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Autore: Alkimia    01/08/2012    1 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo diciottesimo
Verità


~ Napoli, 07 maggio 1872 ~

Erik era stato pazientemente alla finestra, ad attendere che facesse sera.
In quel periodo dell'anno le giornate cominciavano a diventare più lunghe e Napoli era una città che si teneva avidamente aggrappata alla luce del sole. Questa forse era una delle poche cose in cui lui e quel luogo non si assomigliavano per niente, Napoli sapeva tenersi stretta la luce, quando poteva, lui invece non era mai stato capace.
L'uomo guardò il suo diario posato sul piano della scrivania, lo aveva preso per scrivere di quell'ultima giornata di prove, della crescente agitazione che sentiva serpeggiare nel teatro man mano che la sera della prima si faceva più imminente. Ma alla fine non aveva scritto nemmeno una riga, aveva la strana sensazione che quel giorno non fosse affatto finito, sentiva nell'aria il peso di qualcosa di imminente. Si era dato dello sciocco, ma difficilmente le sue sensazioni lo traevano in inganno.
Alla fine aveva deciso di rimandare la stesura dell'aggiornamento del diario all'indomani, quando quelle strane impressioni sarebbero svanite. O sarebbero state verificate.
Si avvicinò alla scrivania e prese il quaderno tra le mani, facendo frusciare le pagine contro il pollice. Quando la piccola Luisa glielo aveva regalato, gli era sembrata una cosa così priva di senso. Se anche avesse immaginato di vivere nell'arco di pochi mesi tutte le cose che aveva effettivamente vissuto, non gli sarebbe mai venuto in mente di metterle per iscritto, pensava fosse un passatempo per giovinette o un vezzo da persone importanti che provano fin troppo diletto a crogiolarsi nel peso delle proprie parole. Si era ritrovato a scrivere per l'istintivo bisogno di dar voce ai suoi pensieri, quando ancora credeva che nessuno avrebbe mai ascoltato, alla fine aveva continuato perché vedere quelle pagine riempirsi gli dava la sensazione che la sua vita non stesse andando alla cieca, quelle righe che si susseguivano gli lasciavano l'illusione di avere un'anima, un'anima che poteva essere espressa, trasformata in inchiostro, e quindi resa più concreta. Quel diario sarebbe stato in qualche modo la prova che dietro la maschera del Fantasma dell'Opera c'era stato un uomo, poco importava se nessuno lo avrebbe mai letto.
Erik accarezzò distrattamente la copertina di pelle del quaderno, prima di riporlo nel cassetto. Poi decise che la sera era abbastanza prossima da indurlo a uscire.
Percorse la strada con il passo distratto e cadenzato dell'abitudine. Si fermò solo qualche secondo per lasciar cadere un paio di monete nel cappello di un suonatore di violino che suonava malamente uno strumento scordato all'angolo di un vicolo.
Aveva strani pensieri, quella sera. Pensieri grandi e rumorosi che coprivano quasi del tutto le voci della città. Nella sua mente il passato e il presente si mescolavano, diventando uno strano quadro dai contorni distorti.
Erik sospirò contro il cielo di Napoli, sapendo che non sarebbe mai stato in grado di affrontare i ricordi né di far pace con quello strano presente. Ogni volta che tentava di concentrarsi su una singola riflessione che riguardava qualche elemento della sua vita, tante altre immagini facevano capolino nella sua mente, rendendogli impossibile qualsiasi elucubrazione. Arricciò il naso, pensando che un uomo che non è in grado di far chiarezza dentro se stesso vale davvero molto poco e mai come quella sera lui si sentiva prossimo al considerarsi una nullità. Non perché si credeva privo di valore – aveva il suo talento, aveva la musica – ma perché, semplicemente, non sapeva più chi era.
Arrivò davanti al portone dell'Araba Fenice. Un pensiero ancora più amaro si agitò in fondo alla sua mente: lui non sapeva più chi era e nessun altro lo aveva mai saputo. Si erano tutti creati delle idee personali su di lui, ma la verità restava celata ed Erik si chiese cosa ne sarebbe stato della sua nuova vita se anche solo una di quelle persone avesse scoperto quell'enorme pozzo buio, quella voragine di sangue e fuoco, il personale inferno che lui si portava dentro, che aveva costruito con le sue stesse mani.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, Erik si ritrovò a formulare una riflessione che giudicò folle un attimo dopo: sarebbe stato meravigliosamente liberatorio lasciare che qualcuno sapesse la verità. Il mostro che ancora era convinto di essere aveva fame di disprezzo.
«Follie...» mormorò tra sé e sé l'uomo, varcando la soglia della palazzina.

Nella sala di ingresso dell'Araba Fenice tutto sembrava al proprio posto, come era sempre stato, eppure la sua mania per i dettagli fece scorgere a Erik qualcosa di strano. Forse era per il cipiglio di Madame Fantine, meno giulivo del solito, forse era per i volti un po' tesi di alcune ragazze, il cui sorriso rivolto ai clienti appariva ancora più forzato e artificioso, oppure era per i fiori nei vasi, non freschi come al solito, come se non ci fosse stato tempo di sostituirli, come se fosse accaduto qualcosa che aveva distratto tutti quanti.
L'uomo decise di ignorare quei particolari, se la sua curiosità si fosse fatta particolarmente pressante avrebbe sempre potuto chiedere a Lucia, ma non gli importava particolarmente dei retroscena della quotidianità di quel posto.
«Non stasera». La voce di Madame Fantine arrivò perentoria, come il suo sguardo che si posava sul viso dell'uomo.
La maîtresse non aveva molta simpatia per lui, di questo non si era mai preoccupata di farne un mistero, ma dopo la prima sera, dopo il loro primo battibecco, le loro interazioni erano diventate brevi e formali e lei non aveva più manifestato alcuna obiezione alla sua presenza o al suo interesse esclusivo per Lucia. Adesso cosa diamine era quella novità?
«Come dite, Madame?» borbottò Erik, senza preoccuparsi di nascondere la propria irritazione.
«Non potete vederla, non stasera» rispose la donna, aspra.
«Non mi pare abbiate mai avuto molta voce in capitolo, fino ad ora»
«Non ho tempo per le vostre chiacchiere. Non vi può ricevere, questo è».
L'uomo inclinò appena la testa, scrutando il volto accigliato della buffa signora. C'era una certa gravità nello sguardo che lei gli stava rivolgendo ed Erik si disse che se proprio quella sera la tenutaria del bordello aveva deciso di impuntarsi, dopo tre settimane in cui era stata arrendevolmente rassegnata alla sua presenza, doveva certo essere accaduto qualcosa di grave.
«Cos'è successo?» le chiese, pacato ma deciso, con un tono e uno sguardo che fecero quasi capitolare la sua coriacea interlocutrice.
«Niente che vi riguarda. Abbiate pazienza, tornate un'altra volta» concluse lei con un sospiro, scuotendo la testa sotto la parrucca incipriata.
Erik sentì una stilettata di preoccupazione,
«Lucia sta bene?» si lasciò sfuggire.
Madame Fantine schiuse le labbra in una strana espressione stupita,
«Che ve ne importa?» disse con una freddezza tale che l'uomo si sentì davvero raggelare. Non credeva che qualcuno potesse davvero turbarlo così, meno che mai quella donna.
Restò in silenzio per lunghi secondi. Non pensò neanche di provare a dare una risposta a quella domanda, ma il cipiglio di Madame Fantine lo aveva turbato e lui conosceva un solo modo per reagire al turbamento: fare qualcosa.
Senza aggiungere altro, Erik si voltò, ignorando bellamente la donna, e si diresse a grandi passi verso il corridoio che conduceva alle stanze, procedendo spedito verso la camera di Lucia. Quale che fosse il motivo per cui lei non poteva vederlo, voleva conoscerlo di persona. E se avesse scoperto che era malata o che le era successo qualcosa di cui Madame Fantine aveva ritenuto di doverlo tenere all'oscuro... ah, ci avrebbe pensato dopo. Se c'era qualche motivo particolare per cui Lucia non voleva vederlo, allora avrebbe dovuto dirglielo lei di persona. E anche questa era una prospettiva non troppo piacevole a cui pensare.
«Dove state andando? Non potete... tornate qui...» borbottò la donna, sforzandosi di non alzare troppo la voce per non farsi sentire dalle altre persone nella saletta.
La maîtresse gli si precipitò dietro, in uno sbuffo di merletti e diversi strati di gonne che rendevano goffa la sua corsa nel tentativo di fermarlo.
Erik raggiunse la porta della stanza di Lucia prima che Madame Fantine gli fosse vicino e bussò cercando di imporsi una certa calma. Dall'interno non giunse nessuna risposta.
 «Non c'è... come ve lo devo dire? Ve ne dovete andare...» disse la donna, che lo aveva appena raggiunto, con il fiato corto.
Erik restò immobile con il pugno ancora poggiato contro lo stipite di legno, rendendosi conto di quanto doveva sembrare stupido e ottuso. Quella reazione così cieca ed istintiva non apparteneva all'uomo, ma al Fantasma e per un attimo ne fu spaventato.
Né all'uomo né al Fantasma avrebbe dovuto importare fino a quel segno di quella giovane donna.
Stava per convincersi di lasciar perdere, voltarsi verso la maîtresse, borbottare qualche scusa e magari chiedere semplicemente di riferire a Lucia che era passato. Questa era una reazione normale, l'unica reazione possibile dato che non c'erano risposte per la domanda che ve ne importa?
Ritrasse la mano che aveva tenuto ferma contro la porta della stanza e fece per voltarsi verso Madame Fantine, quando il suo sguardo intercettò qualcuno in piedi sugli ultimi gradini della scala che portava al piano superiore.
«Oh...». La persona sulla scala emise una specie di lamento strozzato, un verso che doveva essere di pena o di imbarazzo. O di paura.
Erik si ritrovò ad osservare confuso Fede, l'inserviente del teatro, immobile come una statua di sale, con una mano poggiata sul corrimano e l'altra chiusa a pugno per tenere sollevato l'orlo della gonna nell'atto di scendere gli ultimi gradini.
La ragazza era arrossita violentemente e poi il suo viso era sbiancato di colpo.
Erik si ricordò di aver visto una giovane praticamente identica a lei una delle prime volte che si era avvicinato al palazzo, ma gli riusciva impensabile credere che Fede avesse davvero qualcosa a che fare con quel posto.
Fede sembrava sul punto di mettersi a piangere.
«Madame...» mormorò con la voce tremula, a chiedere che la donna dicesse qualcosa, che spiegasse al Maestro la sua presenza in quel posto – anche se a a Erik non importava davvero, era convinto che la ragazza non gli dovesse alcuna spiegazione e che, in ogni caso, ognuno ha diritto ai propri segreti e lui non sarebbe andato in giro a dire di averla vista nei corridoio dell'Araba Fenice.
«Ah, San Gennaro mio, dacci i lumi!» gracchiò Madame Fantine scuotendo la testa. «Volevate Lucia, Maestro? Eh, adesso vi porto da Lucia. Mi farete uscire scema, tutti quanti...».
Erik sgranò gli occhi. L'atteggiamento della donna era cambiato di colpo, non sembrava più fredda e determinata a tenerlo lontano, adesso sembrava sull'orlo di una crisi di nervi e sembrava quasi intenzionata a farsi prendere la mano solo per fare un dispetto a tutti quanti. Doveva essere davvero turbata se aveva perso il suo solito lezioso contegno da perfetta padrona di casa. E adesso Erik si stava chiedendo cosa c'entrasse tutto questo con Lucia.
«Io ero scesa a prendere dell'acqua, signora» pigolò Fede, all'improvviso, con mesto tono di scusa.
«Sì, sì, tutto quello che ti serve, piccerè...» rispose la donna, poi si voltò e fece cenno a Erik di seguirla. «È successa una brutta cosa a una delle ragazze» spiegò mentre salivano le scale. «La sorella gemella della nenna che avete visto, la conoscete, no? Lavora nel teatro».
«La conosco» rispose Erik, cercando di mantenersi calmo. Avrebbe voluto far notare alla donna che non c'era bisogno di fare tante storie, che sarebbe stato meglio per tutti se lei gli avesse detto quelle cose fin da subito, ma capì che sarebbe stato inutile, avrebbe solo fatto indispettire ulteriormente la   maîtresse e, in ogni caso, adesso era turbato anche lui. Che cosa era successo di così brutto alla ragazza?
«Lucia se l'è presa assai a male, per tutte cose che non vi devo dire io, ve le dice lei se vuole» concluse brusca Madame Fantine, fermandosi davanti all'ultima camera in fondo al corridoio del secondo piano; aprì la porta quel tanto che bastava a guardare dentro, senza che Erik riuscisse a scorgere chi o cosa si trovava oltre la soglia.
«Lucia?» chiamò a bassa voce. «Il Maestro francese insiste per vedervi». Detto questo si voltò, rivolse all'uomo un'occhiata crucciata, poi sospirò, alzò gli occhi al cielo e si dileguò in fondo al corridoio, giù per le scale.
Dall'interno della camera Erik sentì provenire dei singhiozzi acuti, misti a dei rumori ovattati. All'improvviso fu assalito da un tremendo senso di imbarazzo. Era stata davvero una buona idea insistere per vedere Lucia? Cosa avrebbe dovuto dirle? Voleva solo sincerarsi che... che lei stesse bene e che non ci fossero dei motivi personali per quell'improvvisa assenza. Madame Fantine avrebbe potuto spiegargli da subito come stavano le cose e lui se ne sarebbe andato senza indugiare oltre. Ma di quello che era successo, qualsiasi cosa fosse, Erik non aveva ancora capito niente e non sapeva quanto era giusto pretendere delle spiegazioni da Lucia.
La giovane donna uscì dalla camera. Indossava gli stessi abiti eleganti con cui era andata via dal teatro quella stessa mattina, quando lo aveva lasciato; i capelli le ricadevano scomposti sulle spalle; era come se non si fosse mossa da quella stanza per tutto il giorno. Aveva il volto segnato dalla stanchezza e anche da qualcosa d'altro. Lucia aveva pianto e c'era un malessere pesante che aleggiava in fondo al suo sguardo.
Erik si sentì terribilmente fuori luogo quando lei gli puntò in viso quegli occhi stanchi e arrossati. Essere stato un avido spettatore di vite drammaticamente distanti dalla sua non lo rendeva anche un buon attore su quel genere di palcoscenico tanto insidioso.
«Volevate vedermi. Eccomi» disse Lucia con voce spenta. Sembrava distante, vagamente fredda; l'uomo non seppe dire se c'era una nota di rimprovero in quella voce, provò solo un'immensa pena e decise che era inutile tentare di sostenere un ruolo, tentare di fare l'attore.
«Madame Fantine non voleva spiegarmi cosa è successo. Mi sono impensierito» ammise semplicemente. «So che è accaduto qualcosa a una vostra compagna. Non volevo darvi noia».
Era sollievo quello che adesso stava comparendo sul viso di Lucia? Erik non fece in tempo a stabilirlo, perché lei voltò bruscamente il viso, puntando lo sguardo altrove nel tentativo di nascondergli le lacrime che le stavano inumidendo gli occhi.
«Vi... vi sono grata per il vostro interesse» farfugliò Lucia. Erik non si sarebbe mai aspettato di vederla così confusa e fragile. Confusa e fragile erano attributi che non le si addicevano.
«Cosa è successo alla vostra compagna?»
«È stata aggredita».
C'era stato un tempo in cui Erik non aveva capito come mai andasse attribuito tanto valore alla vita umana, forse perché lui stesso non dava valore alla propria, era deciso a sopravvivere con la caparbietà di un animale, ma il valore della vita era un concetto sfuggente per la sua mente, eppure, anche quando cospirava, minacciava e considerava con leggerezza l'omicidio come una soluzione legittima, aveva sempre avuto uno strano pudore rispetto al pensiero di far del male a una donna.
Ci sono mostri peggiori di me. Peggiori di ciò che io sono stato...
«Cosa le hanno fatto?». Si rese conto della stupidità della domanda solo dopo averla pronunciata.
«Oh, non è come credete. L'hanno sfregiata» spiegò Lucia, con le parole che le inciampavano in gola e venivano fuori come stille di veleno.
Ora l'uomo cominciava a capire. Doveva essere stato orribile per la ragazza scoprire che una sua compagna, forse persino più giovane, aveva subito la sua stessa sorte, e lui meglio di chiunque altro poteva comprendere cosa quella sorte implicasse. Comprendeva talmente tanto che non aveva parole.
«Era me che cercavano». Lucia pronunciò questa frase con un tono di voce talmente basso che per un attimo Erik credette di averla solo immaginata.
«Come dite?» esclamò, sgranando gli occhi.
«Erano lì per me. Se la sono presa con lei perché pensavano che fossi io».
La ragazza si appoggiò con le spalle contro il muro e chinò il capo. Erik restò a guardarla tentando di mettere in ordine i pensieri.
Qualcuno aveva voluto fare del male a Lucia. Una rabbia cieca gli esplose nel petto mentre ripercorreva gli eventi degli ultimi giorni. In mezzo alla cascata di pensieri e sentimenti furiosi, prese forma una voce che pronunciava lapidaria parole di cui solo adesso lui riusciva a cogliere il tono di minaccia.
«Mi avete ferito, Maestro. Non è mai bello né conveniente rifiutare l'offerta di un'amica».
Certo, la gelosia, l'umiliazione del rifiuto. Come aveva potuto non pensarci prima? Come aveva potuto essere tanto sciocco da sottovalutare la situazione? Proprio lui che era quasi morto per quelle stesse ragioni.
Con uno scatto si chinò su Lucia, afferrandole bruscamente le spalle e scuotendola perché alzasse il capo.
«Era una vendetta» affermò. La voce cupa, lontana, che apparteneva al Fantasma.
La ragazza ebbe un sussulto e spalancò gli occhi in preda all'agitazione.
«Erik...» mormorò, come a volergli intimare la calma.
«Lo era. Lo sapete, sapete anche chi e perché» continuò lui, incurante dell'espressione atterrita della giovane donna. Lucia annuì.
«Ditelo» le sibilò. «Dite quel nome».
Lei si divincolò dalla sua presa, tornando ad appiattirsi contro il muro.
«Dite quel nome» ripeté lui, in tono perentorio di comando.
La voce arrivò a fatica sulle labbra della ragazza, tra i respiri spezzati.
«Graziana» pronunciò e lo guardò negli occhi, senza sembrare più né turbata né spaventata.

*

Lucia sentiva quasi male là dove le mani di Erik si erano strette attorno alle sue braccia. Adesso negli occhi di quell'uomo c'erano cose che lei non conosceva, c'erano ombre che lei non aveva mai visto e che non sapeva affrontare.
Che fossero quelle ombre le ragioni delle ferite che lui tentava così disperatamente di celare?
Erik le stava chiedendo un nome. Non era davvero Erik, in realtà, non era l'uomo che lei aveva conosciuto.
«Graziana» gli disse, alla fine.
Il turbamento che aveva provato era sparito di colpo, come se il pronunciare quel nome avesse all'improvviso gettato un ponte tra lei e le ombre che si agitavano in fondo allo sguardo di Erik. Tutto quell'odio e quella rabbia non le appartenevano, quando aveva compreso cosa era realmente accaduto alla povera Speranza si era sentita semplicemente spiazzata, incredula, addolorata. Le faceva male l'idea che qualcuno avesse pagato al suo posto, e allo stesso tempo era convinta che non aveva fatto niente per cui meritava di pagare – motivo per cui la sorte di Speranza le sembrava ancora più ingiusta. Ma una consapevolezza rimaneva a pesarle sul capo come una spada di Damocle: qualcuno aveva voluto farle del male, poco importava se non ci era riuscito.
Presa dal turbamento in cui la sorte di Speranza l'aveva gettata, non si era minimamente data pena di cercare di capire chi fosse questo qualcuno e quali fossero le sue ragioni – se di ragioni si poteva parlare. Adesso che Erik l'aveva costretta a cercare la verità che la sua mente già conosceva, Lucia si sentiva ancora più spiazzata. Perché mai lui era giunto a quella conclusione con tanta facilità? Cos'è che sapeva e che lei non comprendeva?
L'odio. La risposta prese forma nella mente di Lucia senza ulteriori sforzi. Erik conosceva l'odio che muoveva certi gesti, per questo aveva capito subito come stavano le cose.
«Io non conosco l'odio, sapete...» mormorò lei a fior di labbra. Ed era vero, aveva conosciuto molte cose tremende, ma l'odio non era una di queste. Non aveva odiato Graziana nemmeno quella sera, quando aveva visto lei e Andrè sorridere oltre il vetro...
A quelle parole Erik sembrò riscuotersi, le lasciò andare le braccia e fece un passo indietro, con uno scatto, come se all'improvviso la ragazza fosse diventata incandescente.
Entrambi sentirono i passi che si avvicinavano lungo il corridoio e si voltarono per trovarsi davanti la giovane Fede che avanzava cauta, reggendo in mano un bacile pieno di acqua.
Povera, piccola Fede, il suo cuore non era fatto per sopportare cose del genere.
La ragazzetta sembrava un uccellino caduto dal nido quella sera e Lucia si accorse di quanto le fosse impossibile riuscire a guardare in direzione di Erik, che adesso se ne stava con le spalle appoggiate al muro sul lato opposto del corridoio.
«Signora Lucia» mormorò Fede. «Andate a riposarvi, ci sto io qua. Voi avete fatto già tanto».
Lucia le sorrise, ma non era vero, non aveva fatto niente perché non c'era niente da fare. Si limitò ad annuire senza aggiungere altro e le aprì la porta per lasciarla entrare nella camera.
Fede fu inghiottita dalla penombra silenziosa della stanza. Lucia restò a fissare per qualche secondo la porta chiusa, chiedendosi come sarebbe stato se i responsabili di quello scempio non avessero sbagliato persona, domandandosi se Erik l'avrebbe voluta ancora con il volto sfregiato.
Che domanda sciocca da farsi...
Erano di nuovo soli nel corridoio, con la luce giallastra delle lampade ad olio che sbiadiva le ombre.
Lucia fece per voltarsi.
«Forse ora è meglio che andiate, signore» disse, scoprendosi del tutto incapace di guardarlo in faccia. «Siete stato gentile a preoccuparvi così tanto».
«Non siate sciocca». La voce dell'uomo era priva di qualsiasi emozione e forse proprio per questo suonava così risoluta e imperiosa.
«Non è saggio immischiarvi in questa faccenda» gli disse con una punta di freddezza. «Siete a tutti gli effetti il direttore del San Carlo»
«Se anche la cosa fosse di qualche rilevanza, è un mio problema, non vostro».
Lucia sentì un dolore sordo propagarsi dalla sua mente al suo cuore, qualcosa di gelido e spinoso. Sapeva che un giorno sarebbe successo, sapeva che sarebbe venuto il momento in cui Erik se ne sarebbe dovuto andare o per sua scelta o perché lo avrebbe deciso lei, per proteggersi da quegli strani sentimenti che lui le suscitava. Aveva imparato che per una donna nella sua posizione era sciocco legarsi a un uomo, provare qualcosa per una persona mutevole e inafferrabile come Erik era a dir poco folle.
La donna fece appello a tutto il suo coraggio e si voltò verso il suo interlocutore. Non sarebbe stata lei a mandarlo via, se ne sarebbe andato lui, per sua scelta, perché lei adesso stava per fare qualcosa di cui non aveva diritto, stava per porgli un ultimatum a cui uno come Erik non si sarebbe mai piegato.
«Dovrei insistere che ve ne andiate, ma non posso costringervi» asserì Lucia, cercando di apparire risoluta mentre puntava i suoi occhi in quelli dell'uomo che adesso avevano un'espressione imperscrutabile. «Tuttavia, se vi sta così illogicamente a cuore la faccenda, mi vedo costretta a domandarvi la verità, quello che mi avete sempre, a buon diritto, celato».
Lucia non sapeva davvero quanto la richiesta fosse legittima, voleva solo irritarlo e fare in modo che se andasse.
«La verità?» mormorò Erik. «Potrei dirvi che se la scopriste, potreste essere voi stessa ad allontanarmi»
«Allora non correte il rischio che una puttana vi mandi via. Uscite da qui per vostra scelta e dimenticate quanto è successo»
«Così brutale, Lucia?».
Erik mormorò quelle parole al suo orecchio, era alle sue spalle e lei non lo aveva sentito avvicinarsi. Sentì uno strano brivido percorrerle la schiena.
«D'accordo» aggiunse Erik, prendendola per il polso e trascinandola giù, lungo le scale fino al pianterreno. Aprì la porta della camera di Lucia e quando furono dentro se la richiuse alle spalle con una spinta secca. Solo allora lei riuscì a ritrarre il braccio dalla sua presa.
Lucia lo guardò aggrottando le sopracciglia, ma non ebbe tempo di dire nulla perché lui cominciò a parlare.
«Il vostro amico francese, l'uomo che avete amato» esordì con la voce incrinata da uno strano nervosismo, «di certo avrà frequentato l'Opera Populaire. Ebbene, vi ha mai parlato di una strana storia, del fantasma che infestava il noto teatro di Parigi?».
Lucia non capiva, ma si rammentò del fatto che una volta Andrè aveva menzionato vagamente una cosa del genere.
«La leggenda del Fantasma dell'Opera» mormorò titubante.
«Ah, non era una leggenda, non lo era affatto, ma fino a qualche anno fa era plausibile pensare che lo fosse. Il Fantasma dell'Opera è esistito».
Lucia sentì il cuore mancare un battito.
«Voi...». Certo. Ora capiva perché Erik conosceva così bene l'Opera Populaire di Parigi e ricordava con straordinaria precisione i particolari di tutti gli spettacoli degli ultimi venti anni, era un arco di tempo enorme per così tante cose da ricordare, ma lei aveva sempre pensato che fosse solo una persona con un'ottima memoria e un genio con la mania per i dettagli.
«Sì, io, signora» confermò Erik con un'espressione di di disprezzo, come se trovasse profondamente disgustoso quel ricordo. «Ho vissuto in quel teatro fin da quando ero bambino, ogni singola pietra di quel posto mi apparteneva come se fosse un dito della mia mano. Conoscevo passaggi segreti per muovermi indisturbato in ogni angolo dell'Opera, e laddove non ve ne erano fui io stesso a costruirne. Per tanto tempo credetti che avrei potuto vivere d'arte e di buio, senza rimpianti. Finché restai di questo avviso, il Fantasma era quasi del tutto innocuo, capitavano piccoli incidenti a cantanti o musicisti particolarmente incapaci quando volevo sottolineare la loro inettitudine e fu così che nacque la leggenda, ma per il resto non si era mai verificato nulla di drammatico».
Lucia si lasciò cadere seduta sul bordo del letto. La storia che le stava raccontando Erik aveva dell'incredibile ma fino a quel momento le era sembrata solo l'avventura straordinaria di un uomo vessato da un tremendo castigo, quello che si celava sotto la maschera. Adesso non era più sicura di voler conoscere il continuo, ma aveva chiesto la verità e lui gliela stava dicendo.
«Non si era mai verificato nulla di drammatico, avete detto. Fino a che?» domandò. Pronunciare quelle parole le diede la sensazione di essersi appena strappata il cuore dal petto.
«Fino a che il Fantasma non comprese che l'arte e il buio non gli bastavano più» rispose Erik, sembrava che anche lui stesse facendo fatica ma si sforzava di sostenere il suo sguardo per quanto gli occhi smarriti e l'espressione sconvolta di Lucia dovevano pesare come una condanna. «Come vi ho detto, ci fu una donna, una fanciulla anzi... pronunciare il suo nome mi è intollerabile, ma il Fantasma se ne innamorò perdutamente, e ella fu la sua fine e la mia»
«Cosa intendete dire?»
«Che gli uomini forse possono sopravvivere all'amore, i fantasmi no. Il dolore di un fantasma genera morte e distruzione. Lui uccise pur di averla e distrusse quel teatro; gli parvero sacrifici accettabili, un olocausto che gli era dovuto»
«E... e poi... che n'è stato del Fantasma?»
«La fanciulla lo uccise, sapete. Lo uccise quando lo baciò, lo annegò con le sue lacrime quando si offrì di passare la vita con lui se il Fantasma avesse risparmiato il giovane di cui lei era innamorata e che era tenuto come ostaggio. Dopo quel bacio, i due giovani amanti furono liberi, perché il mostro che aveva tentato di sopraffarli era morto e l'uomo rimasto in quel guscio vuoto di sofferenza e orrore non era capace di portare fino in fondo quella scelleratezza. L'amore dei fantasmi è malato e distorto, quello dell'uomo era un amore comune, capace di accettare sconfitte e sacrifici. Il Fantasma è morto, ma il sangue e il fuoco di quella notte sono ricaduti sulle mie mani e a volte mi è insopportabile il pensiero che anche io non sia morto con lui. Questa è la verità che volevate, Lucia».
A giovane donna sentì l'impulso di alzarsi, di muoversi, di provare a se stessa che le parole di Erik non l'avevano tramutata in pietra. Si alzò e camminò attorno a letto, con il capo chino. Sentì le gambe cederle dopo qualche secondo e si appoggiò alla spalliera di legno prendendo grandi respiri.
Era sempre stata certa che ci fosse qualcosa di molto brutto e doloroso nel passato di quell'uomo, ma non immaginava fino a che punto, non poteva credere che un'anima così geniale, una persona dotata di così tanta smarrita umanità, fosse nata dalle ceneri di un mostro. Non poteva crederlo, non era in grado di accettarlo.
Mio Dio, no, ti prego, ti prego...
«Lucia?».
Dovevano essere passati dei lunghi minuti da quando Erik aveva smesso di parlare, probabilmente lui l'aveva osservata in silenzio muoversi febbrile per la stanza per lasciarle il tempo di assimilare quella verità tanto desiderata che adesso avrebbe voluto poter dimenticare.
La giovane donna si voltò verso di lui,
«Andatevene» gli disse, gelida e perentoria, come nemmeno credeva capace di essere.
Lui non provò a muovere alcuna protesta, non indugiò nemmeno un secondo. Si voltò e lasciò la stanza senza fare nemmeno rumore quando si richiuse la porta alle spalle.


*******

~ Parigi, 18 maggio 1892 ~

Louis chiuse il quaderno e lo lasciò cadere in mezzo all'erba.
Se n'era andato in un angolo del prato e si era seduto a leggere ai piedi di un grosso pioppo. Era una tiepida giornata di sole, lui era ancora ospite nella tenuta dei De Chagny. Aveva detto di voler togliere il disturbo quando Christine era stata allettata, per non creare un impiccio alla famiglia, ma il visconte aveva insistito affinché rimanesse, dicendo che sua moglie sarebbe stata molto dispiaciuta se non lo avesse trovato lì una volta che si fosse ripresa. Louis aveva la sensazione che non fosse solo l'obbligo dell'ospitalità a parlare, a loro faceva davvero piacere che lui restasse lì, ma da quando era accaduto quell'incidente durante la festa di Gustave lui aveva cominciato a sentirsi a disagio in quella casa. La sensazione di avere qualcosa a che fare con il malessere che aveva colto madame De Chagny aleggiava ancora prepotente nella sua testa. Era un pensiero del tutto illogico, eppure il raziocinio non riusciva a scacciarlo. Naturalmente, aveva preferito non parlarne con il suo amico Gustave.
Di buono c'era che in quegli ultimi due giorni, quando non era in compagnia dei suoi amabili ospiti, Louis aveva ricominciato a leggere il diario di suo padre. Era stata una specie di reazione istintiva alla confusione provocata dagli ultimi avvenimenti: pensava che concentrarsi sulla lettura delle memorie di Erik lo avrebbe aiutato a distrarsi dai nuovi malumori che gli annebbiavano la mente.
Per certi versi, aveva avuto ragione.
Erik non aveva scritto quel diario preoccupandosi della qualità narrativa di ciò che raccontava. Le lunghe pagine di cupe riflessioni personali spesso erano pesanti e ripetitive, ma i fatti che si erano avvicendati in quelle poche settimane di vent'anni prima avevano un che di avvincente e la storia adesso era giunta a un punto di svolta davvero singolare.
Louis aveva seguito quasi con divertimento gli sviluppi della realizzazione di quella serata di musica popolare al San Carlo, aveva letto quelle pagine con la curiosità con cui da bambino leggeva i feuilletton sul giornale, insieme a sua madre. Era ansioso di conoscere la reazione delle persone coinvolte nella storia e tutto il resto. Era una bella pagina quella in cui Erik raccontava dell'abbraccio di Luisa, della soddisfazione provata per la riuscita dello spettacolo, erano pensieri quasi luminosi, per la prima volta aperti alla speranza. E poi, come in ogni romanzo che si rispetti, proprio quando le cose sembravano sul punto di aggiustarsi, era avvenuto il disastro.
Louis aveva appena letto di quello che suo padre aveva scoperto la sera dopo lo spettacolo, recandosi all'Araba Fenice: la ragazza aggredita e sfigurata perché scambiata per la persona sbagliata, i sospetti che cadevano irrimediabilmente su Graziana Rovesti come mandataria degli aggressori, la rabbia di Erik nell'apprendere l'accaduto, il suo confronto con Lucia e il fatto che lei lo avesse scacciato.
Era stato un brutto colpo di scena, non solo per la drammaticità dei fatti in sé, ma anche perché riportava a galla vecchie ferite, sentimenti che il cuore di quell'uomo aveva appena cominciato a tentare di mettere da parte.
Louis aveva chiuso il quaderno, incapace di continuare la lettura. Era più che mai curioso di conoscere l'evolversi dei fatti, ma ne era anche spaventato. Non voleva leggere di altro sangue, di altra rabbia, di altra disperazione, di altre follie.
Il suo pensiero tornò a sua madre. Il ragazzo non poteva fare a meno di pensare che c'era qualcosa che non tornava nel comportamento di quella donna, nel fatto che lo avesse lasciato da solo ad affrontare quella storia. Lei lo conosceva, sapeva quali effetti avrebbe avuto su di lui la lettura di quelle pagine, eppure lo aveva mandato a Parigi perché lui le leggesse.
Per un attimo Louis fu tentato di scriverle una lunga lettera in cui le esprimeva tutte le sue perplessità riguardo al suo atteggiamento, ma gli sembrò quasi subito una cosa sciocca: quello era un argomento che voleva affrontare con lei faccia a faccia. Per quanto impaziente fosse di ricevere delle risposte, si disse che era meglio aspettare.
Si accorse che qualcuno gli si era avvicinato solo quando vide l'ombra di un'altra persona mettersi tra lui e la luce del sole.  
«Ti ubriacherai di nuovo?» domandò la voce pacata di Gustave.
«Eh?».
Il ragazzo biondo indicò con lo sguardo il diario abbandonato in mezzo all'erba.
«Non credo» disse Louis con un sorriso privo di allegria. «Il peggio è passato, almeno spero».
«Ha avuto una vita interessante tuo padre, almeno?»
«Oh, fin troppo. Ancora non mi spiego perché mi siano state taciute tutte queste cose per tutto questo tempo. Avrei voluto che me ne parlasse lui, quando era vivo».
Gustave si strinse nelle spalle.
«Forse lo avrebbe fatto. Visto che non ha potuto farlo di persona, tua madre ha voluto che fossero le sue memorie a parlare per lui, è una cosa romantica in un certo senso» dichiarò sogghignando.
«Hai ragione, sì. Mi manca molto, nonostante tutto...».
Nonostante tutto, Erik era stato un buon padre...
«Io credo che mia madre e mio padre non mi diranno mai la verità» aggiunse Gustave all'improvviso. «Su tutto quello che è successo prima, intendo. Ci sono dei ricordi che non sono stati scritti da nessuna parte e che io non conoscerò mai».
Louis guardò il suo amico, la luce del sole faceva brillare i suoi riccioli da putto e rendeva la sua pelle quasi diafana.
«Forse è meglio così» gli disse piano. «Certi ricordi possono fare molto male»
«Tu avresti preferito che non ti venisse dato quel diario?» replicò Gustave, con una vaga durezza nello sguardo.
Bella domanda! Ancora una volta il suo biondo amico aveva saputo andare più a fondo di quanto Louis si fosse aspettato, mettendolo spalle a muro, obbligando a cercare una risposta da dargli e da dare a se stesso.
«No. Alla fine è giusto che mia madre lo abbia fatto» concluse con un sospiro.
«Bene» Gustave annuì con aria grave, poi di colpo la sua espressione cambiò. «A proposito di cose romantiche, è arrivato questo per te» aggiunse prendendo un biglietto che aveva messo nella tasca.
Louis dispiegò il foglio di carta e lesse rapidamente.
«È di Magdeleine. Dovremo fare un salto in città stasera, prima che lei si presenti qui armata, a reclamare il mio cuore... o qualche altra parte del mio corpo» disse strabuzzando gli occhi, poi lui e Gustave si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere.

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Here, I have a note...

Piccerè (abbreviazione di di piccirella) = piccola, bambina, in senso vezzeggiativo. Anche nenna (abbreviazzione di nennella) può intendersi allo stesso modo.

Ok, Lucia non ha avuto una reazione molto... ehm, “sportiva” al racconto di Erik, ma volevo che sembrasse umana e credo sia umano reagire male alla notizia che il tizio che hai di fronte, per quanto ti possa stare a cuore, è stato un pazzo assassino con discutibilissimi comportamenti sociali.

I feuilletton erano le storie a puntate che, fino al secolo scorso, venivano pubblicate sui giornali. Molti romanzi famosi dell'800 sono nati come feuilletton (in Italia le storie di Salgari, tanto per dire, ma per citare titoli più famosi direi Dracula di Bram Stoker, o molti dei romanzi di Dumas).

Ci leggiamo mercoledì prossimo con il nuovo capitolo. 

I remain, gentlemen, your obidient servant.


   
 
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