Quel giorno faceva tremendamente caldo, poiché l’estate incombeva
con tutto il suo furore sul paesino.
Grace Andrews sbuffò e accese il
ventilatore, posizionandolo al centro della sua stanza, in modo che lo
spostamento d’aria raggiungesse il suo letto accostato alla parete. Si stese e
si accorse di non averlo rifatto quella mattina. Certo, era stata troppo
impegnata a sfaccendare a destra e a manca, racattando
indumenti da piegare e sistemare nei cassetti.
Chiuse gli occhi e pensò a ciò che l’attendava quel pomeriggio. Era
da un bel po’ che non vedeva la sua amica Elizabeth e finalmente sarebbero
uscite insieme per raccontarsi le novità e farsi due risate.
Grace conosceva Elizabeth dai tempi delle superiori anche se le due
non erano mai state in classe insieme, poiché la sua amica era un anno più
grande di lei. Perciò le due si limitavano a percorrere insieme i pochi metri
che le separavano dalla scuola e spesso Elizabeth la aiutava quando la giornata
era troppo grigia per permetterle di camminare autonomamente per strada. La
ragazza era stata sempre comprensiva con Grace e questo fece sì che le due
legassero tantissimo fin da subito.
Ora stavano per reincontrarsi dopo che
Elizabeth era riuscita a passare brillantemente l’ultimo esame del suo secondo
anno di università e avrebbero festeggiato l’avvenimento a dovere.
Grace afferrò il cellulare e controllò che ora fosse. Siccome erano
circa le diciassette, decise di alzarsi e andare a prepararsi.
Non appena si avviò verso il bagno, sbatté la coscia sullo spigolo
del letto e imprecò dal dolore.
Poi scoppiò a ridere.
Ormai si era abituata ad essere ricoperta di lividi a causa della
sua malattia e quell’avvenimento era ormai abituale per lei.
Si fece una doccia fresca, si vestì e attese che Elizabeth passasse
da lei per uscire.
Quando il campanello suonò, Grace sobbalzò e si diresse
all’ingresso per aprire, mentre suo padre cantava a squarciagola sopra le note
di una famosissima canzone di Bob Marley.
La ragazza sorrise e aprì, trovandosi di fronte la sua amica che la
incitava a raggiungerla.
Grace, come da rituale ogni volta che non si vedevano da tempo, la
travolse e la stritolò in un abbraccio da orso che scatenò una richiesta di
pietà da parte di Elizabeth.
“Mi stai strozzando!” fece infatti, cercando di ritrarsi.
Grace rise sonoramente e le diede un colpo sul braccio. “Non
rompere, non ti va mai bene niente.”
Elizabeth la incenerì con lo sguardo e, sebbene Grace non avesse
colto visivamente quel gesto, fu certa che l’avesse compiuto.
“Muoviti” borbottò Elizabeth con tono fintamente irritato.
La padrona di casa afferrò la borsa che aveva posato sul marmo
accanto al portone e grido: “Pa’, sto uscendo!”
Intanto Bob Marley cantava ‘Jammin’ e
Grace fece lo stesso mentre chiudeva la porta, ricevendo un’altra occhiataccia
dalla sua amica, che però sorrideva.
Mentre percorrevano il vialetto che conduceva alla strada, Grace
continuava a cantare, incurante di chi potesse sentirla.
La sua amica sollevò gli occhi al cielo e sospirò, per poi
ridacchiare. “Sei esaurita, abbiamo capito.”
“Pensa per te” rispose l’altra, ridendo.
Le due rimasero in silenzio per un po’, finché non arrivarono alla
fine della via in cui risiedeva la famiglia Andrews.
“Allora, dove andiamo?” domandò Grace, per poi inciampare nel
gradino di un marciapiede. Rise e attese la risposta dell’altra ragazza.
“Al parco!” esclamò lei, sicura di sé.
Grace lo sapeva, infatti la domanda era stata più che altro
retorica.
Durante il tragitto le due scherzarono e si presero in giro a
vicenda, mentre Grace notava l’abbigliamento di Elizabeth, illuminato dal caldo
sole del pomeriggio. La ragazza indossava un paio di jeans stretti, una canotta
nera abbastanza scollata e un copri spalla azzurro.
“Sei fissata con il blu, eh? Non esci di casa senza qualcosa di
blu!” osservò Grace, dandole una manata sulla schiena.
Elizabeth si allontanò da lei e le imprecò contro, mentre lei
rideva a crepapelle.
“Sempre delicata Grace” le fece notare l’amica, cercando di
massaggiarsi la parte dolente.
“Scusa, scusa!”
Così, tra una battuta e l’altra, circa venti minuti più tardi,
raggiunsero il parco comunale e decisero di andare direttamente al chiosco a
prendere qualcosa da mangiare e da bere.
“Lizzie, cosa prendi?” chiese Grace,
appoggiandosi al bancone.
Intanto Elizabeth era intenta a snocciolare con lo sguardo i vari
tipi di gelato presenti nel cartello appeso al muro.
“Ditemi!” fece una donna grassoccia dall’interno del bar.
Grace si fece subito avanti. “Una porzione di patatine e una
bottiglietta d’acqua naturale. Lizzie?!”
L’altra si avvicinò e indicò alla barista una sorta di granita al
caffè.
“Ti chiamo quando sono pronte le patatine. Nome?”
“Grace.”
“Okay, a dopo.”
Dopo aver ritirato il resto, le due andarono a sedersi ad una
tavolo di plastica rossa poco distante dal chiosco e Elizabeth cominciava a
mangiare il ghiaccio al gusto di caffè.
Grace era impaziente di mangiare le sue patatine perché stava
morendo di fame, tuttavia le chiacchiere di Elizabeth riuscirono a distoglierla
da quel pensiero.
“Sai, un giorno ero in pullman con delle colleghe ed è salito un
ragazzo che si è seduto in un sedile vicino al nostro. Indovina cos’abbiamo
fatto?”
Grace fece spallucce. “L’avete salutato?”
“No. Abbiamo fatto commenti sconci su di lui per tutta la durata
del viaggio. E pensa che se n’è accorto, visto che sembrava a disagio” raccontò
Elizabeth, mescolando la granita ormai sciolta con la cannuccia.
“No, ma dai! Davvero?” gridò Grace, attirando l’attenzione di tutte
le persone presenti nei tavoli accanto al loro.
L’amica la ammonì storcendo la bocca e lei poté vederla
perfettamente. “Sì, ma non urlare. Poi pensa, abbiamo continuato a fare
apprezzamenti anche dopo che lui è sceso. Stavamo ridendo come delle matte.”
Grace rise sonoramente, mentre l’altra ragazza consumava il liquido
presente nel suo bicchiere.
“E com’era questo tipo?”
“Carino. Insomma, normale.”
“Normale?”
“Bel fisico, capelli scuri. Gli occhi non li ho visti” spiegò
Elizabeth, sistemandosi meglio sulla sedia.
Intanto Grace si guardò intorno cercando di capire se riusciva a
riconoscere qualcuno dei suoi compaesani, ma come al solito non ci riuscì. Notò
l’abbigliamento di alcune persone, udì le loro voci ma non fu in grado di
distinguere i lineamenti dei loro visi, seppur non ci fosse chissà quale
distanza tra lei e quella gente.
Vide tre ragazzi avviarsi al chiosco, uno dei quali spiccava per la
sua incredibile altezza rispetto agli altri due.
Poco dopo la donna del bar gridò il suo nome, facendo sì che tutti
i presenti si accorgessero di lei ed Elizabeth che si dirigevano a ritirare le
patatine.
“Ciao” le salutò un ragazzo.
Grace riconobbe in lui lo spilungone che avava
intravisto poco prima camminare a pochi metri dal suo tavolo.
Sapeva chi era.
Era Jeremy Pherson, il suo vecchio
compagno di giochi, quello che si era allontanato da lei a causa di un suo
errore.
Grace rimase interdetta e si sentì sprofondare in un mare di
imbarazzo.
“Ciao” risposero lei ed Elizabeth all’unisono.
Poi Grace si allungò per ricevere il cartone dalla barista e fuggì
letteralmente a gambe levate da quel luogo.
“Lizzie” piagnucolò con un tono che
ricordava una bambina di due anni.
L’altra fu irritata da ciò e, scocciata, le chiese: “Che c’è?”
Grace non rispose e le due si andarono a sedere su una panchina di
cemento poco distante, accanto ad un gruppo di bambini che sfrecciavano in
bicicletta e a piedi, gridando come ossessi.
“Lizzie” ripeté, utilizzando sempre lo
stesso tono.
“Piantala” tagliò corto la sua amica, irritata, mentre le rubava
una patatina.
L’altra prese a mangiare convulsamente, mentre si sentiva ribollire
dalla vergogna per essersi ritrovata Jeremy di fronte dopo tutto quel tempo.
Il ragazzo, infatti, non abitava più nel paese, ma si era
trasferito in Africa con la famiglia e tornava a trovare i suoi amici e parenti
almeno una volta all’anno.
Grace si chiese come mai nessuno le avesse detto che Jeremy era
rimpatriato, visto che in quel piccolo centro abitato le voci correvano in
fretta, troppo in fretta.
Parlò a Elizabeth della sua sensazione di disagio e del calore che
l’aveva pervasa nel vederlo così dannatamente bello, alto e diverso da come
l’aveva visto l’ultima volta. E poi la sua voce…
calda, profonda. In essa, tuttavia, la ragazza riconobbe il timbro che l’aveva
sempre caratterizzata fin dall’infanzia, seppur ormai il ragazzo avesse
vent’anni.
“Allora,” attaccò Elizabeth, “sono la dottoressa Elizabeth Carlsson e ora le farò un’analisi psicologica in base a
quello che mi ha appena raccontato a proposito di Jer…”
“Shh!” la ammonì Grace, guardandosi
intorno per cercare di capire se lui fosse nei paraggi.
“Tranquilla, non c’è. E’ seduto dall’altra parte del parco con i
suoi amici.”
Grace sospirò.
“Dicevo: sono la dottoressa Elizabeth Carlsson
e…”
“Bla, bla, bla, abbiamo capito. Parla!” la interruppe l’altra.
Elizabeth la fulminò con gli occhi, poi si atteggiò a psicologa e
assunse un’aria professionale che poco si addiceva al suo viso da bimba troppo
cresciuta.
A Grace venne da ridere.
“Secondo me ci sono due opzioni.”
“Ossia?”
“Uno: provi rimorso per il fatto di averlo trattato ingiustamente
anni fa e vorresti che le cose fossero andate diversamente.”
L’altra incrociò le gambe, sedendosi di lato sulla panchina. “Mmh… non so, forse…”
“Due: hai sempre avuto una cotta per lui e l’hai inconsciamente
repressa.”
“Cosa?” strillò Grace, sgranando gli occhi.
Elizabeth disse: “Potrebbe essere, no?”
“No!” gridò ancora l’altra, mentre si sentiva nascere sulle labbra
un sorriso idiota ed ebete che lasciava poco all’immaginazione.
“Guarda che su quel sorriso voglio il copyright, l’ho inventato io
quando credevo che ‘tu-sai-chi’ non mi piacesse” le
fece notare Elizabeth, ridacchiando.
Grace le colpì un braccio e lei gemette dal dolore.
“Te lo meriti, stronza.”
Le due ragazze continuarono a fare congettive
sul motivo della reaziono di Grace nell’aver visto
Jeremy, finché non decisero di avviarsi verso casa.
“Prima di rientrare passiamo sotto casa sua?” propose Grace,
saltellando sul marciapiede con fare demenziale.
“Cosa? Ma tu sei fuori di testa!” la apostrofò Elizabeth, mentre si
fermava per levarsi un sassolino dal sandalo.
“Ti prego!”
Il tono di Grace fece irritare ancora la sua amica, poiché era sempre
il solito da bambina stupida che lei odiava.
“Uff, e va bene. Che palle che sei”
borbottò.
Grace esultò e le due continuarono a camminare tra una battuta e
l’altra.
Una volta giunte all’inizio della via in cui i Pherson
venivano a stare durante le loro brevi rimpatriate, le due ragazze rallentarono
senza smettere di parlare.
“Il benessere si trova dove mi trovo io” vaneggiò Grace, con tono
solenne.
Stavano facendo un discorso sulle condizioni sociali e lavorative,
ma le due non riuscivano comunque ad essere del tutto serie.
Elizabeth infatti rise. “E questa cos’era, una massima di qualche
filosofo squattrinato?” fece con tono ironico, sghignazzando.
Intanto erano appena entrati nel raggio di casa Pherson,
che rimaneva direttamente sulla strada e aveva un giardino nella parte
posteriore.
“No, Lizzie, è il mio nuovo slogan di
libertà.”
Elizabeth rise e prese a stappare una bottiglietta d’acqua che
aveva comprato al parco prima che se ne andassero.
In quel momento Grace udì la profonda e calda voce di Jeremy
provenire dal passaggio che collegava il giardino alla strada.
Sobbalzò e d’istinto colpì con il dorso della mano un punto appena
sotto le costole di Elizabeth che, avendo iniziato poco prima a bere,
sputacchiò l’acqua che le andò di traverso.
“Maledetta acqua!” imprecò, tossicchiando mentre Grace era balzata
in avanti e stava praticamente andando in iperventilazione.
“Oddio, oddio, oddio!” continuava a ripetere, cercando di camminare
il più possibile sul ciglio della strada, per evitare di finire sotto ad una
macchina.
“Ma sei scema?” la rimproverò Elizabeth, raggiungendola.
“Lizzie!” fece lei con il tono che la sua
amica cominciava a detestare all’inverosimile.
“Piantala! Ricordati che so come ucciderti senza lasciare tracce.”
“Solo perché hai seguito medicina legale non credere di poterti liberare
così facilmente di me!” Detto questo, Grace prese sotto braccio Elizabeth
mentre si accorgeva che la luce del sole stava pian piano diventando scarsa.
Poi scoppio a ridere ripensando alla scena che lei e la sua amica
avevano appena vissuto. Non riuscì a fermarsi e rise finché non giunsero ad una
piccola piazzetta vicino a casa Andrews.
Rimasero un po’ là sedute, mentre Grace si domandava se Jeremy
avesse visto o sentito qualcosa, ma non se ne preoccupò troppo. Quel pomeriggio
era stato divertentissimo ed era solo questo che contava.
Ad un certo punto una macchina si fermò per qualche minuto là
vicino e Grace gridò: “Alborosie!” Diede un ceffone
sul braccio destro di Elizabeth che cominciò a lanciarle ogni tipo di
imprecazione, mentre controllava se le fosse rimasto qualche livido.
“Ma sei cre…”
“Quel tizio in macchina aveva una canzone di Alborosie!
Te ne rendi conto?” continuò a strillare, agitandosi in maniera eccessiva.
Elizabeth non la stava a sentire e continuava ad esaminarsi il
braccio.
“Lizzie, devo scoprire chi è che ascolta Alborosie in paese!”
“Ma smettila, sei una deficiente! Mi hai fatto male!”
“Ma… Alborosie!”
L’altra ragazza sospirò e si alzò. “Andiamo, ti accompagno a casa.”
Così le due si avviarono e Grace si appoggiò nuovamente alla sua
amica.
“Allora ciao, ci sentiamo.”
“Ciao Lizzie, grazie. Mi sono divertita.”
“Anche io” disse l’altra, sorridendo, per poi avviarsi verso casa
sua.
Quando Grace si richiuse la porta alle spalle, fu certa che non si
sarebbe facilmente dimenticata di quella serata con Elizabeth.