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Autore: xNewYorker__    29/07/2012    1 recensioni
Credeva di aver ucciso suo padre. Si sbagliava.
Genere: Azione, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aprii gli occhi e poi mi alzai direttamente, senza fare troppo caso alle coperte.
Presi qualcosa dall’armadio e sospirai, tolsi la maglia del pigiama mentre per caso passavo di fronte allo specchio, così vidi qualche graffio a metà della schiena e mi scappò un sorriso. Quella precedente era stata una serata intensa, mettiamola così.
Una volta pronta, corsi in ufficio, dopo essermi chiusa la porta dietro le spalle come in quei commoventi film americani.
Attraversai la strada dopo aver guardato da ambo i lati, entrai nell’edificio e presi l’ascensore, che si fermò esattamente a quella che chiamavo la “sala delle conferenze”, dove stavano le sedie e la tabella vitrea coi nomi dei sospettati.
Le porte si aprirono e io uscii, dirigendomi a passo lento e calibrato verso Juan, Jacques e il capitano Mitchell, che stavano lì con le facce scure a discutere di qualcosa che non avevo capito.
Tirai su la zip della giacca di tuta azzurra e apparvi alle spalle di Morales, che si voltò a guardarmi dopo aver sentito il rumore delle mie scarpe e il mio fiato sul suo collo.
«’Giorno», salutai, mantenendo la più totale serietà, anche e soprattutto nei suoi confronti: doveva sapere che nonostante tutto non era cambiato niente, ed era meglio che non si facesse illusioni.
Questo non perché volessi usarlo o qualcosa del genere, ma perché doveva capire che aveva necessità di una persona da amare, e che quella non potevo essere io.
Mi guardarono con preoccupazione, come se stessero per dirmi che ero malata di leucemia e che sarei morta entro un mese. Inarcai un sopracciglio e li squadrai tutti e tre da capo a piedi.
«Morales, Lambert, capitano Mitch», dissi.
Odiava che lo chiamassi “Mitch”: lo avevo fatto per avere una reazione da parte sua, ma nulla, rimase a guardarmi nella stessa maniera.
Tossicchiai e aspettai un’altra risposta, che neanche stavolta arrivò, da nessuno dei tre.
«Ci sono problemi?».
La situazione iniziava visibilmente ad irritarmi, e anche parecchio.
Morales posò una mano sulla mia spalla. «Abbiamo notizie che non ti piaceranno», confessò.
Il capitano teneva in mano dei fogli che cercai di osservare da lontano, ma non riuscii a vederli perché mi stava di fronte e li teneva rigidamente sotto i suoi occhi.
«Quali notizie?», chiesi. Perché si ostinavano a ritardare l’arrivo delle risposte che aspettavo?
Non ero una persona che prendeva le notizie troppo a cuore, neanche quelle brutte. Non potevano conoscermi come una persona emotiva, o isterica, o che altro, bastava che mi dicessero e avrei metabolizzato tutto come sempre, invece continuavano a guardarmi con quel pizzico di compassione che faceva traboccare il vaso della mia pazienza. Se c’era qualcosa che odiavo era essere guardata con compassione dai miei colleghi o dai miei superiori: non ero un cucciolo da salvare, ero un’agente di polizia esattamente come tutti gli altri, e da tale volevo essere trattata, senza aggiunta di sentimenti indesiderati.
Mitchell mi passò i suoi fogli, e vidi in primo piano stampata la faccia di mio padre. Guardai lui.
«Che significa? Volete spiegarmi o vedo come allenare i miei poteri di telepatia?». Mantenni il sopracciglio inarcato finché il capitano non si schiarì la gola.
«Carpenter, tuo padre è ancora vivo», spiegò.
Spalancai gli occhi su di lui e lo fissai come se lo ritenessi pazzo. Morales mentre passava dalla pacca sulla spalla a un abbraccio, credendo che avessi bisogno di conforto.
Mi allontanai, mormorando un “niente di personale”. La cosa lo scuoteva dall’interno, immaginavo, ma dopo una scoperta del genere non c’era tempo per le smancerie, e lui avrebbe dovuto iniziare a smettere di essere un Romeo disperato e provare ad essere piuttosto un poliziotto coi sentimenti in cantina.
Nel nostro lavoro non servono. Ti fanno affondare e basta. I proiettili captano i sentimenti e ti feriscono in modo peggiore, quanti più riescono a trovarne.
«Allora io a chi ho sparato?», domandai, senza punti nella voce in cui sembravo un po’ toccata o qualcosa di simile. Anni di addestramento erano serviti a qualcosa.
«Hai sparato a John Marlowe. Era un agente della sua squadra, a cui erano stati appositamente cambiati i connotati tramite un intervento chirurgico, mi dispiace…».
Mi sentivo colpevole, perché in fondo ero grata al Cielo di non aver davvero sparato a mio padre senza che prima sapesse chi ero e cosa facevo.
Annuii.
«Lui gli era stato accanto, e lo ha mandato a farsi ammazzare, come carne da macello…», osservai, una punta di disgusto nella voce.
Ogni tanto odiavo dover mantenere l’accento francese a qualsiasi costo.
Avevo deciso che lo avrei eliminato, ma ogni momento non era quello giusto per farlo. Era una protezione che ancora mi serviva, era una delle poche che Morales non mi avesse tolto da quando lo avevo conosciuto, e doveva restare almeno quella a coprire il suo ruolo.
Deglutii.
«Il fatto che non sia morto vuol dire che…ehm…dovresti ascoltare questo», esordì Lambert, avvicinandosi a una scrivania fornita di computer che gli stava proprio dietro. Lo seguii e appoggiai il mento alla sua spalla destra, per osservare lo schermo.
Chiusi gli occhi un attimo e li riaprii di scatto quando la registrazione vocale partì.
«Credevate di averci smontati, poveri idioti. Saremo lì alle 8:53, conservateci un regalino e un posto a tavola!».
Quella voce la conoscevo. Era quella di mio padre, la sentivo forte e chiara arrivarmi al cervello, e quello impazziva e mandava impulsi deliranti a destra e a manca, arrancando verso gli ultimi e portandomi a pensieri confusi che non era il momento di fare.
Scossi la testa. «Sono le 8:52», affermai.
Morales annuì e guardò l’orologio alla parete, lontano di qualche metro e sopra l’ingresso dell’ascensore.
Probabilmente sarebbero arrivati proprio da quello, quando le due parti dello stemma di Flemwheel si sarebbe separato per farli passare.
«Lambert, la pistola», ordinai. Lui spense distrattamente il computer e mi guardò come se stessi delirando, così gli misi fretta con un veloce gesto della mano e del capo verso l’ascensore.
«Subito», aggiunsi.
«Carpenter, non credo che il caso sia di sua competenza, penso che dovrebbe tornare a casa e lasciar fare il lavoro a noi», si oppose Mitchell, ponendosi tra me e il mio collega, che da dietro la sua spalla continuava a guardarmi per capire se dicessi sul serio.
«Capitano, se mi consente, so io quel che mi compete, e questo lo fa», ribattei.
Non mi avrebbero tolto il caso solo perché l’ultimo delle centinaia di bastardi a cui avevo sparato sarebbe stato mio padre. Il coinvolgimento di un agente in un caso lo avevano visto solo in televisione, con me quel rischio non si correva in alcun modo. L’assenza di sentimenti era forse il mio principale punto di forza.
Se non avessi avuto quello, probabilmente anziché tredici cicatrici ne avrei avute una ventina, o sarei morta prima di arrivare a cinque.
«Lambert, dammi quella pistola».
Osservò il cassetto dove tenevamo le armi di riserva, nel caso in cui le nostre fossero state dimenticate in ufficio o a casa e non ci fosse tempo per recuperarle.
«Carpenter, non  glielo permetterò», continuò ad opporsi il capitano.
«So benissimo quello che faccio, sono un’agente qualificata quasi quanto lei. Giuro sul mio stesso onore che, se qualcuno arriverà anche solo a farsi male, me ne prenderò la responsabilità e darò le mie dimissioni, ma non deve permettersi di togliermi la possibilità di guardarlo in faccia mentre gli sparo».
Si zittì. Doveva avermi preso davvero sul serio, perché fece un cenno a Jacques.
«Lambert, dalle la pistola», «Agli ordini…».
Lui sembrava non credere a quello che stesse facendo. Aprì il cassetto, prese la pistola, me la passò.
Roteai gli occhi e sbuffai. «I proiettili, Lambert».
Mi passò la confezione, così potei caricarla.
Rigirai l’arma tra le mani un paio di volte.
Ognuno di noi aveva una “replica” della sua, così che non ci fosse bisogno di abituarsi a una nuova.
Morales e Lambert presero le loro, e il capitano fece lo stesso.
«Capitano, dovrebbe far fare il lavoro sporco a noi», osservò Jacques.
«Siete i miei agenti», si limitò a dire. «Sappiate solo che non sarà una cosa facile».
Guardai l’orologio. 8:53.
Lo stemma si spaccò e comparve il Generale, smoking e occhiali da sole e revolver in mano. Tecnicamente, quella era la vera prima volta che vedevo mio padre, da quando avevo una ventina d’anni appena.
Non mi fece nessun effetto. Provai solo un enorme disgusto, verso le sue azioni, verso i quattro uomini con le pistole che aveva dietro, verso la situazione e verso il suo vestirsi come se stesse andando a un matrimonio anziché ad uccidere gente.
Forse, dietro quei vetri scuri, anche lui mostrava lo stesso viscerale disgusto nei nostri confronti.
Guardai Lambert. La sua mano tremava: aveva paura.
La mia espressione impassibile non poteva infondergli alcun coraggio.
Sul campo, sta a noi non provare nulla. I compagni al massimo si salvano a vicenda da morte certa.
Il Generale rise e diede il via al ballo delle sue marionette consumate, che sparavano dieci colpi sul nulla mentre noi lasciavamo che ci distruggessero la base, da dietro tavoli e sedie.
Un proiettile deformò quella che avevo davanti io.
La buttai via.
Il Generale tolse i suoi occhiali e li gettò per terra, si concentrò su di me.
«Ci penso io a lei, è più tosta, a questi qui badate voi», liquidò i suoi scagnozzi, che ghignavano e sparavano.
Sentii un gemito, ma non avevo tempo di controllare chi fosse stato ferito.
Era un massacro quello che si verificava intorno a me, e non potevo fermarlo.
Premetti il grilletto, lui si abbassò, e la stessa scena si ripeté verso di me.
Giravamo intorno a niente rincorrendoci e puntandoci, lo stesso sguardo addosso, identico.
«Non pensavo che nella mia vita avrei fatto fuori una ragazzina! Non credevo neppure che in polizia ce le facessero entrare».
Sapevo benissimo che lo dicesse per distrarmi. Non cambiai neanche espressione.
Le armi sembravano veloci, ma i pensieri lo erano di più, dovevano esserlo.
Deglutii e strinsi di più sulla pistola.
Dovevo decidere se parlare o no.
Gli uomini del Generale giacevano straziati a terra, col sangue che colava anche dalle loro labbra, come pezzi di groviera o gatti investiti.
Strinsi ancora una volta.
Un freddo pungente raggiunse l’uno dei miei fianchi che ancora il ferro non aveva mai toccato. Quattordici, o sarei morta. Sapevo che alla quindicesima mi toccava crepare.
«Butta il revolver», ordinai. Rise di gusto, scosse la testa e sparò un altro colpo, che prese in pieno il braccio destro, perché non riuscii a spostarmi abbastanza in tempo. Mi trovai a rettificare: quindici o la morte.
«Bastardo», mormorai, a denti stretti.
«Stai tradendo tutto quello che ti è rimasto in questa merda di mondo...ma tanto che te ne frega, hai già finto di farti ammazzare. Vorrei sapere cosa si prova. Ci tieni tanto a fare fuori quella che un tempo piangeva perché temeva che ti sparassero in guerra? A me hanno sparato quindici volte e non ti è mai importato niente». Rilassai le braccia. Una lunga striscia rossa percorreva i miei jeans, e il braccio andava a fuoco talmente che avrei voluto amputarmelo da sola per farlo smettere. Gettai a terra la pistola, ed ebbi il tempo di voltarmi.
Tutti e quattro i suoi erano a terra, ma vedevo una quinta fonte di sangue. Era Jacques. E se era morto la colpa non poteva che essere mia.
«Sono tua figlia, ma dato che sei qua per ammazzarmi fallo prima che lo faccia questa».
Feci una delle cose più stupide che nella mia vita avevo (o avrei) mai fatto: battei la mano sinistra nel punto in cui il suo proiettile mi inchiodava il braccio, con tutta la forza che avevo in corpo.
Urlai come un animale scuoiato vivo e ricoperto di sale. Non avevo mai provato quell’esperienza, ma pensavo che il dolore potesse essere simile. Strinsi i denti talmente forte da farmi male.
Il revolver tremava nella sua mano.
Io sembravo una foglia straziata dal piede di un uomo, il braccio non rispondeva più ai comandi e iniziavo a credere che sarei veramente morta di lì a poco.
«Come ti chiami?», chiese.
Erano ben pochi a sapere il mio vero nome. Ne avevo anche un terzo, che talvolta dimenticavo per calarmi nella parte.
Volevo rispondere e tremavo ancora di più.
«Julie…Reese…Holly…Carpenter».
Ero riuscita a buttare giù in un attimo accento francese e nome di copertura.
In un modo o nell’altro, solo da come dicevo i nomi, si sarebbe capito che venivo da Edmonton.
Quel revolver lo rividi sul pavimento dopo qualche secondo.
Il disgusto spariva dallo sguardo del Generale e faceva posto a qualcosa che non conoscevo e non avevo mai visto. Per un momento mi sembrava solo che fosse tornato il mio papà.
Gli occhi iniziarono a lacrimare, e le lacrime scendevano al ritmo del sangue, era da quello che erano causate.
«Ti salverò, te lo prometto, mi dispiace…».
Immaginavo si riferisse al fatto che stessi morendo dissanguata di fronte ai suoi occhi.
Ormai la manica si appesantiva e sentivo sale e fuoco sulla piaga, su entrambe.
Sentivo la sua voce sempre più lontana e le ginocchia sempre più fragili, mentre i pensieri che avevo avuto diventavano pietre che mi portavano giù.
Alla fine, il back out.

Angolo autrice:
Ebbene, ecco il secondo "capitolo" della raccolta. Cronologicamente, verrebbe circa una settimana dopo la precedente shot.
Il motivo preciso per cui dovrebbe sparare a suo padre è solamente accennato, ma prometto che ci saranno delle spiegazioni pecise.
A presto!








   
 
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