Arriva il quarto capitolo!
Lieve cambio di atmosfere, vi do solo questo piccolo avviso.
Sperando in bene, vi
auguro buona lettura!
S.
If you want to be with someone you love, aren't you
already there?
-Richard
Bach
*
Ogni giorno passato
accanto a lui era stato pregno di una qualcosa di sempre nuovo,
piacevole,
adrenalinico, vivo. Ogni momento
passato in sua compagnia gli aveva donato qualcosa di liberatorio, una
sensazione simile al tornare a respirare dopo ore
di apnea.
Era stato tutto quasi
irreale, come in un sogno. La sua vita aveva cominciato a sembrare
così simile
a quella che aveva sempre desiderato che a volte si svegliava nella sua
stanza
credendo fosse tutto svanito, che una volta aperte le persiane, la luce
avrebbe
invaso l’angusta stanza in affitto dove aveva vissuto prima
di Baker Street,
lasciandolo con l’amarezza di un obiettivo mai raggiunto, di
un desiderio
irrealizzabile.
Invece, era stato tutto vero.
Era nelle mani di Sherlock che ogni mattina aveva poggiato la prima
tazza di
tè, seguita immediatamente dalla propria; era sulle spalle
di Sherlock che
aveva rimboccato la coperta quando il detective crollava sul divano
dopo ore di
lavoro senza sosta, ed era stato Sherlock, sempre e inevitabilmente
Sherlock a
occupare ogni suo pensiero, ogni singolo giorno della sua nuova vita.
Non avevano mai parlato
dei loro incontri precedenti. Non avevano mai accennato a quei momenti,
al
tempo passato, al fatto che fosse trascorso così tanto
tempo, o anche
semplicemente discusso del perché non avessero mai cercato
un modo per tenersi
in contatto. Forse non ne avevano sentito il bisogno, o forse John non
aveva
desiderato rivangare momenti della sua vita che avrebbe voluto
dimenticare. Non
era rimasto più spazio per i ricordi in quella vita, i
cassetti della sua mente
erano diventati colmi fino all’orlo e John non aveva sentito
alcun bisogno di
riaprirli.
Non aveva dormito per
giorni dopo la caduta, e quelle poche volte che era riuscito a
scivolare in un
tormentato dormiveglia non aveva fatto che sognare lui.
Ed erano sogni, incubi,
completamente diversi da quelli
che avevano tormentato il suo sonno tempo prima.
Una guerra diversa.
Era come tornare indietro
nel tempo ogni volta, rivivendo sempre la stessa scena, sempre gli
stessi attimi
che di volta in volta cambiavano in un unico piccolo particolare.
In quei sogni Sherlock gli
parlava, gli parlava sempre, gli
diceva di rimanere fermo, di non muoversi. Sherlock gli diceva che
quello era
il suo biglietto, che era quello che la
gente faceva, e che era un impostore e tutti dovevano
saperlo. E alla fine,
il suo commiato.
Quello che cambiava ogni
volta, erano le parole che seguivano quella lacerante frase
d’addio, che diventavano
ogni notte più crude, piene di risentimento e colpa,
sentimenti che
costringevano John a mordere con forza il cuscino per non gridare, per
non
esplodere dalla frustrazione pressante.
Una volta sentiva chiaramente Sherlock chiedergli di fermarlo, di
aiutarlo a
scendere, di impedirgli di compiere qualcosa che non desiderava
davvero.
Un'altra volta lo vedeva chiaramente piangere, dando
un’immagine alla voce
rotta dalle lacrime che aveva sentito al telefono, e altre volte,
quelle
peggiori che lo facevano risvegliare madido di sudore e con una morsa
allo
stomaco, Sherlock lo accusava di non aver nemmeno provato
a salvarlo.
Ed era vero, in fondo, e
quel pensiero per John era come una lama affilata che gli dilaniava il
petto
ogni volta che vi si soffermava.
Sapeva che non avrebbe
potuto fare nulla in quei pochi minuti, Sherlock era stato chiaro sul non muoversi, e sapeva che se gli avesse
disobbedito avrebbe vissuto con ancora più rimorso, ma non
riusciva a darsi
pace.
Avrebbe tanto voluto avere dodici anni, come la prima volta che
l’aveva
incontrato, con la speranza infantile che tutto potesse succedere, che
nulla
fosse completamente impossibile.
Aveva pensato tante volte
a quanto sarebbe stato meglio non averlo più incontrato dopo
la mattina al molo,
anche se pentendosi subito dopo di avere anche solo immaginato una
prospettiva
simile.
Sherlock aveva portato colore al suo mondo grigio, spento. Sherlock gli
aveva
dato tutto, e John aveva ricambiato in ogni modo possibile, grato,
riconoscente
alla vita per quella possibilità.
Forse avrebbe dovuto
litigare con Harry, quel pomeriggio di agosto. Poi sarebbe scappato in
un posto
solitario, tranquillo, lontano dal resto del mondo e magari lo avrebbe
trovato
lì ad aspettarlo. Magari Sherlock avrebbe potuto concedergli
quel piccolo
miracolo.
Sherlock avrebbe potuto. Sherlock avrebbe potuto fare ogni
cosa.
John non aveva voglia di
rimanere in casa, quella sera.
L’afa era diventata
opprimente, nemmeno il calar del sole sembrava poter offrire il
refrigerio
tanto agognato, e il nuovo appartamento di John era un vero e proprio
forno a
causa del condizionamento difettoso.
Non aveva una meta ben
precisa, non gliene serviva una, ma girovagò per il
quartiere a passo lento,
con la testa china e immerso nei suoi pensieri.
Entrò in un pub e
bevve un
paio di birre per scacciar via una malinconia che si
dimostrò più resistente
del previsto e continuò per la sua strada, costeggiando
appartamenti illuminati
e chiassosi e casette più tranquille, con coppie
d’anziani seduti l’uno accanto
all’altro sul patio.
Il Big Ben risuonò
in
lontananza, avvisandolo dell’avvicinarsi della mezzanotte,
quando John si
accorse di essere quasi in prossimità del suo vecchio
quartiere natale.
Sorrise e osservò
con
nostalgia i palazzi alti, le colonne bianche davanti agli ingressi, i
cancelli
smaltati e perfettamente ridipinti che da piccolo si divertiva a
scavalcare e
le aiuole fiorite ben tenute dalle vecchine del piano terra.
Avrebbe dovuto portarci
Sherlock, anni prima, anche se forse il suo amico non avrebbe
apprezzato al
massimo il sentimentalismo estremo di quel gesto, ma poco importava.
Avrebbe dovuto renderlo
partecipe della sua vita passata, magari portarlo a quel vecchio parco
giochi
dove si erano visti la prima volta. Sarebbe stata un gran bel gesto, se
solo…
se solo le cose non fossero andate com’erano andate.
E a proposito di quel
parco giochi, il lento cammino di John lo portò
inevitabilmente in prossimità
dei suoi cancelli, a costeggiare il lato ovest a pochi metri di
distanza, con
le chiome dei due alti faggi ad abbellire ulteriormente il cancello
d’entrata decorato
in ferro battuto.
Le labbra si piegarono
inevitabilmente in un sorriso, e cominciò, senza che se ne
rendesse conto, ad
avvicinarsi sempre di più alla cancellata ripida che
recintava il parco, dello
stesso identico colore di vent’anni prima, che rifletteva
perfettamente lo
spirito di quel luogo dove il tempo sembrava quasi non essere passato.
Senza riflettere
più di
tanto, sfiorò una delle sbarre, stringendola nella mano
destra e usando la
sinistra per puntellarsi su una delle travi verticali.
Magari con la leva
giusta…
Si diede lo slancio con il
piede destro e saltò sul muretto in pietra, dandosi
un’ulteriore spinta su di
esso, e con un notevole sforzo riuscì a salire cavalcioni
sulla parte superiore
fino a scendere con un balzo agile sull’erba del prato
dall’altro lato.
John non sapeva
esattamente perché l’avesse fatto, in
verità.
Si immaginò gli
sguardi di
Greg, la Donovan o Anderson se lo avessero visto sgattaiolare in un
vecchio
parco giochi, per di più chiuso,
ma a
John in quel momento non poteva importare di meno del giudizio degli
altri.
Si diresse a passo sicuro
verso il parchetto delle altalene, il suo favorito quand’era
bambino, e fu
felice di notare che le sue preferite, quelle arancioni dove aveva
passato ore
ed ore a dondolare senza mai stancarsi, erano ancora lì
dov’erano sempre state.
John quasi si commosse davanti a quell’oggetto, alla fine
soltanto una struttura
di ferro, corda e legno, ma che per lui significava tantissimo.
La sfiorò come se
quella
potesse sentirla, come se potesse effettivamente godere della sua
carezza, e
John sorrise quando quella cigolò sonoramente, come a dargli
un segno
d’apprezzamento.
Dopo una piccola iniziale
esitazione John la fermò, afferrandola per le corde e
sedendosi piano, quasi
come se temesse di romperla. Per fortuna, quella resistette.
Cominciò a
dondolarsi
lentamente, dandosi la spinta con i piedi allineati, e
lasciò la mente vagare a
quella notte dei suoi dodici anni, la notte in cui aveva visto
Sherlock, che a
quel tempo era solo un mocciosetto arrogante senza nome, per la prima
volta in
assoluto.
Ricordava ogni piccola sfumatura di voce, ogni suo sguardo, ogni
movimento che
aveva potuto vedere nella flebile luce, e John non smetteva mai di
stupirsi
davanti a quell’evidenza. Soltanto quegli istanti, i momenti
passati con
Sherlock, rimanevano vividi nella sua mente a quel modo, come se
fossero scene
di film viste e riviste incise su una pellicola immaginaria nella sua
testa.
Avrebbe voluto dimenticare, da un lato, ma dall’altro era
felice, grato, incredibilmente
sollevato dal fatto di avere quei ricordi così chiari ben
impressi in mente.
Dimenticarlo sarebbe stato come tradirlo, e John avrebbe preferito morire, piuttosto.
“Vorrei tornare a
quel
giorno, Sherlock” disse al vento e all’erba mossa
da esso, davanti a sé.
“Vorrei chiudere gli occhi e risvegliarmi bambino.”
Il silenzio che
seguì posò
una coltre scura, triste, intorno al cuore di John. Poi
però, qualcosa improvvisamente
cambiò. Un rumore secco, come di rami spezzati, lo costrinse
a voltarsi verso
il boschetto.
“Lo vorrei
anch’io, John”
qualcuno, alla fine, gli rispose.
Preso completamente dal
panico, John sussultò, all’erta. Guardò
davanti a sé, da dove la voce era
venuta, senza però vedere nulla, all’inizio. Dopo
qualche secondo però i cespugli
cominciarono a muoversi in maniera innaturale, e una mano, o almeno
tale
sembrava sotto la flebile luce, spuntò dalle foglie e dai
rami, precedendo
l’intera figura imponente di un uomo sconosciuto.
“Chi sei?”
gridò John,
alzandosi dall’altalena e cercando intorno a sé
una qualunque cosa da poter
usare per difendersi in caso ce ne fosse stato bisogno.
“Non ce
n’è bisogno, John.
Non ti farò nulla” la voce parlò ancora
e questa volta, John la riconobbe
all’istante.
“Chi sei, ho
detto?” gridò
ancora più forte, credendo di poter svenire lì in
quel momento, il respiro
diventato affannoso, frenetico e
il
cuore che sembrava voler uscire dal petto aprendosi un varco con la
violenza
del suo battito.
“Non fare domande di
cui
conosci la risposta, John” esclamò ancora
l’uomo, scivolando sotto l’unica
lontana fonte di luce.
E quello che John vide, gli diede il colpo di grazia.
Si tenne lo stomaco con le
braccia, stringendolo forte per cercare di bloccare la nausea terribile
che
ormai non gli dava tregua. La vista gli si annebbiò per
qualche secondo,
soltanto lampi di luci e ombre davanti agli occhi, e sentì
le gambe cedere e il
suo corpo accasciarsi ai piedi dell’altalena, con il sapore
terroso dei fili d’erba
secchi sulle labbra.
Nei pochi attimi di
lucidità che precedettero l’incoscienza totale,
John scorse una figura china su
di lui intenta a parlargli e sentì il tocco di mani che
cercavano in tutti i
modi di sostenerlo, senza successo.
Dopo qualche secondo poi,
tutto divenne buio.
Quando John rinvenne,
tutto attorno a lui era ancora scuro, confuso e silenzioso, a parte un
rumore
cadenzato e monotono proveniente da sopra di lui.
Facendo attenzione, si
puntellò sulle braccia instabili, mettendosi seduto e
guardandosi intorno.
Quando si girò verso la fonte del rumore, fu costretto
nuovamente a sostenersi
stringendo la sbarra dell’altalena, pressandola
così forte da rischiare di sgretolarsi
qualche falange.
“Cosa cazzo sei
tu?”
domandò in un sussurro simile a un sibilo. “Sono
morto, o sono impazzito?”
L’uomo seduto sull’altalena, intento in un lieve
dondolio avanti e indietro, lo
guardò con espressione difficile da decifrare.
“Nessuna delle due, John” disse, secco.
John rise, nervosamente,
cercando di concentrare la stretta della sua mano sulla sbarra per
respingere
la tentazione di stringerla attorno al collo dell’uomo.
Si sollevò e rimase
in
piedi davanti alla figura seduta.
“Mi sembra di averti
fatto
una cazzo di domanda.”
“E a me sembra di
averti
risposto.”
“No che non
l’hai fatto!”
sbraitò John, con l’odio che cresceva dentro di
sé a ogni sillaba.
“Ti ho detto di non
farmi
domande di cui conosci la risposta” spiegò
l’altro, come se stessero parlando
del caldo afoso di Londra di quell’agosto.
“Dio Santo Sherlock, smettila di fare lo
stronzo!”
gridò ancora, incurante del fatto che non dovesse
assolutamente trovarsi in
quel posto e che magari qualcuno avrebbe potuto sentirlo. Si
lasciò cadere
sull’altalena vicina e abbassò lo sguardo,
tenendosi la testa con le mani,
distrutto dentro e fuori. Che stava succedendo? Stava impazzendo
davvero? Al
momento sembrava l’unica ipotesi plausibile.
Continua...