Soul's Wind
Capitolo 3
Leah
Ci sono dei momenti, piccoli punti di luce in un buio pesto, che ti fanno
sentire al sicuro proprio quando sei convinto di essere in pericolo. Un sguardo
amico, una parola detta nel momento esatto, la consapevolezza di non essere
solo.
Ho mandato giù tutta la colazione: uova fritte, un bicchiere di succo
all'arancia, della pancetta, e anche solo per poco mi sono sentita… bene, non
ho pensato ai motivi che mi hanno portato a scappare o a nessun'altra cosa che avrebbe
potuto rattristirmi. Va bene così, anche se so che tutto passerà in fretta.
Sono una di quelle persone che il destino prende di mira senza un motivo
particolare, ed è una di quelle cose che fanno demordere, ma che si impara ad
accettare.
« Va meglio, ora?»
Ho divorato tutto in pochissimo tempo, senza badare allo sguardo di Brian,
senza badare al posto in cui mi trovo, senza badare a quello che potrebbe
succedere. Per quanto tempo non ho fatto colazione? Troppo, troppo tempo. Il
problema è che ora mi vergogno un po', spero soltanto di non aver dato
l'impressione di essere un affamata che non mangia da chissà quanto...
Ma tu sei un'affamata che non mangia da chissà quanto!
Giusto...
« Meglio.»
Brian è seduto ai piedi del letto, mentre io mi specchio nel metallo sottile
del vassoio che lui mi ha portato. Ciò però non influisce nel ricordo dei miei
pensieri. E' all'incirca venti centimetri più alto di me, ha gli occhi grandi e
profondi, leggermente allungati, verde chiaro. Ogni tanto la sua guancia sinistra
affonda in una fossetta leggera. Ha un bel viso, dai tratti dolci e allo stesso
tempo duri, un fisico… be', è un licantropo, non potevo aspettarmi altro. Almeno questo è quello che sono
riuscita a vedere quando si è sbottonato di quattro bottoni il camice medico
per mostrarmi il tatuaggio. E' un licantropo, è come me: questa cosa potrebbe
avvicinarmi a lui, potrebbe avvicinare entrambi, eppure è la stessa cosa che mi
dice di stargli alla larga. Devo andarmene presto, lo so già.
«Vuoi raccontarmi qualcosa... tipo, che so, quanto tempo hai passato da sola a
vivere come un lupo...» mi chiede, mi toglie il vassoio da sopra
le mie gambe e lo poggia sul mobile accanto al letto. Ha dei movimenti decisi,
forti, quasi precisi.
« Non... non è affar tuo.» fiato, al posto di dire: "Non mi ricordo",
per evitare la figura della stupida. Adesso gli sembrerò una ragazza acida e
priva di gratitudine, ma è meglio di sembrare debole, indifesa, come una
bambina che ha perso la strada di casa.
Lui rimane sorpreso, in modo fastidioso, e mi guarda.
«Non sono io quello che ha deciso di accamparsi in un bosco in
cui il
territorio è già proprietà di un branco. Se ti
avessimo lasciato lì avresti
potuto imbatterti in chiunque dei ragazzi, fra l'altro qualche testa
calda, e
ti saresti messa in guai seri. Adesso dimmi, sei a casa mia, viva,
forse,
grazie a me, e questo non è affar mio?» dice, guardandomi.
Con quella divisa
indosso somiglia a quei dottori dei telefilm hollywoodiani, soltanto
che io
l'ho fatto arrabbiare davvero e questa non è una recita. Ma come
può essere arrabbiato, lui? Dovrei esserlo io, mi ha colpito con
una siringa di sonnifero. Per il tuo bene.
La sensazione di vuoto
e inadeguatezza che mi si allarga nel petto è vera, e mi arriva alla testa come
con una scossa, facendomi sudare freddo.
Perchè sei sbagliata, lo sei sempre stata, non puoi fare niente per
cambiare.
«Io non mi ricordo.» ammetto. E' stata dura, anche perché il bruciore
intorno al petto non svanisce, ma cresce, quando lui mi guarda insoddisfatto e
continua a squadrarmi. Distolgo lo sguardo. Sospira, passandosi una mano fra i
capelli castani, poi sospira ancora, avvicinandosi.
« Ti ricordi che giorno era quando hai abbandonato tutto? » mi chiede,
tenendosi sui talloni per incontrare il mio sguardo.
« Era il tredici Dicembre.» rispondo, senza guardarlo. L'annuncio del loro matrimonio non me lo sono scordato.
E perché mi ha parlato di abbandono? Perché è così sicuro che io abbia lasciato
qualcosa?
« E poi, a nessuno importa di me, quindi non ho abbandonato niente.» ribatto.
All'improvviso mi trovo con la testa girata verso di lui; mi ha voltato
mettendo il pollice sotto il mio mento, contatto che termina subito dopo che io
me ne sono resa conto.
« E' il diciotto Febbraio, sono tre mesi, è parecchio tempo che sei via.»
spiega, lentamente, pesando ogni parola, scacciando via quella piccola
sfumatura di rabbia che avevo visto invadergli le iridi verdi.
Ha ancora quell'espressione seria che
mi attraversa di getto. Ed io sono convinta che non abbia nessun diritto di
farmi sentire così… così…
« Oh, per favore, non farmi la predica. Non mi accamperò qui per tre mesi, se
vuoi me ne vado proprio adesso, così non ti do nessun fastidio... »
« E dove andresti? »
Sbuffo, massacrando il lenzuolo con le
mani. E’ tutto così strano… così… “da mondo dei sogni”. Sono secoli che una
persona non mi fa domande sulla mia salute, sul mio stato d’animo, su quello
che voglio o non voglio fare. Mi sento sperduta, ho
dimenticato come ci si comporta con qualcuno a cui interessa qualcosa di me.
Sembra un ricordo lontano, un istante impolverato nella piccola parte delle
cose a cui non si pensa mai. Forse da un momento all’altro riconoscerò me
stessa, attraverso un vetro, che mi guarda e mi osserva, rammentando un giorno
qualunque, in cui tutte le cose banali viste da quei miei occhi velati sembrano
invece le più belle del mondo.
Perché? Perché sono così?
« Non lo so! Non l'ho mai saputo eppure me la sono cavata benissimo! »
« Ho visto, come te la sei cavata bene. »
Ecco, ha quell’espressione sicura, si
appoggia al muro con una spalla e mi guarda socchiudendo gli occhi.
« E' la prima volta che succede. »
« Perché? Lasceresti che ti accada di nuovo? »
« E anche se fosse? Così finirebbe tutto molto prima del previsto, ed io starei
molto, molto meglio... » dico a denti stretti.
« Be', allora sono io che non te lo lascio fare.» mi zittisce.
Forse la mia comprensione è abilitata ad
un’altra lingua e non più all’inglese…
« Ti spiego una cosa: questo ambulatorio è in casa mia, la maggior parte dei
ragazzi del branco sono degli emeriti cretini con la faccia da idiota, quando
si fanno male io mi occupo di tutto, facendoli stare qui. Non mi tiro mai
indietro. Questa volta sei tu ad aver bisogno di aiuto, e non mi tiro indietro
nemmeno in questo caso. Non è poi così male, sai. Per ora non pensare a quanto
tempo passerai qui, resta e basta. Se davvero non hai nessuno, se davvero a
nessuno importa qualcosa di te, da oggi in poi le cose sono cambiate. Non
voglio che ti comporti in modo stupido, e tu mi sembri una ragazza
intelligente, quindi non fare cretinate, va bene? »
Ehm…
No? No che non va bene!
Resta e basta. Se davvero non hai nessuno, se
davvero a nessuno importa qualcosa di te, da oggi in poi le cose sono
cambiate.
E sembra che lui invece si stia
soffermando fermamente sulla parola "cretinate"… anche se mi fissa, anche se si
avvicina a me con lo sguardo che mi travolge completamente, anche se non mi va
di guardarlo perché potrebbe immaginare chissà cosa. Comunque, visto che per me
tutto è meglio di fare la figura della stupida, rispondo: « Afferrato il
concetto.»
« Bene.»
« Bene.»
« Grandioso.»
« Bello.»
« Molto meglio.»
« Supermegaiperarcifantasticamentebello,
ti ho detto che ti ascolto ma adesso finiamola, okey?»
Scoppia
a ridere, ha una risata calda,
che mi solletica le orecchie come le piume dei cuscini sotto di me, a
cui sono
appoggiata con la schiena. Fantastico, adesso ride. Me ne scappo in un
circo con
un cartello “Ecco il licantropo femmina con il più grande
senso dell’umorismo!”,
prima di tutto farei andare il circo in bancarotta, naturalmente mi
sbatterebbero fuori… finirei per fare la zingara lungo le trade
dell'east River e... senza che io me ne accorga mi ritrovo a
ridere insieme a
lui, che comincia a dire qualcosa.
« Ah, allora ne sei capace! »
« Di fare cosa? »
« Di sorridere… e di ridere, anche. »
Da quanto tempo non ridi, Leah?
« Se vuoi puoi dirmi tutto… io sono
qui.»
Si siede sul letto e sembra che mi accarezzi con gli occhi; annuisco, poco convinta, non credo che avrei mai il coraggio di spiegargli perché sono qui, perché sono fuggita via.
Sam.
E’
necessario che io rimanga almeno un altro giorno a letto, come mi dice lui. E’
troppo presto per sentirmi a casa, è troppo presto per pensare di non essere un
peso, anche se devo badare a non farmi incantare da queste sue parole buone.
Lo sappiamo tutti che io non posso essere come tutti gli altri.
Questo letto tornerà vuoto di nuovo, non ci sono certezze ma io non ne ho mai avute: è un dato di fatto e non posso cambiarlo… posso solo andarmene via.
Brian
« E… poi ci siamo messi a ridere.» lo
dico incredulo, anch’io, e so bene che anche per lui sarà difficile crederci.
Il mio migliore amico è una delle poche cose che fanno parte della mia vita
precedente ad essermi sempre rimasto accanto. E, come sempre, non viene mai meno a battute pesanti e a
commenti puntigliosi.
Comincia a ridere,
la sua risata asciutta e leggermente roca, ed io mi aggrego a lui,
spontaneamente, come se non avessi nient’altro da fare.
« Devi presentarcela questa Lyla…»
« Leah, è così che si chiama.»
« Oh-oh, male, molto male, quando ci
si ricorda il nome della tizia è un male.»
«
Ma finiscila.» Lui non fa altro che pensare ad un solo e
unico nome, Alexis, il suo imprinting e, ormai, sua futura
moglie. La fase del ragazzo cretino, sbruffone e latin lover è
finita da un pezzo.
Torniamo nella sala da pranzo, se così
si può chiamare la parte più grande di un appartamento con un tavolo di legno
in mezzo e all’incirca undici scalmanati che si rubano i pezzi di pizza a
vicenda. Oliver mi ruba l’ultima birra che mi è rimasta. Rispetto per il capo
branco: zero.
Non è che ci siano state molte
occasioni per mettere in pratica quello che viene raccontato dagli anziani
della riserva. Questa parte del Minnesota non è stata invasa per almeno cento
anni: soltanto quattro anni fa, con la creazione di moltissimi vampiri neonati
anche nei nostri dintorni il gene ha cominciato a manifestarsi. Ci è capitato
di ucciderne pochi in tutto questo tempo, per lo più vampiri stanchi e dalla
testa calda che ci siamo divertiti a smembrare come dei pupazzi dalla plastica
tossica. Non abbiamo avuto molti problemi, la vampira rossa si era diretta verso la penisola olimpica,
dove non potevamo recarci. Secondo le antiche mappe, la zona appartiene già
a un branco, di cui nessuno di noi conosceva l’esistenza. Da quello che ci
raccontano le leggende, gli indiani della mia riserva, gli Objibwe, sono sempre
stati molto accorti nel trascrivere i loro saperi, cosa che mi aveva sempre
annoiato sin da adolescente e che mi aveva lasciato esterefatto quando tutto si
era dimostrato vero. Un libro di quel genere mi era stato regalato dal vecchio
Klaus.
« Mbe’? Hai lafiato a cafa la thua
donfella in peficolo?»biascica Vic, masticando la pizza. Il mio cercello
prende tutte le informazioni: ecco, qui ci vorrebbe la lettura del pensiero come quando siamo in forma di lupo;
l’intuito però mi fa pensare che nella frase erano comprese le parole: casa,
lasciare, donzella e pericolo.
«State diventando molto paranoici.»
«Oh, ringraziamo il dottore per la
diagnosi.»
«Dico sul serio.»
«Infatti, io che ho detto? »
Sbuffo. Loro sì che sanno come si fa a
fare esasperare una persona, o un mutaforma in crisi di identità.
« Per quanto tempo rimarrà a casa tua?
» mi chiede Oliver, mentre gli altri fanno finta di essere interessati allo
stupido programma televisivo che guardano con lo sguardo troppo fisso.
E’
passata una settimana, ormai, da
quando Leah si è svagliata. Ha passato due giorni a letto e poi
ha cominciato
ad infastidirmi. Le finestre avevano già delle sbarre, in modo
che non le venisse in mente di scappare dalla sua finestra. Come se non
bastasse, mia
madre, mio padre e mia sorella la adorano letteralmente. Leah dice che
non
passerà un altro giorni in cui lei mangerà alla mia
tavola senza pagare e per
questo sto provvedendo a cercarle un lavoro. Nel frattempo passa il
tempo ad
aiutare mia madre nelle faccende di casa, come se questo le desse
soddisfazione.
Sembra quasi che lo faccia… per non pensare. Ogni tanto ha lo
sguardo perso,
che guarda altrove, ma così profondo che mi darebbe
l’illusione di affondarci per vedere che cosa c’è
dentro quegli occhi, cosa c’è nel suo passato,
nei suoi ricordi.
« Nessuno può decidere al suo posto.»
Il mio sguardo basta a fare capire
loro che la discussione è chiusa; adesso cominceranno a parlare di qualcosa di
ancor meno intelligente.
«Bene, non c’è bisogno che mi
ringrazi. »
E’
uno dei pochi giorni in cui sta
finalmente ferma, sicuramente perché mia sorella Noela, la mia
fotocopia al
femminile se non fosse per i capelli quasi neri e la pelle più
scura, rimasta letteralmente incantata dal suo racconto dei mesi
precedenti passati come un mutaforma - lei conosce tutto delle leggende
- è
riuscita a fissarla sulla sedia per metterle lo smalto alle unghie
trasparente, parlandole del bisogno di dover curare le sue mani,
eccetera
eccetera, ma lei, anche se non lo ammette, è troppo buona per
aggredire la mia
sorellina di quindici anni.
Mi
guarda spazientita, adesso non sono
più il suo dottore e lei può mandarmi a quel paese e
mangiare schifezze ogni
volta che vuole. Ma è sempre in casa mia, quindi sembra che a
volte si trattenga.
Ci sono momenti, questa settimana è successo almeno tre volte,
in cui ci capita
di ridere come due adolescenti senza cervello. Inoltre mi ha dato la
conferma
di essere molto più carina quando muove la bocca in un sorriso.
Non che questo
cambi qualcosa, naturalmente. E neanche il fatto che con i capelli
legati si veda meglio il suo viso, e che quella camicia sbottonata fino
al...
«Ciao, Brian.» dice.
«Ti ho trovato un lavoro » continuo, posando le chiavi sul tavolo.
Smettila di pensarla. E immaginarla...
Noela mia guarda male, mentre gli occhi di Leah
brillano così tanto che sembrano stelle.
«Davvero? »
«Già.»
« E' stupendo! »
Si alza dalla sedia e le sue mani si
posano sulle mie spalle, dura un secondo, il tempo che lei si alzi sulle punte
e poggi il suo mento sulle mie spalle. E’ una sensazione che avevo dimenticato,
che credevo di non provare più, anche adesso che è ormai finita, anche adesso
che è tornata quella di sempre.
« Che lavoro?» mi chiede tossendo.
«La ludoteca dell’ospedale di Opstead
cerca una babysitter, l’ultima si è dimessa per andare in maternità. Che ne
dici? »
«Qualunque cosa va bene. »
«Domani mattina alle dieci il
caporeparto vuole incontrarti, sarà una specie di colloquio… »
« Ci sarò.»
Mia madre, i capelli castani chiari
raccolti in una coda e il rossetto rosa sulle sue labbra lucide, mi
sorride uscendo dalla camera da letto.
Mi mette una mano sulla schiena,
guardando in avanti.
«Ragazzi, io esco a fare delle
commissioni. »
«Sola? » le domando.
«No… c’è tuo padre che mi aspetta
fuori. »
Neanche il tempo di annuire, che la
porta d’ingresso del salotto si apre.
«Julia, sei pronta?» chiede la voce
familiare e calda di papà.
« Sì, Curt, vengo subito… Leah, hai bisogno
di qualcosa? »
«Di niente, signora Ewell.»
«Solo Julia, davvero.»
«Ok… »
E mio padre, che naturalmente non può
rimanere fuori ad aspettare, entra in cucina con la sua solita camicia di
flanella e i pantaloni buoni, invece dei jeans perennemente sporchi da
muratore.
«Andiamo?» dice.
« Subito.» risponde mia madre,
dirigendosi verso di lui.
« Tutte bene, Leah? »
E va bene, praticamente io non esisto più.
Sembra che io sia l’unico che provi rimorso, Noela infatti se la sta ridendo
sotto i baffi fissando gli smalti multicolore che si trovano sul tavolo.
« Sì, signor… »
Mio padre, facendo un ‘espressione da
fotografare che gli permette di muovere la fronte e l’attaccaruta dei capelli
scuri, sta per rimproverarla di qualcosa…
« Curter.» si corregge lei.
E’ molto imbarazzata, mentre io cerco
di inquadrare la situazione. Mia madre è stata subito d’accordo nel volerla
accogliere, anzi non ha fatto altro che convincere me e mio padre, che è
praticamente rimasto conquistato.
Ed io sarei l’unico che la vede
scorbutica e piena di sé, fantastico! E la cosa ancor peggiore è che l’ho
dimenticato. Dov’è andata a finire la ragazza antipatica? Fastidiosa e che ha
sempre da ridire? Perché ho l’impulso di sedermi e rimanere a chiacchierare con
lei… come… un amico?
I miei escono di casa, Nolly tira Leah
al suo solito posto, parlando della fortuna di averle smaltato soltanto due
dita in modo da non rovinarsi le unghie per ringraziare lo scemo di casa, che
sarei io.
Mi
chiudo nel mio studio per sistemare
delle schede mediche che potrei anche ordinare domani, evitando di
guardare
quella foto che è sempre sulla mia scrivania, incorniciata, e
che ho contemplato con gli occhi velati nelle ore più tetre di
questi due anni.
Mi sento sbagliato, con il suo viso
bellissimo in quella foto, mentre nei miei pensieri comincia ad esserci
un’altra…
No! No! Io… e Leah. Ma neanche per sogno!
Comincio a dividere i documenti,
quelli piccoli nella cartella gialla, quelli con la graffetta in quella rossa,
le schede delle diagnosi…
Devi cominciare a vivere, devi cominciare a
farlo di nuovo. Lei lo avrebbe voluto, lei lo vorrebbe, per te. Pensi che non
ne sarebbe felice?
Devo smettere subito di pensare a
certe assurdità: sono passate soltanto due settimane dal risveglio di Leah, e
tutto è stato completamente scombussolato. Non devo lasciare che succeda niente
di simile.
E’ una ragazza qualunque e prima o poi, al massimo un’altra settimana, lascerà Opstead e tutto sarà di nuovo come prima, e potrò vivere senza sensi colpa.
Lo faccio per te, sempre.
Mi distendo sulla sedia, stanco. Di tutto.
Tu non vivi, Brian: mangi, parli, dormi, ti risvegli, ma non vivi. Per farlo ti viene richiesto uno sforzo maggiore. Provaci, Brian, non è così difficile. Quando scoprirai quanto ti manca essere te stesso, ti sentirai orgoglioso di te. Fallo ritornare indietro, ti sta chiedendo un riscatto, ti sta chiedendo di essere libero. Non ti incatenare con la tua stessa libertà, ritrova quello che sei.
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Ciaooo a tutti :)
Opinioni su Brian? Non si sa molto di lui... anche perché è proprio lui che non vuole pensare a quella parte del suo passato. Qualche idea? Qualche teoria?
Siete davvero meravigliosi. Ringrazio tutti voi che mi seguite, leggete, e mi lasciate un commento.
Grazie davvero **
Un bacio
Ania