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Autore: furetchen90    27/07/2012    0 recensioni
Leggetela e godete.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Il ballo volenteroso della graziella


Rido armoniosa e armonica, inebriata nell’animo incolpato e adolescente dai raggi del solleone africano, Ngai, il nostro agostino invigilatore.
Di
Ngai, il divo ed equo sovrano etereo, sempiternamente apontropaico verso i suoi figli sin dalla loro propaggine sulla terra d’Africa, quando ancora abbambinavo ed impuntavo, mio padre, con la sua facondia, me ne epitetò la storia anaciclica. Era un tardo pomeriggio di un giorno esistito una decade fa, quando lo sciamano del villaggio enarrò di come ogni duecento anni Ngai, con oculatezza, scelga, tra i neonati del popolo Maasai, un erede a cui rimpallare il regno e parte dei propri poteri febei.
Nessuno viene mai cerzoriato da Ngai sull’identità dell’epigono. Persino il prescelto preteirisce il suo azzardo. Solo nell’adolescenza questi diventa conscio della sua condizione, dopo aver sperimentato il dono delfico, con il quale riesce a percepire la presenza degli spiriti, siano essi buoni o malvagi, promotori di quegli eventi fatturi a noi ignoti. Lo stesso Ngai si presenta, incarnatosi in un animale o una persona, per annunciarle in sogno o stesso nella realtà la verità sul suo progetto.
Era incredibile, questa storiella. Ancor di più perché era proprio papà, lo stregone Masai conto in tutta l’Africa morata, leggenda tra noi abitanti degli aperti, a raccontarla. In gioventù mio padre emigrò in Europa, riuscendo a laurearsi, da allogeno rigridato per le sue origini, in chirurgia e medicina generale a Parigi, in Francia.
E guardatelo, adesso: sebbene avesse concluso gli studi e fosse divenuto un dottore fante e consigliato, l’africanismo in lui non si era smagato e, invece di rimanere lì, dove avrebbe potuto sistemarsi e accumulare ricchezze, è tornato per aiutare il suo popolo a combattere i malanni e insegnare la lingua della salvezza, il francese.
Questa canicola avvertita percepita dal mio corpo pare ciucca e masseria per la mia condotta in terra, da sempre candida e monda quanto il manto colombino della
Phaethon rubricauda intravista in un tempo remoto dai miei occhi di fante durante una battuta di pesca assieme a mio padre; nella mia ingenuità pensai fosse lo spirito della mia defunta madre, disceso in terra e incarnatosi in augello per vegliare su di me dall’alto, dall’Oceano Indiano.
Sul mio volto non si accinge ad obliterarsi questo sorriso allascato e fulgido, i miei muscoli zigomatici sembrano rimanere tesi di propria volonta, e sul mio corpo snello e longilineo, assolato e dacquato da un sudore piacevole sul manto castagniccio e glabro, perlato come la lama del chimbane e carezzabile come i petali falbi dell’amarillide, v’è la nibigiana del nimbo del nostro dio, tanto inteso da abbacchiare i miei occhi aerini. Il mio sogno dell’altra notte si sta avverando: sono davvero diventata una stella dell’immenso vello universale e ora io, la principessa Leena, accestisco, rutilante, un battibagliare di speranza tra le genti delle tribù tutte, tra gli animali amici e gli alberi della savana, sui cui rami mi arrampicherei per espandere meglio la luce palpebrata e per scrutare al di la dell’orizzonte.
Durante questa mia corsa priva di meta, nella poscondola erbosa ai margini del nostro villaggio chaga, elongo le braccia innanzi finchè i rotondi me lo permettono e le spalanco deliberatamente, volessi aggavignare l’anelito naturale della fauna e della flora che mi soffia addosso, oppure sfioreggiare l’alto Kilimangiaro in lontananza, tanto piccolo all’apparenza. I miei piedi snudati dai calzari calpitano sul terreno con leggerezza e con il tallone impegno per acquistare velocità con le zanche per poter sorpassare queste gazzelle a me intorno, con le quali ho deciso di gareggiare, per gioco, una gara di velocità perdibile sin da subito – il dio sole ha donato alle gazzelle una velocità eguagliata da pochi altri animali, mentre a noi uomini ha concesso l’ingegno e l’improvvisazione.

Rido, perché spiego tutta quanta me stessa, illimitatamente, abreagendo quelle emozioni uniche e sensazionali, provabili solamente quando si è a contatto con la madre terra, senza il cafarnao di voci e tamburi nelle orecchie. Non ci riesco, quando seguo da terra l’uccello zinzilulante in volo, a costipare la serietà con cui mi devo, solenne, presentare alla tucul principale del mio villaggio, dove assisto mio padre, il subaga, durante l’epurazione dei demoni improbi dai corpi degli infermi.
E’ una visione tutta nuova questa qua di cui sto testimoniando con i miei stessi sensi.

Probabilmente, questa è la sensazione particolare di cui parlano quando ci si innamora perdutamente di qualcuno. Non mi sono mai appropinquata all’amore prima di quest’età, eccetto per l’amore familiare e affettivo con gli amichetti e le amichette: ero una bamba epigrammatica, nella mia testardaggine ed ignoranza non capivo perché sboccasse, tra due persone, quell’unione inestricabile conosciuta come amore, e perché si compiacessero di tutte quelle effusioni tra di loro. Trovavo orrisono quel mutuo fraseggiare mieloso e melenso tra il damo e la piolla.
Nel nostro villaggio ancora è abituazione degli anziani novellare, con voce stentorea, una volta scomparso il dio sole e solo se la sussistenza della sorella luna è presente, quei centodi sui santoni antenati, supportati dagli strumenti sacri e magici artificiati con le ossa degli animali uccisi o scolpiti nella pietra, con cui pregavano in silenzio per raggiungere una dimensione superiore al materiale, all’interno della mente dello stesso stregone, in cui quegli oggetti non rimanevano strumenti di auspicio da coniare, ma armi letali da sfoderare: conghi con cui decapitare i mostri più tenaci e pericolosi, oppure rungu per sorbottare i più miti spiritelli smargiassi ed estrosi.
E nonostante tutto, io continuo a correre, e mi fermerò solo quando raggiungerò Eshu, che m'attende lontano e solo io posso vedere.

  
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