A
study in Sherlock
When the rain is blowing in your face,
and the whole world is on your case,
I could offer you a warm embrace
to make you feel my love.
Bob
Dylan
John Watson gli
stava nascondendo qualcosa. Era l’unica opzione possibile e
la cosa lo stava maledettamente infastidendo. Lo continuava a fissare
da giorni come se fosse una stupida cavia da laboratorio –lui,
il grande Sherlock Holmes– e
prendeva appunti su uno stupido taccuino nero, passandosi di tanto in
tanto la penna tra le labbra dischiuse –lo
voleva decisamente morto.
Aveva provato ad…acquisirlo in tutti i modi, ma
tutto sembrava andare contro di lui e John aveva preso il vizio di
portarselo sempre con sè. Sherlock aveva pensato di provare a
leggerglielo addosso, cosa stava combinando contro di lui, ma tutto
ciò che riusciva a dedurre erano nozioni superficiali che
non portavano a nessun risultato. Il compleanno di Sherlock era troppo
lontano per cercare un’ipotetica idea per un regalo,
così come le vacanze natalizie. Quindi niente doni, niente
appunti per un nuovo caso, complice il noioso silenzio di Lestrade,
niente di niente che potesse fargli capire cosa scrivesse tutto il
pomeriggio. Quel John così misterioso e imperscrutabile
stava diventando una spina nel fianco troppo dolorosa per reggere
ancora, quindi Sherlock incominciò a stendere la sua tela.
John Watson
aveva avuto una brillante idea ed era intenzionato, per una volta, a
portarla a termine senza ripensamenti. Essendo decisamente stufo di
quell’essere introverso e misterioso che era il suo
coinquilino –migliore
amico, collega, compagno di avventure, compagno di
letto…quante cose era diventato?– aveva
deciso ad un ingegnoso piano d’attacco.
L’aveva
chiamato ‘Uno studio in Sherlock’, la banalità
del titolo era una prova evidente della sua scarsa fantasia. Ogni
giorno si alzava dal letto –che
fosse piacevolmente occupato o desolatamente vuoto– e
cercava di adottare gli stessi metodi con la quale Sherlock lo
affascinava in ogni caso. Si era impresso nella memoria la
tonalità più profonda nello sguardo del suo
coinquilino la sera tarda, quando suonava una di quelle canzoni tristi,
accostato alla finestra.
Aveva seguito i
suoi gesti mentre faceva complicati esperimenti sul tavolo, le mani
bianche che giravano, prendevano e premevano come quelle di un medico
con un paziente particolarmente fragile, quei momenti in cui sedeva a
testa in giù sul divano semplicemente perché si
annoiava, o quando faceva i soliti gesti quotidiani quali bere dalla
sua tazza di the –in
modo indecente– o usare
il telefono durante il viaggio in taxi. Era arrivato a un punto in cui
aveva deciso di usare un taccuino per stare dietro a tutto
ciò che faceva Sherlock, mentre sentiva gli occhi
dell’altro perforare il cuoio nero del quadernetto per
scoprire ciò che ci scriveva John. Quest’ultimo
aveva capito più che bene l’irritazione che
Sherlock stava covando in quei giorni per lui e la sua maledetta penna,
quindi ci prendeva più gusto di quanto volesse ammettere
realmente. Per una volta non era lui quello in svantaggio
sull’altro.
Nella prima
pagina del suo taccuino John aveva scritto con cura il nome di Sherlock
nella prima riga, soffermandosi ad incurvare elegantemente la S in modo
da rendere giustizia a quel nome tanto strano quanto bello –un
po’ come la persona che lo possedeva.
Aveva poi
incominciato a scrivere tutte le caratteristiche di Sherlock, cercando
di essere il più obbiettivo possibile e di non farsi accecare da quel
tumulto di emozioni che il solo pensarlo esplodevano in lui senza
limiti. Egocentrico, pigro –quando
voleva– introverso,
impaziente, intelligente, creativo, dinamico, sexy –ops,
cosa diceva sull’offuscamento di pensieri?– fuori
dal comune, innocente, calcolatore, arrogante, dolce –in
quei suoi rari momenti in cui si lasciava coccolare nel letto o sul
divano– esibizionista,
possessivo, protettivo, ironico…John aveva riempito una
pagina piena solamente descrivendo Sherlock Holmes, l’unico
consulente investigativo al mondo.
Dalla seconda
pagina in poi John aveva incominciato a scrivere ciò che gli
passava per la testa. Frasi sui suoi comportamenti, sui suoi
ragionamenti e anche sulla piacevole piega che aveva preso il loro
rapporto, facendo diventare il medico estremamente guardingo riguardo a
quel taccuino che conteneva ormai parole scomode per un uomo tutto
d’un pezzo qual era lui. Nel suo studio di Sherlock aveva
notato come tutto ciò che il detective vedeva o sentiva
veniva solamente catalogato come nozione, per poi essere inserita tra
le cose di reale importanza o nella sua spazzatura mentale. A John un
po’ dispiaceva che non riuscisse a godersi pienamente il
mondo che lo circondava, che non riuscisse a vedere la bellezza di un
paesaggio senza pensare a un possibile omicidio nascosto tra gli
alberi. Solo una cosa aveva attraversato la traiettoria di Sherlock e
quella cosa era il cielo.
Quando, nel caso
del dipinto falso, John aveva scoperto la reale genuinità
dell’anima di Sherlock, nascosta sotto strati e strati di
cinismo, era rimasto senza fiato. Era vero che teoricamente parlando
l’aveva reputato come un’inutile ingombro di spazio
nel suo hard drive, ma fatto rimaneva che catturava la sua attenzione e
tanto bastava a far capire a John quanto il suo compagno potesse
ritenere meravigliosa una cosa così quotidiana come delle
stelle in un cielo scuro. Aveva sentito il cuore di Sherlock
così vicino da credere di poter allungare le dita per
poterlo toccare. Un cuore di vetro, probabilmente.
Fatto sta che il
cuore di John, quella notte era caduto insieme a una stella cadente.
C’erano
state altre volte, invece, in cui John aveva osservato Sherlock immerso
nel suo Mind Palace, sdraiato sul divano ad occhi chiusi. Quando, un
brutto giorno piovoso di dicembre, aveva notato un lampo di tristezza
passare per le iridi chiare, aveva sentito una morsa
all’altezza del cuore che gli aveva fatto desiderare di
toccarlo e promettergli che non lo avrebbe mai più lasciato
solo, anche se tutti lasciavano tutti, prima o poi.
John aveva
scritto anche dei rari momenti in cui Sherlock aveva aperto il suo
guscio fatto di aculei e aveva fatto vedere la parte assolutamente
splendida che c’era dentro di lui. Quelle volte in cui
coccolava superficialmente la signora Hudson
–a John appariva sempre un sorriso quando era spettatore di
quelle scene– o
quando era proprio lui il centro delle sue attenzioni.
Sapeva che
Sherlock non era affatto solo cervello e razionalità, aveva
sentito del buono in lui dal primo giorno in cui avevano condiviso
l’appartamento e quella certezza si era rafforzata di volta
in volta, prendendo una consistenza materiale; c’era molto
più bontà in lui di quanto egli stesso credeva.
John aveva
pensato che Sherlock si potesse sentire solo, ogni tanto, sempre chiuso
tra le mura della sua intelligenza elevata da trovare noioso e ridicolo
tutto il resto. Tutto il resto tranne John, sperava, ma non avevano mai
toccato l’argomento, vuoi per imbarazzo da parte di John,
vuoi per la brava tradizione inglese di mantenere ognuno i propri
spazi. Tranne il piccolissimo particolare che John non aveva
più uno spazio personale da quando il suo coinquilino glielo
aveva confiscato senza chiedere –aveva
fatto così con tutto di lui, pezzo per pezzo. John
si sentiva come un prescelto per aver visto almeno una piccolissima
parte della specialità di Sherlock e probabilmente lo era
davvero, vista la sua rubrica telefonica.
John aveva
semplicemente scritto di Sherlock, per giorni. Pagine piene, alcune
annotazioni a bordo pagina, delle cancellature scure che contrastavano
con il colore bianco del foglio. Si era chiesto, nascosto tra quelle
pagine che gli suonavano come fidate confidenti, se Sherlock non
volesse che uscisse con nessun altro che non fosse lui
perché voleva averlo tutto per sé o semplicemente
volesse tenerlo sotto chiave per non aver paura che trovasse qualcun
altro con cui passare il tempo. Si era chiesto se quella pseudo
relazione in cui vivevano lo soddisfacesse in tutti i modi in cui
soddisfava John o se lui lo facesse solo perché era
l’unica persona che gli era sempre stato accanto, come un
fratello. Aveva scritto anche della sua famiglia, per quel poco che
aveva sentito dire, o delle sue relazioni con Lestrade, Molly, Donovan
e Anderson –decisamente
pagine non positive per ovvi motivi. Gli piaceva studiare
Sherlock e quando chiudeva quel quaderno sentiva una strana sensazione
diffondersi per tutto il corpo, come se avesse adempiuto al suo dovere,
come se comportandosi così stesse effettivamente
più vicino a Sherlock proprio come quando lo stringeva nel
buio della sua camera da letto.
Forse era il
sintomo dell’innamoramento, una nuvola di leggerezza dentro
di sé e al suo fianco.
O forse era
semplicemente Sherlock Holmes, un bellissimo enigma che rimaneva
irrisolto nonostante tutti i buoni propositi.
“John!”
Tuonò in modo petulante la voce di Sherlock dal salotto.
“John Watson!” Ripetè, scandendo bene
ogni sillaba. Dio, era snervante quando cominciava così. Tre
giorni senza un caso da risolvere e ritornava allo stato di asilo nido
nel giro di un nanosecondo. “Sto cucinando, Sherlock, non
posso stare ai tuoi ordini.” “Ma non mi sento
bene!” John si fermò davanti ai fornelli,
sbuffando nervosamente. Sapeva per
certo che
quello che stava dicendo il suo coinquilino era tutto uno stupido piano
per avere la sua attenzione, ma ciò non faceva calmare il
suo stupido animo da dottore altruista. ”Che sintomi
avresti?” Borbottò dalla cucina, tenendo le
orecchie in allerta e sentendo un lieve tossire dall’altra
stanza. “Penso di avere la febbre, John.”
Strascicò. Sospetto, decisamente sospetto.
L’ultima volta che Sherlock si era ammalato l’aveva
scoperto con difficoltà –probabilmente
se non fosse stato un medico non ce l’avrebbe fatta vista
la sua cocciutaggine– e aveva
dovuto usare la forza per trattenerlo a letto per almeno un giorno. “Sherlock,
se mi fai venire di là per niente è la volta
buona che…” lasciò sfumare la frase,
sapendo benissimo che ogni minaccia sarebbe stata del tutto ignorata o
derisa. In fondo, che cosa voleva fare contro Sherlock Holmes? Era
già tanto se riusciva a tenergli il muso per un giorno
intero senza capitolargli davanti come un adolescente con gli ormoni
impazziti. “John, potrei morire da un momento
all’altro!” Quante diavolo di volte doveva ripetere
il suo nome? Il melodramma era di casa dagli Holmes, questo era certo.
Lasciò perdere il sacchetto di pasta mezzo aperto e si
fiondò in salotto, con un cipiglio irritato sul viso.
Sherlock era
ovviamente sdraiato sul divano, la vestaglia che strabordava fino a
finire sul pavimento e la camicia tutta stropicciata. Si
avvicinò al sofà mentre gli occhi di Sherlock lo
seguivano insistentemente. Appoggiò la mano sulla sua fronte –lascia
perdere i brividi, lascia perdere i brividi– avvalorando
così la sua tesi iniziale.
“Sei
freschissimo, Sherlock.” Un sorriso furbetto nacque sul viso
del consulente investigativo. “Che bravo dottore.”
Sussurrò, passandosi la lingua tra le labbra. “Ora
potresti passarmi il telefonino?” “Avrei voglia di
tirarti un pugno in questo momento.” Disse fra i denti John,
prendendo dal tavolino –ci
voleva così tanto ad allungare un braccio?– il
cellulare in questione.
“Oh,
sono sicuro che tu voglia mettermi le mani addosso, John. Non sono
sicuro in quale situazione
vorresti farlo.” Il medico sbarrò gli occhi,
rimanendo immobile per una manciata di secondi. Dove era finito il
ragazzo che si allarmava alla parola sesso? John si chiese se non fosse
stato lui a cambiare le valvole di quella macchina tutto cervello.
Si
schiarì la voce, appena la presa di Sherlock si chiuse sul
telefono nella sua mano. “E’ tutto?” Dio,
suonava tanto come amabile cameriere. “In realtà
no…” John rimase ad ascoltare la fine di quella
frase che non arrivò. Lo stava prendendo in giro?
“Non vuoi scrivere anche questo sul tuo caro
taccuino?”
Ah, ecco qual
era il problema. John già stava pregustando l’aria
di quieto isterismo che sarebbe derivata da quella conversazione.
Ritornò in cucina non concedendogli nessuna risposta, con un
indelebile sorriso stampato in faccia. “John! John odio
essere ignorato!” “Anche io odio un sacco di cose,
Sherlock, ma bisogna imparare a conviverci.”
Lo vide
comparire nel vano della cucina con le braccia incrociate.
“E’ per caso un sottile insulto nei confronti del
mio carattere?” “Hai per caso la coda di
paglia?” “Cos’è tutto questo
sarcasmo?” “Perché continui a fare
domande?” “Perché
ti ostini a nascondermi cosa scrivi su quel dannatissimo
aggeggio?” John stava rischiando l’esaurimento
nervoso con tutte quegli interrogativi senza risposta. “Sono
affari…privati.” Sherlock sembrò
profondamente oltraggiato dalla frase appena sentita. “Affari
privati? Sei tu il ragazzo onesto e comprensivo nella coppia!”
Bum. John
sentì distintamente i polmoni smettere di fare il proprio
lavoro, insieme al cuore. Se la sessione di coccole era più
che rara con Sherlock Holmes, le dichiarazioni verbali erano decisamente un
sogno irrealizzabile. “Oh…” Fu tutto
quello che gli uscì di bocca, prima che il cervello si
ricollegasse con i neuroni.
Perché
conosceva bene il suo compagno e conosceva ancora meglio quello
sguardo. C’erano due sguardi che non potevano essere
fraintesi: lo sguardo da sappiamo-entrambi-cosa-sta-succedendo –quello
che non sopportava affatto– e un
altro, quello più raro ma evidente da
ho-intenzione-a-tutti-i-costi-di-prendermi-ciò-che-voglio,
lo sguardo di richiesta –ovvero
estorsione– per
scoprire dove fosse nascosta la scorta segreta di sigarette, per
capirci.
“Una
persona non può essere buona per sempre, ragazzo calcolatore
e arrivista della coppia.” Sherlock sbuffò,
roteando gli occhi verso il cielo. “Dovevo
provarci.” “Hai veramente la maturità
emotiva di una focaccina di mirtilli, Sherlock, davvero
complimenti.” John ritornò a prestare attenzione a
pentole e fornelli, cercando di far finta che non esistesse. Non
andavano d’accordo su molto, loro due. In realtà
non andavano d’accordo quasi su niente. Battibeccavano quasi
tutto il tempo e si sfidavano ogni giorno. Nonostante
tutte le loro differenze, però, John si era preso una cotta –ovvero
innamorato perso– proprio
di uno come Sherlock. Aveva annotato anche quello, nel suo studio di
Sherlock, come fossero irrimediabilmente due persone inconciliabili che
erano attratte come calamite.
Preso
com’era dai suoi pensieri non si accorse nemmeno della
vicinanza improvvisa dell’altro. “Ti ho…
– si schiarì la voce – offeso in qualche
modo?” John, non rispose, trovando estremamente interessanti
le penne di pasta che cadevano nella pentola. La mano incerta di
Sherlock si soffermò a mezz’aria prima di buttarsi
in una corsa a perdifiato con quella di John, che continuava a
spostarsi dalla presa dell’altro non appena le dita
affusolate gli sfioravano il dorso. “Non mettere a dura prova
la mia pazienza, John.” Lo redarguì Sherlock, dopo
numerosi tentativi di contatto falliti.
John, a quel
punto, si lasciò far rinchiudere la mano nella prigione
bianca di Sherlock, senza una parola. Avere un contatto con il corpo di
Sherlock era un continuo di emozioni diverse. La presa stretta, ma mai
invasiva, come di qualcuno che sa perfettamente cosa vuole –e
molto probabilmente Sherlock sapeva bene chi fosse e cosa volesse dalla
vita. John sospirò mentre la flebile intenzione di
aprire il suo quadernino e di scriverci tutto quello che stava provando
si affievoliva sempre più. Si girò nel poco
spazio che gli era rimasto, tra il corpo di Sherlock e il piano della
cucina, ritrovandosi faccia a faccia con uno dei migliori capolavori
che madre natura avesse avuto il piacere di creare.
A pagina dodici
del suo taccuino, John aveva descritto Sherlock fisicamente. Aveva
parlato dei suoi occhi, la prima cosa che lo aveva attratto come una
falena alla luce, con un colore così particolare da essere
indescrivibile e una profondità così dilatata da
poterci cercare il mondo per ore. John adorava letteralmente spendere
le notti a guardarli, quando la situazione si faceva più
calda del previsto. Gli piaceva la piccola macchia scura sopra la
pupilla destra e le diramazioni di colore più scuro che
prendevano quando Sherlock provava emozioni forti.
Era sceso sulla
linea del naso e su quella degli zigomi –dove
Sherlock puntava per fare il figo, riuscendoci oltretutto
benissimo– descrivendo
l’ombreggiatura che creavano le ossa pronunciate quando
c’era la semioscurità nella stanza o il modo in
cui assumevano tratti dolci, quando le guance si increspavano in un
sorriso, creando rughe d’espressione tutt’intorno
alla bocca. E poi c’era la riga spessa delle sopracciglia, la
fronte alta, le labbra a cuore –che
lo facevano morire ogni volta– i
riccioli scuri soffici al tatto, il collo sensuale, le dita
impertinenti, il fisico asciutto e le gambe lunghe che completavano la
sua bellezza esteriore. Si era chiesto, mentre si perdeva tra le righe
del suo taccuino, come le ragazze fossero riuscite a stare lontane da
lui per tutta la sua vita, a eccezione di Molly Hooper. Se non si
contavano il brutto carattere –che
si poteva gestire con una gran bella dose di pazienza– e la
sua stupida convinzione di essere impermeabile ai sentimenti, era
chiaro. “Perché non mi vuoi dire cosa scrivi su
quel libretto?” John abbassò lo sguardo sul
bottone della camicia di Sherlock –pessima
idea– prima
di ritornare a guardarlo negli occhi. “So che parla di
me.” Cercò di trattenere un’espressione
tranquilla per non farsi scoprire subito. “Beh, ti posso
garantire il contrario.” Sherlock si spostò pochi
passi indietro, muovendo le braccia in aria in un atteggiamento
stizzito. “Oh, andiamo, non cercare di dirmi bugie, John. So
per certo che scrivi su di me.” John per risposta
alzò le sopracciglia, rimanendo in silenzio a guardarlo.
“Non capisco tutto questo bisogno di segretezza. E’
per caso uno di quei diari che tengono le ragazzine, John?”
Lo punzecchiò Sherlock, ritornando più vicino.
“Certo che no!” Beh, in realtà gli
sembrava davvero così, negli ultimi tempi. Ci aveva nascosto
anche una foto di Sherlock da piccolo, confiscata a Mycroft con un
glorioso ricatto, tempo prima. Un piccolo Holmes riccioluto con le mani
nel fango: a John veniva sempre da sorridere quando la vedeva.
“Dai, John, perché non vuoi dirmelo?”
Ah, ah, ah, davvero non un bel segno. Aveva sentito il suo cervello
gridare pericolo non appena quelle parole erano uscite dalle labbra
dell’altro, con quel tono che usava sempre per
arruffianarselo dopo un fatto particolarmente spiacevole –quasi
sempre ai danni di John. Lo vide avvicinarsi pericolosamente
al suo corpo e d’istinto andò indietro, sbattendo
contro il ripiano della cucina. Dannazione, era caduto in trappola.
“Qualunque cosa tu stia pensando, Sherlock, scordatelo. Quel
taccuino è…” Le parole gli morirono in
gola quando il suo Sherlock gli chiuse la bocca con la propria. Un
bacio impacciato, a labbra chiuse e occhi aperti. Sapeva che il
consulente investigativo non era propriamente un genio in quelle
situazioni, quindi apprezzò comunque il gesto.
Apprezzò davvero tanto, visto che le mani si mossero da
sole, andando a infilarsi tra i capelli –Dio,
sì– e
poi giù, in una lenta carezza fino alle spalle. Stava
già cedendo come una squallida marionetta di quarta
categoria. “Sh…erl…” John
pensò fosse meglio lasciar perdere, visto che il suo
cervello aveva levato le tende per mollarlo lì da solo, in
balia di cuore e ormoni. Lo avrebbe sgridato, dopo.
Fase uno:
stravolgerlo. Perfettamente riuscita. Sherlock sapeva che John non
sarebbe durato due secondi se l’avesse baciato e, beh, non
che la cosa lo avesse ripugnato più di tanto, alla fin fine.
Ora sarebbe bastata completare la fase due, ovvero dirgli qualche frase
assolutamente banale e sdolcinata, e poi avrebbe potuto tranquillamente
prendere quel taccuino e leggerlo una volta per tutte.
“Quattro ore e qualche minuto.” Sussurrò
sulle labbra di John, in modo da accarezzarle a ogni lettera.
“…cosa?” Lo vide riaprire gli occhi
socchiusi come un gatto dopo la dose extra di coccole e Sherlock si
chiese come diavolo riuscisse ancora a seguire il piano mentre
c’era quello sguardo che lo stava divorando da cima a fondo.
“Il tempo per cui non mi hai baciato, quattro ore e qualche
minuto.” Borbottò, cercando di pronunciare quelle
parole con il tono più superficiale possibile. Era un
innocuo passatempo, quello di contare le ore che passavano tra un bacio
e l’altro, un modo come un altro per scacciare la noia che
ottenebrava quei giorni senza senso. Osservò gli occhi di
John luccicare appena e le mani, ancora ancorate alle sue spalle,
strinsero di più la presa mentre le pupille si dilatavano
del 45% –aveva
davvero visto qualcosa che gli piaceva tanto?. “E’
una delle cose più belle che tu mi abbia mai detto,
Sherlock.” Sussurrò John, prima di rituffarsi
sulle sue labbra.
Sherlock era
sempre stato convinto –e
lo era tutt’ora– che la
gamma delle emozioni umane non esistesse. Era tutta questione di
chimica, l’amore questione di endorfine. Con una siringa di
Pentothal si poteva togliere ogni esigenza affettiva –solo
macchine di carne e niente più. Ma poi
nell’universo di Sherlock era entrato John e le cose si erano
assurdamente complicate. Dentro di lui era nato qualcosa di indesiderato –affetto?– che
aveva messo radici e aveva invaso tutto il peggio della gramigna. Poi
era stato troppo tardi: non aveva più potuto fare nulla per
sradicare quel senso di protezione che sentiva nei suoi confronti e
John non aveva fatto niente a sua volta. Un limbo da cui non
c’era via d’uscita e la cosa metteva in soggezione
Sherlock più di quanto volesse ammettere.
Gli
infilò una mano tra i capelli, apprezzando il mugolio di
piacere che provenne dalla bocca di John, mentre con l’altra
incominciò a tastargli le tasche superiori della camicia,
trovandole miseramente vuote, per poi passare a quelle dei pantaloni.
”Sherlock…”
Dio, sentiva le
mani di Sherlock ovunque e quelle labbra lo stavano confondendo come la
peggiore droga in circolazione.
Gli morse il
labbro inferiore, facendo pressione sulle sue spalle
affinché indietreggiasse, fino al salotto. Fece beccare a
Sherlock una gomitata contro il vetro della porta e quasi non
inciamparono per una pila di libri messi sul pavimento del soggiorno.
“Mi vuoi uccidere, per caso?” Mormorò
Sherlock contro la bocca di John che sorrise divertito. “Mi
hai scoperto!”
Aprì
un momento gli occhi per individuare il divano nella traiettoria
disordinata che stavano seguendo e ci arrivò mentre Sherlock
lo seguiva docilmente con gli occhi chiusi e le labbra ancora premute
contro le sue. Lo fece sdraiare sul sofà e lo raggiunse,
stendendoglisi addosso.
Sentiva la pelle
andare completamente a fuoco e i pantaloni avevano incominciato a
essere stretti da un bel po’ di tempo, ormai.
“Aspetta…aspetta un momento.” John
aprì gli occhi per quell’improvviso e spiacevole
ritorno alla realtà. “Che cosa
c’è?” Domandò John,
già pronto a uno dei soliti sproloqui senza senso che
Sherlock gli propinava ogni volta che dovevano fare attività
fisica. “C’è qualcosa sotto la mia
schiena.” John si fece forza sulle braccia per far inarcare
la schiena a Sherlock e far tirare fuori quello che sembrava essere un
libro, ma alla quale John non prestò molta importanza, perso
com’era a contemplare il viso di Sherlock, così
vicino al suo da poter sentire il suo respiro sulla pelle.
Lo studio di
Sherlock Holmes avrebbe riempito milioni di taccuini e ancora non
sarebbe stato abbastanza perché nessuna parola poteva
davvero descrivere tutto ciò che era, nel bene e nel male –decisamente
nel bene in quel momento.
Il braccio di
Sherlock scomparì per un momento dall’altra parte
del divano dove il tonfo sordo del libro segnò la fine della
pausa. John si riappropriò di quelle labbra che ormai gli
spettavano di diritto e aspettò che l’altro le
socchiudesse per introdurre la lingua nella sua bocca e approfondire il
bacio.
Gli
accarezzò il palato e poi l’arcata dei denti
mentre la mani risalivano il suo petto per appostarsi sulle guance, in
un contatto intimo e piacevole che fece percorrere a John un altro
brivido lungo la colonna vertebrale.
Quando
sentì la testa di Sherlock scivolare sempre più
indietro fino a staccarsi dal bacio, John riaprì gli occhi
accigliato, seguendo d’istinto le labbra
dell’altro. “Credo davvero che dovremmo
staccarci.” Proruppe il consulente investigativo. John
continuò a guardarlo stralunato, cercando la spina per
riconnettere il cervello. “Come scusa?” Chiese con
voce roca John, non smuovendosi di un millimetro dalla sua posizione.
“Non possiamo farlo ora, John! A metà pomeriggio,
oltretutto. Il mio cervello ha bisogno di lavorare oggi.” Ma
di cosa diavolo stava blaterando? Chi cavolo aveva detto che quello era
l’uomo più intelligente dell’intera
Inghilterra? “Fammi capire bene, tu non vuoi fare sesso
perché vuoi lavorare?” “Sì, a
un esperimento, c’è un importantissimo passo
che…” Fu il turno di John di chiudergli la bocca,
lasciando perdere i continui mugolii contrari dell’altro.
Perché non si era potuto trovare un fidanzato con un
metabolismo normale? Quando sembrò essersi acquietato un
poco, John lasciò scendere la mano sinistra, prima ancorata
alla sua guancia, giù fino al collo, per arrivare al primo
bottone della camicia viola che era solito indossare –era
una maledetta punizione, quell’indumento. La
slacciò in fretta, lasciando la sua bocca solo per
depositargli una serie di piccoli baci sul collo per poi morderlo.
Sherlock gemette sotto quel gesto, dando a John una scarica di
adrenalina direttamente nelle vene. Si staccò un momento da
lui, dandosi un minuto per osservarlo semplicemente. La camicia
slacciata lasciava trasparire il petto tonico e la pancia magra
costellata da nei –uno,
due, tre, quattro, sui quali posò, uno per volta,
i polpastrelli, tracciando un firmamento soltanto sul suo corpo.
Nella penombra
che derivava dalla persiana abbassata, John sentì il groppo
in gola dall’emozione di aver finalmente trovato una persona
così, soltanto per lui. L’altra faccia della
medaglia, la metà mancante per completare la mela. Avrebbe
voluto saper disegnare e tracciargli un ritratto da inserire nel suo
taccuino e custodire gelosamente per sé, ma visto che
ciò era impossibile cercò di imprimersi
quell’immagine nella retina e nella memoria. I capelli
scompigliati che nell’oscurità parevano china, gli
occhi acquosi che lo scrutavano in cerca di chissà cosa e le
labbra più rosse del solito dischiuse in cerca
d’aria. “Mi stai guardando in modo inquietante,
John.” Il medico si lasciò andare in una risata,
affondando il viso nell’incavo naturale tra la spalla e il
collo. “Non ti piace farti guardare dal tuo ragazzo onesto e
comprensivo?”
Mormorò,
ritornando a posare baci su tutta la pelle libera che aveva a
disposizione e facendo scivolare la camicia, ormai inutile, fino a
gettarla malamente sul basso tavolino. Si era quasi pentito di usare
quel pronome possessivo, ma ormai il danno era fatto e tanto valeva far
finta di non averci fatto caso. “Mi piace sempre il modo in
cui mi guardi.” Era stato appena più di un
sussurro, ma a John arrivò come un urlo nei timpani. Lo
baciò ancora, stavolta teneramente, tenendo a freno la
passione che sembrava voler esplodere in tutto il suo corpo. Quel
giorno era in vena di comportarsi da bravo fidanzato, evidentemente.
Quando
percepì le mani di Sherlock
all’estremità del suo maglione tirò su
le braccia per facilitargli il compito e si chinò nuovamente
su di lui, stavolta più sicuro dei propri gesti.
Inventò un percorso sul corpo di Sherlock con le labbra e le
mani che lasciavano carezze ovunque, facendo lasciare al diretto
interessato sospiri concitati, per la soddisfazione di John. Che avesse
ancora il coraggio di dirgli che era meglio il suo esperimento a quello
che stavano vivendo in quel momento! Sherlock sembrava un gatto quieto
tra le sue braccia, lasciandosi toccare e baciare ma rimanendo stabile
nella sua posizione, le dita ferme sul suo petto e gli occhi socchiusi –sempre
ad osservare, sempre a dedurre. I capelli di Sherlock lo
avevano legato a lui, il suo sguardo lo aveva trafitto,
l’arco dei suoi arti superiori erano una dolce prigione. Ci
avrebbe fatto l’amore sempre, solo per il modo che aveva di
guardargli le labbra mentre si fermava a riprendere fiato di
quell’aria calda e satura di sentimenti contrastanti, per il
modo in cui gli lasciava prendere il comando –per
una volta– senza
fare nulla per fermarlo. Tutto quell’attesa stava diventando
decisamente troppo. Si rituffò sulle sue labbra, mordendo e
muovendole voracemente sulle sue, mentre le mani prendevano, toccavano
e accarezzavano fino a raggiungere la meta desiderata.
Sbottonò abilmente i pantaloni eleganti, strattonandoli
verso il basso con un riguardo minimo. “Ehi, stai attento
questi pantaloni costano!” “Sherlock, fammi un
favore…” Gli mormorò sulle labbra,
riprendendo a toccarlo con più insistenza, ora che poteva
sentire distintamente l’eccitazione che provocava in lui.
“…’sta zitto.” Andò
a liberarsi anche dei suoi pantaloni, per darsi quel minimo sollievo
che gli serviva per non impazzire del tutto, scalciandoli via con
l’aiuto delle gambe. Prendendo totalmente alla sprovvista
John, Sherlock si mosse, facendo una strana contorsione per spostarsi e
arrivare sopra di lui. “Sherlock, cosa
diavolo…” Lo sguardo che il detective gli
riservò –da
dove proveniva tutta quella malizia?– lo fece
rimanere immobilizzato per un paio di secondi. “Ora tocca a
me.” Un gemito strozzato si formò nella gola di
John, che si dimenticò l’apparato respiratorio e
tutte quelle
cose inutili che non fossero Sherlock, il suo Sherlock, il suo Sherlock
che stava…”Sher…lock!”
‘Nonostante
sia restio ad ammetterlo a me stesso o ad altre persone, Sherlock
è il miglior uomo e la persona più umanamente
umana che possa esistere. E’ vita, adrenalina e se questo
studio in Sherlock non sia riuscito a farmi capire più di
tanto tutto ciò che di misterioso c’è
in quell’uomo, sicuramente mi ha fatto capire cosa sia
quell’uomo per me.’ Sherlock era rimasto
paralizzato al centro della cucina mentre leggeva quelle ultime righe
del prezioso taccuino di John Watson. Sentiva una cosa strana al centro
del petto e in mezzo alla gola, qualcosa che gli faceva mancare il
respiro e bruciare gli occhi. Pensava davvero quelle cose di lui?
Lanciò l’ennesima occhiata nel salotto, dove John
dormiva beatamente stringendo il cuscino con la bandiera
dell’Inghilterra. Tirò su con il naso, dando
un’occhiata superficiale a tutta la stanza e alla pentola che
era rimasta abbandonata sul fornello. Sentiva di aver perso il suo
controllo e si sentiva nudo senza, troppo esposto e troppo vulnerabile.
“Sherlock?” Mormorò una voce assonnata.
Sherlock prese svelto una decisione, ritornando nella stanza e
rimettendo a posto il quadernino nella tasca posteriore dei pantaloni
di John, per terra. “Sono qui.” Rispose,
riprendendo il suo posto tra le braccia di John.
“Dov’eri andato?” Gli chiese John,
strofinando il viso sulla spalla nuda di Sherlock. “Nulla di
importante.” Soffiò, lasciandosi coccolare in
silenzio, socchiudendo gli occhi e rilassandosi. Per una volta poteva
concederglielo, dopotutto.
Note:
Devo ringraziare
Jessie che mi ha fatto conoscere la bellissima citazione di Carrisi,
ovvero: “Il dolore non esiste. Come tutta la gamma delle
emozioni umane d’altronde. E’ solo questione di
chimica. L’amore è questione solo di endorfine.
Con una siringa di Pentothal posso toglierti ogni esigenza affettiva.
Siamo solo macchine di carne.”
Ringrazio Nerween che è sempre il massimo, che mi dà il massimo e che mi fa sentire la persona migliore del mondo.