandosi freneticamente
intorno. Aprii velocemente l’anta e lo vidi sbiancare di
colpo, così mi voltai e mi scontrai con due enormi occhi
gialli, leggermente infossati in un volto fin troppo grande.
Indietreggiai instintivamente e la creatura si protese in avanti,
svelando una lunga fila di denti bianchi e aguzzi come quelli di uno
squalo, pronta a farmi a pezzi alla mia prossima mossa. Urlai a Martin
di scappare e mi lanciai dalla parte opposta, attirando il mostro
dietro di me.
Sono passati sette minuti, forse dieci.
Lo sento ridere e raschiare contro la porta, e la piccola barricata che
ho costruito non reggerà ancora a lungo, però ho
sentito le richieste d’aiuto di Martin dal fondo della
strada, quindi almeno lui si è salvato. E’ questo
che conta, alla fine, che la sua vita sia sana e salva.
D’altronde, non è compito di ogni amico
assicurarsi che la sua anima gemella stia sempre bene?
Il mio compito l’ho svolto, e anche se dovessi morire ora,
morirei felice.
Mi dispiace solo di averti preso in giro per questo. Avevi ragione,
Martin, i mostri esistono.
Ma non per questo dobbiamo vivere nella paura.
Mi svegliai di colpo con un
urlo.
Avevo fatto di nuovo quel sogno - un fastidioso incubo ricorrente e
terribilmente frustrante che mi perseguitava ormai da diversi giorni,
ogni volta che chiudevo gli occhi e cercavo di addormentarmi.
C'è chi dice che i sogni a volte sono premonizioni, ma io
non ci credo. Non permetterò mai a quel ragazzino di
scapparmi. Mai.
“Umea, Svezia, 13 luglio 2005.
Ragazzo ventiquattrenne gravemente ricoverato dopo l’attacco di quello che si suppone essere un animale selvatico di grossa taglia, non ritrovato sul luogo dell’aggressione.
Il ragazzo, bassista della band
glam metal Crashdiet, originaria delle terre del nord, è
stato trovato questa notte, intorno alle ore tre, dal corpo di polizia,
sollecitato a intervenire dalla chiamata del chitarrista della medesima
band, nome d’arte Martin Sweet. Il giovane
afferma che, dopo aver passato la notte nella propria casa di famiglia,
è stato svegliato da un rumore sospetto proveniente dai
piedi del letto. Peter London, la vittima, si sarebbe svegliato assieme
a lui, senza però notare niente di strano e decidendo di
controllare solo a causa del terrore dell’altro. Avrebbe
acceso la luce, ma tutto sarebbe risultato normale e si sarebbe fatto
due risate, probabilmente adducendo l’esagerata reazione
dell’altro
a un bicchierino di troppo e minimizzando tutto come suo solito. A quel punto
si sarebbe alzato, dopo le suppliche dell’amico, per prendere
un paio di jeans e cambiarsi, in modo da andare a passare la notte a
casa di qualcun altro, in una zona un po’ più
sicura. Avrebbe aperto l’armadio e si sarebbe
ritrovato la bestia davanti, alta più di due metri e con un’aria decisamente
aggressiva;
si sarebbe quindi fiondato verso il bagno, attirando la belva e
permettendo all’altro
di mettersi in salvo.
Nonostante l’intervento
della polizia sia stato tempestivo, l’animale non
è stato ritrovato, ed il tipo di ferite riscontrate dal
musicista non coincide con nessuna di quelle praticate dalle bestie a
noi conosciute.
E’
stata indetta un’inchiesta,
ma nessuno sembra aver notato niente, se non qualche persona che
afferma di aver visto il diavolo allontanarsi con fierezza. E chi lo
sa, forse, per una volta, il signore degli Inferi è davvero
venuto a farci visita, a spese di qualcuno che però non
aveva fatto niente.”