Il ballo volenteroso della graziella
Rido
armoniosa e armonica, inebriata nell’animo incolpato e
adolescente dai raggi del solleone africano, Ngai,
il nostro agostino invigilatore.
Di Ngai,
il divo ed equo sovrano etereo, sempiternamente apontropaico verso i
suoi figli sin dalla loro propaggine sulla terra d’Africa,
quando ancora abbambinavo ed impuntavo, mio padre, con la sua
facondia, me ne epitetò la storia anaciclica. Era un tardo
pomeriggio di un giorno esistito una decade fa, quando lo sciamano
del villaggio enarrò di come ogni duecento anni Ngai, con
oculatezza, scelga, tra i neonati del popolo Maasai, un erede a cui
rimpallare il regno e parte dei propri poteri febei.
Nessuno
viene mai cerzoriato da Ngai sull’identità dell’epigono.
Persino il prescelto preteirisce il suo azzardo. Solo
nell’adolescenza questi diventa conscio della sua condizione,
dopo aver sperimentato il dono delfico, con il quale riesce a
percepire la presenza degli spiriti, siano essi buoni o malvagi,
promotori di quegli eventi fatturi a noi ignoti. Lo stesso Ngai si
presenta, incarnatosi in un animale o una persona, per annunciarle in
sogno o stesso nella realtà la verità sul suo
progetto.
Era incredibile, questa storiella. Ancor di più
perché era proprio papà, lo stregone Masai conto in
tutta l’Africa morata, leggenda tra noi abitanti degli aperti,
a raccontarla. In gioventù mio padre emigrò in Europa,
riuscendo a laurearsi, da allogeno rigridato per le sue origini, in
chirurgia e medicina generale a Parigi, in Francia.
E guardatelo,
adesso: sebbene avesse concluso gli studi e fosse divenuto un dottore
fante e consigliato, l’africanismo in lui non si era smagato e,
invece di rimanere lì, dove avrebbe potuto sistemarsi e
accumulare ricchezze, è tornato per aiutare il suo popolo a
combattere i malanni e insegnare la lingua della salvezza, il
francese.
Questa canicola avvertita percepita dal mio corpo pare
ciucca e masseria per la mia condotta in terra, da sempre candida e
monda quanto il manto colombino della Phaethon
rubricauda intravista
in un tempo remoto dai miei occhi di fante durante una battuta di
pesca assieme a mio padre; nella mia ingenuità pensai fosse lo
spirito della mia defunta madre, disceso in terra e incarnatosi in
augello per vegliare su di me dall’alto, dall’Oceano
Indiano.
Sul mio volto non si accinge ad obliterarsi questo
sorriso allascato e fulgido, i miei muscoli zigomatici sembrano
rimanere tesi di propria volonta, e sul mio corpo snello e
longilineo, assolato e dacquato da un sudore piacevole sul manto
castagniccio e glabro, perlato come la lama del chimbane e
carezzabile come i petali falbi dell’amarillide, v’è
la nibigiana del nimbo del nostro dio, tanto inteso da abbacchiare i
miei occhi aerini. Il mio sogno dell’altra notte si sta
avverando: sono davvero diventata una stella dell’immenso vello
universale e ora io, la principessa Leena, accestisco, rutilante, un
battibagliare di speranza tra le genti delle tribù tutte, tra
gli animali amici e gli alberi della savana, sui cui rami mi
arrampicherei per espandere meglio la luce palpebrata e per scrutare
al di la dell’orizzonte.
Durante questa mia corsa priva di
meta, nella poscondola erbosa ai margini del nostro villaggio chaga,
elongo le braccia innanzi finchè i rotondi me lo permettono e
le spalanco deliberatamente, volessi aggavignare l’anelito
naturale della fauna e della flora che mi soffia addosso, oppure
sfioreggiare l’alto Kilimangiaro in lontananza, tanto piccolo
all’apparenza. I miei piedi snudati dai calzari calpitano sul
terreno con leggerezza e con il tallone impegno per acquistare
velocità con le zanche per poter sorpassare queste gazzelle a
me intorno, con le quali ho deciso di gareggiare, per gioco, una gara
di velocità perdibile sin da subito – il dio sole ha
donato alle gazzelle una velocità eguagliata da pochi altri
animali, mentre a noi uomini ha concesso l’ingegno e
l’improvvisazione.
Rido,
perché spiego tutta quanta me stessa, illimitatamente,
abreagendo quelle emozioni uniche e sensazionali, provabili solamente
quando si è a contatto con la madre terra, senza il cafarnao
di voci e tamburi nelle orecchie. Non ci riesco, quando seguo da
terra l’uccello zinzilulante in volo, a costipare la serietà
con cui mi devo, solenne, presentare alla tucul principale del mio
villaggio, dove assisto mio padre, il subaga, durante l’epurazione
dei demoni improbi dai corpi degli infermi.
E’ una visione
tutta nuova questa qua di cui sto testimoniando con i miei stessi
sensi.
Probabilmente,
questa è la sensazione particolare di cui parlano quando ci si
innamora perdutamente di qualcuno. Non mi sono mai appropinquata
all’amore prima di quest’età, eccetto per l’amore
familiare e affettivo con gli amichetti e le amichette: ero una bamba
epigrammatica, nella mia testardaggine ed ignoranza non capivo perché
sboccasse, tra due persone, quell’unione inestricabile
conosciuta come amore, e perché si compiacessero di tutte
quelle effusioni tra di loro. Trovavo orrisono quel mutuo fraseggiare
mieloso e melenso tra il damo e la piolla.
Nel nostro villaggio
ancora è abituazione degli anziani novellare, con voce
stentorea, una volta scomparso il dio sole e solo se la sussistenza
della sorella luna è presente, quei centodi sui santoni
antenati, supportati dagli strumenti sacri e magici artificiati con
le ossa degli animali uccisi o scolpiti nella pietra, con cui
pregavano in silenzio per raggiungere una dimensione superiore al
materiale, all’interno della mente dello stesso stregone, in
cui quegli oggetti non rimanevano strumenti di auspicio da coniare,
ma armi letali da sfoderare: conghi con cui decapitare i mostri più
tenaci e pericolosi, oppure rungu per sorbottare i più miti
spiritelli smargiassi ed estrosi.
E nonostante tutto, io
continuo a correre, e mi fermerò solo quando raggiungerò
Eshu, che m'attende lontano e solo io posso vedere.