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Autore: Neko no Yume    01/08/2012    3 recensioni
Alec credeva che la vita fosse piena di gatti in scatola.
Per carità, non era un appassionato di Simmenthal e suoi derivati più o meno legali, semplicemente non riusciva a ricordare le parole.
Christian credeva di avere un problema col suo vicino di casa.
Forse non era una faccenda filosofica e intangibile, quindi automaticamente affascinante per chiunque non fosse stato dotato del suo spietato senso pratico, quanto un gatto chiuso tra sei facce di cartone, ma era comunque impellente.
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alec credeva che la vita fosse piena di gatti in scatola.
Per carità, non era un appassionato di Simmenthal e suoi derivati più o meno legali, semplicemente non riusciva a ricordare le parole.
Specialmente quelle straniere.
Specialmente quelle straniere pronunciate dal suo professore di fisica all’ultima ora quando fuori dalla finestra c’erano così tanti passeri da osservare.
A dir la verità Alec avrebbe osservato con lo stesso interesse scientifico anche il pulviscolo atmosferico, se solo fosse bastato a zittire le chiacchiere quantiche dell’insegnate, ma finché c’erano passeri la cosa era di secondaria importanza.
Comunque doveva ammettere che la lezione di quel giorno gli era rimasta impressa, nonostante il pennuto tutto.
Si parlava di un esperimento, per fortuna puramente teorico, che consisteva nel mettere un gatto in una scatola chiusa assieme a una piccola quantità di materiale radioattivo e un martelletto che lo collegasse a una boccetta di cianuro.
Dopo un certo periodo di tempo c’era la possibilità che un atomo del materiale radioattivo fosse decaduto, azionando il martelletto e quindi rompendo la boccetta di cianuro determinando la morte del gatto, come c’era la possibilità che nulla di tutto questo fosse accaduto e che il gatto fosse solo un tantino nervosetto.
Lo scopo di una simile elucubrazione ai danni di un povero e innocente felino era semplicemente quello di dimostrare come in sostanza i quanti e tutta la roba cosmica ma al tempo stesso microscopica che occupava la maggior parte dei sogni erotici degli scienziati fluttuassero in uno stato di indeterminazione finché a qualcuno non veniva la brillante idea di dar loro fastidio.
Alec era fermamente convinto che tutto questo valesse anche a livello pratico, nonostante di solito stesse bene attento a tenere la fisica il più possibile lontana dalla sua vita privata.
Secondo lui la gente si imbatteva in situazioni del genere di continuo e le raggruppava sotto il comune denominatore di “suspence”.
Incertezza, rullo di tamburi, muscoli che si tendono sino allo spasmo, colli che si allungano e sensi che si dilatano in attesa di una risposta, non importa quale.
Il gatto può essere vivo o morto, ma l’unica cosa che importa è scoperchiare la scatola.
Anche se a volte, doveva ammettere il ragazzo, l’attesa aveva un suo fascino innegabile.
L’attimo in cui tutto può diventare il contrario di tutto, in cui nulla è deciso e i quanti ti danzano attorno come ballerine invisibili in attesa che si alzi il sipario.
Alec credeva che fosse bello.

Christian credeva di avere un problema col suo vicino di casa.
Forse non era una faccenda filosofica e intangibile, quindi automaticamente affascinante per chiunque non fosse stato dotato del suo spietato senso pratico, quanto un gatto chiuso tra sei facce di cartone, ma era comunque impellente.
Il fatto era che per un ragazzo ventidue anni, omosessuale e inesorabilmente single ormai da un anno era piuttosto difficile incrociare più o meno di continuo un ragazzino probabilmente sotto i vent’anni munito di due occhioni grigi sempre all’erta e un fisico così magrolino che avevi quasi paura di abbracciarlo.
Come se non bastasse il passo quasi dondolante con cui le gambe di Alec scendevano le scale del condominio a farlo impazzire, entrambi abitavano da soli, quindi per il più giovane era stato naturale farsi adottare come fratellino in cerca di protezione.
Questo aumentava vertiginosamente le quantiche possibilità di Christian di incontrarlo e di rigirarsi nel letto la notte in preda a pensieri poco casti e incubi infestati da felini a molla che balzavano fuori da scatolette quadrate, pronti a farlo a fettine.
Perché il suo giovane dirimpettaio aveva una parlantina da far invidia a Cicerone nei suoi anni migliori e uno degli argomenti più gettonati nelle loro conversazioni era la sua rivisitazione del paradosso del gatto di Schrödinger , seguita da un dibattito sulla questione “È meglio l’attesa o il piacere della scoperta?”.
In quei momenti tutto ciò che lui avrebbe voluto rispondere era che, in tutta sincerità e con tutto il dovuto rispetto per gli onorevoli mici imprigionati nel loro stato indeterminato, erano altri i ragionamenti che lo interessavano.
Come per esempio di cosa sapessero le labbra di Alec o quanto fosse piacevole affondare il viso tra la sua spalla e il collo.
Poi l’altro passava a parlare di macedonie a base di banane e panna e Christian si dileguava in bagno con la prima scusa che riusciva a trovare.
Insomma, passare le giornate a un soffio dall’oggetto delle sue fantasie disperate senza riuscire a provarci con lui stava iniziando a diventare piuttosto snervante.

Alec adorava il suo vicino.
Ricordava che il giorno in cui era arrivato nella nuova città per studiare si sentiva terribilmente smarrito.
Fissava i grattacieli come se da un momento all’altro avessero potuto crollargli addosso, seppellirlo sotto un tumulo di acciaio scintillante, schegge di vetro e goccioloni di pioggia.
Pioveva quando era arrivato.
Diluviava.
E davanti a lui c’era un ragazzo allampanato, carnagione pallida come un lenzuolo e capelli neri appiccicati sulla fronte, che stava litigando con un ombrello.
Alla fine era riuscito ad aprirlo e aveva alzato lo guardo verso di lui, sgranando gli occhi come un bambino.
-Questo è il 125 di Ponder Street?-, aveva chiesto il nuovo arrivato con voce tremante, torcendosi l’impermeabile tra le dita.
L’altro aveva annuito e gli aveva sorriso, per poi oltrepassarlo.
-Io abito al quarto piano, l’unico con solo due appartamenti-, gli aveva sussurrato di spalle, le parole che già si perdevano nel traffico e gli scrosci d’acqua.
Alec si era recato dalla portinaia col cuore in gola.
Quello era uno dei soliti esempi di gatti in scatola, si sarebbe ritrovato nello stesso pianerottolo di un ragazzo così cordiale o l’avrebbero lasciato ad ammuffire in qualche bugigattolo nei piani più affollati?
Suo padre gli aveva ripetuto più volte il numero dell’appartamento, ma non ricordava il piano, lì per lì non gli era sembrato particolarmente importante.
Un po’ come il nome di quello straniero del paradosso del gatto.
La portinaia gli aveva sorriso con calore e gli aveva consegnato le chiavi di casa, mentre il suo respiro si inceppava in attesa della cruciale ubicazione delle sue stanze.
-Quarto piano, l’ascensore funziona a singhiozzo-.
Lui aveva soffocato a stento un gridolino di trionfo decisamente fuori luogo e si era limitato a tossichiare con aria da uomo d’affari, lanciando un’occhiata allarmata al vano dell’ascensore.
-In che senso “a singhiozzo”, scusi?-, aveva cercato di suonare intrepido e padrone della situazione –Sobbalza?-.
La donna aveva sorriso sardonica tra le rughe che le solcavano ogni lembo di pelle in vista e aveva scosso piano la testa.
-Nel senso che si blocca quando gli pare e riparte quando gli pare-.
Alec aveva preso le scale senza quasi salutare.
La sera stessa aveva bussato al suo nuovo dirimpettaio armato del suo sorriso più intrepido e l’altro l’aveva accolto a braccia aperte, passando la serata a spiegargli gli orari della lavanderia, l’ubicazione e il funzionamento della suddetta (non era una cosa facile da capire per chi trasaliva solo al sentire la parola “centrifuga”) e i vicini da evitare.
-Tu sei pericoloso?-, aveva ridacchiato Alec, lanciandogli un’occhiata maliziosa.
-Solo per le signore con voglia di litigare e a portata di insulti-, aveva risposto a tono Christian, dopo un attimo di esitazione.

La questione più grave era che secondo tutta una serie di regole più o meno espresse che il genere umano aveva accumulato e inveterato da millenni, quando parli con qualcuno sarebbe carino guardarlo negli occhi, almeno ogni tanto.
Ma guardare negli occhi un anonimo qualcuno e guardare negli occhi Alec erano due cose completamente diverse.
Non avrebbe mai capito come faceva, ma era in grado di scombussolarlo da capo a piedi con un solo sguardo, gli faceva perdere l’orientamento nel suo stesso appartamento.
Probabilmente era quel grigio fumo che con la luce si rischiarava come il mare in tempesta quando il sole riusciva a filtrare dai banchi di nuvole cineree.
O forse il modo in cui brillavano quando rideva, sempre troppo vicino a lui, diventando quasi azzurri.
Christian avrebbe voluto farlo arrossire solo per vedere che colore avrebbero assunto, come sarebbero risaltati ancora di più sul rossore del suo viso.
-Hey, Chris! Che hai?-, lo richiamò alla realtà la voce appena seccata del dirimpettaio.
-…Uh?-, fu il suo a dir poco arguto commento, con tanto di occhi sgranati.
Alec sbuffò con finta irritazione, abituato a simili cadute dalle nuvole.
-Stavo dicendo che, dato che in questo condominio si possono tenere animali, sarebbe carino prendere un cucciolo-, spiegò, l’espressione già addolcita dal pensiero di palle di pelo da coccolare.
Christian fece del suo meglio per controllare l’impulso sempre crescente di saltargli addosso seduta stante e si avvinghiò a un bracciolo del divano con entrambe le mani fino a sbiancarsi le nocche già quasi esangui.
-Perché no-, biascicò con scarsa convinzione, per poi simulare uno sbadiglio soffocato e accampare una scusa sul mattino dopo, dileguandosi prima che fosse troppo tardi da quella casa.
Probabilmente i quanti, oltre a essere indeterminati, erano anche parecchio sadici.
O vendicativi, visto il suo odio ormai radicato per Schrödinger.
Fatto sta che il giorno dopo l’inquilino del piano di sopra decise che era la mattinata giusta per esercitarsi con la cornamusa (Christian e Alec avevano una mezza idea che in realtà fosse un clacson per tir sfondato a cui era stata applicata l’intera sezione degli ottoni della Filarmonica di Vienna) e lo costrinse ad alzarsi alle sei, vestirsi in tutta fretta e cercare rifugio fuori dal palazzo.
Era ormai lontano di almeno un isolato e aveva raggiunto la distanza di sicurezza per le sue orecchie.
Si chiese distrattamente se il suo vicino stesse ancora dormendo placidamente e arrivò a due possibili conclusioni: o dormiva coi tappi di sughero infilati sin nel cervello, oppure nella foga di mettersi in salvo era scivolato su una delle sue pantofole di flanella e si era rotto qualche osso, forse procurandosi addirittura una commozione cerebrale.
Rabbrividì e scosse la testa, deciso a scacciare pensieri così catastrofici e optando per l’opzione tappi di sughero, alzando lo sguardo verso l’alto.
Dietro un paio di enormi palazzi in cemento armato stava albeggiando e il cielo era un’unica distesa uniforme di grigio perlaceo, a tratti screziato di bianco, giallo e azzurro.
Si rese conto di essere arrossito e scosse la testa con più forza, stava degenerando.
In quel momento la solita calma irreale e assolutamente provvisoria che regnava sulla città appena sveglia venne intaccata da quello che sembrava il pianto di un bambino, solo molto più acuto e raschiante.
Christian abbassò gli occhi e ciò che vide era contrario a tutti discorsi fatti da lui e Alec, il signor Schrödinger e qualsiasi altro studioso dei quanti.
All’angolo del marciapiede c’era una scatola di cartone aperta, priva di strani meccanismi assassini a base di cianuro e sostanze radioattive e perciò con un gattino perfettamente vivo al suo interno.
Il micio tossicchiò, o almeno fece qualcosa che ricordava un colpo di tosse e che lo fece sobbalzare, per poi guardarlo negli occhi con le pupille dilatate e tornare a miagolare a polmoni spiegati.
Probabilmente era la pietà che aveva sviluppato verso i felini dopo che gli scienziati si erano tanto divertiti a giocare con le loro teoriche vite, o forse era il tono trasognato con cui il suo dirimpettaio aveva decretato di volere un cucciolo appena la sera prima, comunque qualcosa scattò nella mente del ragazzo e lo spinse a raccogliere la scatola e avviarsi nuovamente verso casa.
Per fortuna l’esercitazione dell’inquilino di sopra era giunta al termine, magari un misterioso benefattore gli aveva sparato dal palazzo vicino.
Christian si chiese se fosse stato più carino lasciare la scatola chiusa davanti alla porta dell’altro e aspettare che la trovasse, oppure consegnargliela di persona.
Dopo un’attenta analisi di gatti finiti a rotolare per le scale o gettati nella spazzatura da portinaie sin troppo solerti, decise che avrebbe aspettato che si facesse un’ora decente e avrebbe consegnato direttamente la scatola ad Alec.
Del resto era curioso di vedere la sua faccia una volta aperta, sarebbe stata impagabile.
Aspettò fino alle nove, ingannando il tempo cercando di spazzolare il pelo irsuto e tigrato del cucciolo evitando i suoi artigli e pulendogli il musetto e le orecchie con un fazzoletto bagnato.
Alla fine si presentò alla porta accanto con una scatola chiusa, un gatto indignato e, sperava, silenzioso e le mani ricoperte di segni rossi.
Suonò il campanello e cercò di scrollarsi di dosso il sonno che ancora gli pesava sulle spalle e sugli occhi, abbozzando un sorriso che in tempi migliori sarebbe stato smagliante.
Sentì il suono strascicato delle ciabatte del ragazzo che si trascinavano sul pavimento (almeno non era rimasto infortunato in un tentativo di fuga), seguito dal cigolio dello spioncino che si sollevava per scrutare il corridoio e infine il rumore della porta che girava sui cardini.
Davanti a lui apparve un Alec scarmigliato, con addosso una maglietta extralarge di qualche gruppo musicale, un paio di pantaloncini di felpa che gli cascavano da un lato e un’espressione ben poco cordiale sul viso.
Christian cercò di non farsi venire un’aritmia.
-Tu-, esordì il vicino con voce ancora impastata dal sonno, riversando in quel misero pronome tutta l’irritazione di cui era capace –Oggi non avevi qualcosa da fare?-.
-Ho finito prima del previsto e ti ho portato una cosa-, riuscì a sillabare lui dopo aver scacciato dalla mente varie vocine tutte dal tenore “Ma che voce adorabile che ha appena sveglio” e altrettante che rispondevano “Non capite niente, è tutto adorabile appena sveglio!”.
Il vicino parve notare per la prima volta la scatola e la scrutò con sguardo critico, probabilmente cercando di farle una radiografia approfondita.
Alla fine ci rinunciò e fissò Chris dritto negli occhi.

A volte la sua scarsa capacità di comprendere la situazione spaventava Alec, ma una parte di lui si augurava segretamente che potesse risultare una caratteristica intrigante agli occhi degli altri.
Come in quel momento, quando, invece della scatola, notò i graffi di cui erano disseminate le mani dell’amico.
-Che hai fatto alle mani?-, chiese quindi, questa volta in tono leggermente più dolce.
L’altro lo osservò con espressione stralunata per un attimo, poi parve riprendersi e allungò di più la scatola nella sua direzione.
-Non è niente, tu prendi questa-.
Il giovane gli lanciò un’ultima occhiata sospettosa, ma alla fine fece spallucce e lo lasciò entrare in casa, trotterellando verso il tavolo e posandovi la scatola sopra.
Arricciò le labbra e tornò a osservarla con attenzione, nel tentativo di indovinare cosa contenesse.
-Un gatto in scatola in piena regola-, mormorò affascinato, passandosi una mano tra le ciocche ribelli.
Ebbe l’impressione che Christian stesse ridacchiando, ma aveva la faccia affondata in un cuscino, quindi era difficile dirlo.
Del resto un prisma di cartone a base quadrata era decisamente più interessante, specialmente se dal detto prima stavano iniziando a provenire strani rumori.
Alec raggiunse il limite di sopportazione dell’attesa e sollevò il coperchio con entrambe le mani, per poi gettarlo oltre il divano e incontrare lo sguardo seccato ma al tempo stesso terribilmente tenero di un gattino.
Un suono soffocato a metà fra un gridolino e un rantolo gli sfuggì dalla gola mentre si portava entrambe le mani al viso, adesso rivolto verso il dirimpettaio.
Quest’ultimo stava disperatamente cercando di darsi un contegno e frenare la ridarella che gli squassava i fianchi, con l’unico risultato di imporporarsi le guance fino alla punta delle orecchie dallo sforzo.
In realtà Chris stava cercando di contenere anche una tempesta ormonale, ma questo dettaglio rientra in tutti i quantici dettagli che al ragazzo sfuggivano di continuo e si accumulavano dimenticati da qualche parte nell’Universo.
-Oddio, è la palla di pelo più meravigliosa che abbia mai visto-, sussurrò estasiato, prendendolo in braccio incurante delle sue proteste feline –Grazie!-.
Sempre incurante delle proteste feline, adesso supportate da graffi e morsi, gettò il braccio libero attorno al collo del vicino e gli schioccò un entusiastico bacio sulla guancia.
Il rossore sul suo viso aumentò ulteriormente, ma Alec non sembrò farci caso.
-Questo è decisamente il gatto in scatola più riuscito di tutta la mia vita-, decretò ancora abbracciato a lui –E anche l’attesa non è stata male, come volevasi dimostrare-.
Improvvisamente Christian sembrò riscuotersi dalla sua catalessi e ghignò compiaciuto.
-Sai, credo di aver trovato l’attesa migliore-, sentenziò in tono sibillino, lanciandogli un’occhiata volutamente noncurante.
-Migliore della notte di Natale?-, lo incalzò lui, mentre si stringeva al petto il gattino –Migliore di questa?-.
L’altro si limitò ad annuire e lo lasciò a cuocere nella curiosità per qualche istante, poi poggiò la fronte contro la sua.
Gli sfiorò la punta del naso e Alec si sentì avvolgere i fianchi dalle sue braccia, ritrovandosi praticamente sdraiato su di lui, a un soffio dalle sue labbra.
-…Chris?-, farfugliò confuso.
-Credo che il momento che precede un bacio sia il in assoluto il migliore-, spiegò il ragazzo, socchiudendo le palpebre nell’avvertire il lieve solletico delle ciglia dell’altro sulle guance –Ci sono un’infinità di cose che potrebbero andare storte, ma al tempo stesso già si pregusta l’istante successivo-.
Effettivamente il più giovane pensò che avrebbe potuto scostarsi, magari tirargli un ceffone e cacciarlo di casa, o più probabilmente morire d’infarto lì per lì, dato che riusciva a sentire il martellare furioso del proprio cuore sin dentro la testa, ma rimase immobile, ipnotizzato da quel contatto.
Forse il fascino più grande dell’attesa era la possibilità che tutto si risolvesse nel modo più insolito, riuscire a sporgersi in punta di piedi da un grattacielo, guardare giù e poi prendere il volo, sfidando ogni legge fisica esistente.
O forse, in fondo, era solo la speranza di trovare qualcosa di bello ad aspettarti, magari un gatto ancora vivo e pronto a farti le fusa.
Magari le labbra di Chris, che adesso erano premute sulle sue con una dolcezza di cui non le avrebbe mai credute capaci.
Alec sorrise frastornato sotto quel bacio e chiuse gli occhi, strusciandosi appena contro di lui.
Un morso particolarmente forte del gatto ai danni del suo pollice lo riportò bruscamente alla realtà e il ragazzo si staccò con una mossa impacciata, lasciando che il microbo felino zampettasse sul petto dell’altro.
-Bisogna dargli un nome-, rimuginò con voce malferma, ancora persa dietro le labbra di Christian –Schrödinger!-.
Il vicino non si sorprese neanche che fosse riuscito a ricordarsi il nome dello studioso e gli rivolse un sorrisetto che sprizzava felicità e stordimento.
-Non è un nome un po’ insolito persino per un gatto?-, azzardò.
-Ringrazia che ho cassato la prima parte-, si limitò a rispondere Alec con una risatina.
-E quale sarebbe stata?-.
-Allafacciatua-.


Yu’s corner.
Mie care gelatine blu, sssalve!
Cosa posso dire a mia discolpa per tutto questo?
Probabilmente il fatto che i quanti siano davvero vendicativi e che come ricompensa per il mio odio verso la fisica e la chimica mi abbiano infarcito di riferimenti a questo paradosso sin troppe letture.
Poi è normale che viene voglia di scriverci su qualcosa.
Eniuei, spero che questa originale vi sia piaciuta e ringrazio in anticipo chiunque abbia letto o recensirà!
Bye bye, Yu.
  
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