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Autore: Lacus Clyne    02/08/2012    2 recensioni
Sono trascorsi sei mesi dalla caccia di Tom Culpeper al branco di Mercy Falls. L'inverno è tornato, e alle porte del Natale, Isabel torna a casa, nel gelido Minnesota. Una voce di lupo totalmente inaspettata e le sue speranze si riaccendono. Sam, Grace, Cole sono tornati? O è solo un miraggio dettato dal desiderio di rivederli?
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno! <3 Stamattina ecco il nuovo capitolo... si tratta di un flashback di Cole, è un po' lungo, ma spero che vi piaccia! <3 E' tempo di chiudere i conti col passato, una volta per tutte, e da cosa cominciare se non con una questione lasciata in sospeso alla morte di Victor? Buona lettura!! *--*

 

 

COLE

 

 

Ottobre. Avevo scelto un mese rischioso, ma avevamo dibattuto a lungo nei mesi precedenti. Sam si era opposto, non voleva rischiare che qualcuno mi riconoscesse e attirasse l’attenzione più di quanto era già successo. La faccenda di Culpeper si era conclusa relativamente al meglio per noi, nonostante le perdite, dal momento che non se ne parlò in televisione e le registrazioni erano rimaste in mano a quello stronzo per permettergli di “godersi” la sua titanica impresa fallita grazie all’intervento di Isabel. Avevo corso diversi rischi in passato, da quando ero arrivato a Mercy Falls. Ricordavo ancora chiaramente le ragazzine che mi additavano felici che Cole St. Clair non fosse morto. Che sciocche, così accecate da non vedere che quella persona era morta dentro. La vita in quella cittadina era l’ideale per me, quando non dovevo uscire con un sacchetto in testa (le idee di Sam avevano quella sottile ironia unita al senso pratico delle casalinghe, che ogni volta che le sentivo non potevo fare a meno di notare quanto fosse divertente), potevo contare sul fatto che un po’ di barba ben cresciuta era l’ideale per passare inosservato. Anzi, non che potessi dirlo del tutto, dal momento che diverse signore e giovani fanciulle si voltavano a guardarmi. Persino la dottoressa Culpeper, nonostante fosse contraria ai miei amoreggiamenti con la figlia, la prima volta che mi aveva visto, nudo, in casa sua, sulle sue scale, mi aveva squadrato a dovere. Eppure un conto era Mercy Falls, un conto era casa mia. La vita di una celebrità era l’equivalente della vita di un galeotto. Sempre sul filo del rasoio, giudicato alla minima azione. Se poi questa celebrità era una star mondiale il cui nome era conosciuto dall’Iowa alla Russia e al Giappone, e in più era un lupo che alternava part-time a full-time, le cose si complicavano. E in più, c’era un’altra variabile da tenere in considerazione. La mia famiglia. Alla fine, non volevo solo chiudere i conti col passato, c’era qualcosa di più. E così, quando finalmente ero riuscito a convincere Sam dell’assoluta sicurezza del mio piano, passai alla fase due. Farmi iniettare il virus della meningite batterica, in modo da rimanere umano nonostante il freddo, oltre che la prova del nove che la mia teoria funzionava. Questo sollevò altre obiezioni e dovetti usare il massimo della mia capacità dialettica per far capire a Sam che non mi sarebbe accaduto nulla se fossi stato un lupo. Ma del resto, una cosa che trovavo patetica e controproducente in Sam Roth era la sua indecisione. Quando avevamo recuperato Beck, non aveva avuto il coraggio di iniettargli l’amitriptilina per farlo tornare umano. Troppa la paura del rischio di uccidere suo “padre”, dello scoprire la verità sulla sua storia, di superare il trauma che lo accompagnava da quando aveva sette anni. Trovai un’alleata in Grace, che gli aveva ricordato ancora una volta che fino a quel momento non mi ero mai sbagliato. Fu lei a iniettarmi il virus una volta lupo, e nelle settimane che seguirono, questo fece effetto, permettendomi di affrontare il viaggio. Non andai da solo, tuttavia. L’agente Koenig ormai ci aveva presi in simpatia, così si offrì di accompagnarmi.

Sul finire del viaggio, osservavo pigramente lo scorrere di immobili in quel pianeta di poche anime. Quel panorama non mi suscitava nulla, nonostante fossero diversi anni che non tornavo a casa. Avevo passato gran parte del tempo dormendo, e anche volendo, non potevo più chiudere gli occhi. Koenig mi aveva lasciato tranquillo per la maggior parte del tempo, ma era incuriosito. Lo capivo dalle occhiate che mi lanciava ogni tanto.

“Cosa vuole sapere da me, agente?” Chiesi, a un certo punto.

Visto in borghese sembrava ancora più giovane di quanto fosse. Aveva su per giù una trentina d’anni, saremmo potuti passare per fratelli. Il maggiore, quello rasato che poteva passare per un soldato in licenza, ovvero William Koenig, e il minore, quello con l’aria da squinternato uscito da una clinica di rehab, ovvero il sottoscritto. Dopotutto, quello che la gente sapeva di Cole St. Clair era che a causa dei suoi problemi con la droga si stava curando, prima all’estero e poi in America, località top secret.

“Mi chiedevo… per quale motivo uno come te ha finito per ridursi in questo modo.”

Lo guardai con la coda dell’occhio.

“Intende dire come ho fatto a rendermi irriconoscibile? Poco male, due settimane senza radermi, febbre virale, felpa col cappuccio e il gioco è fatto.”

“Sai cosa intendo, Cole.” Ribadì fermamente. “Avevi il mondo ai tuoi piedi, ragazzo. Potevi vivere la vita di un dio in terra, eppure hai mandato al diavolo tutto quanto, per un futuro come questo.”

Gli rivolsi un’occhiata stanca. Aveva ragione, e me l’ero chiesto spesso in passato, quando non mi importava altro se non di provare adrenalina.

“Se le dicessi che non me ne pento, mi crederebbe?”

Rispose senza batter ciglio. “Dato tutto ciò che hai fatto finora, direi che ti credo al 50 %.”

Sollevai le labbra in un ghigno, poi mi stiracchiai. “Mio padre è il dottor George St. Clair. Immagino abbia sentito parlare di lui, dal momento che si tratta di uno dei genetisti più importanti e premiati degli States. E’ un’autorità nel suo campo, un vero genio. Ha sempre avuto grandi aspettative per me e per mio fratello, ma solo io sono riuscito a stupirlo. Le basti sapere che a quindici anni, prima dei NARKOTIKA, mentre la maggior ambizione dei miei coetanei era quella di entrare nella squadra di football del liceo e portarsi a letto qualche cheerleader, io frequentavo con profitto corsi avanzati presso i migliori college d’America. Vivevo  in totale balia delle aspirazioni di mio padre, cosa che ha fatto nascere in me la necessità fisiologica di non diventare come lui. Ma dall’altro lato, c’era la musica. Quando i NARKOTIKA hanno spiccato il volo, ho assaporato per la prima volta in vita mia la libertà. Ho abbandonato gli studi, la mia famiglia, tutto ciò che era stato il mio passato, ma non è servito. Ero ribelle, e insoddisfatto, nonostante il successo, il sesso e le droghe. Ciò che mi mancava davvero, probabilmente, era la vita vera. Solo che mi ci è voluto guardare la morte in faccia per capirlo. Quindi, direi che per un 15%, pari al tempo di permanenza a casa mia compreso di studi me ne pento, per il restante 85 % per niente. Anche se può sembrare paradossale, ma devo riconoscere che quegli studi mi sono stati utili.”

Mi studiò attentamente. Ai suoi occhi dovevo apparire come un ingrato.

“E lei invece? Perché ha deciso di aiutare un gruppo di gente senza speranza? Ho due teorie a riguardo, sa? La prima. Senso di giustizia. Considerando il suo lavoro, e il fatto che fino a prova contraria eravamo noi le “vittime” di questa storia, ha deciso di aiutarci. La seconda. Lei è curioso di vedere fin dove arriveremo. Il che giustifica per quale motivo ci ha accolti nella penisola mettendoci a disposizione il rifugio Knife e perché continua a interessarsi a noi. Propendo più per la seconda, detto tra noi.”

Ascoltò le mie teorie perplesso, poi mi rispose. “Non ti stanchi mai, eh? 49 % la prima. 51 % la seconda. Sono percentuali d’interesse piuttosto vicine, come vedi. Sai, Cole… devo ammetterlo, tu sei una persona singolare. E lo è anche Sam Roth, certo, ma vedere quello che sei stato in grado di fare per il branco mi fa venire in mente che dopotutto, ci sono risvolti positivi anche nel mio lavoro.”

“Tuttavia, non sono riuscito a salvare tutti. E nemmeno Victor.” Risposi, dando un’occhiata allo zaino che portavo con me.

“Non puoi fartene una colpa. Hai fatto del tuo meglio. E se non fosse stato per te, a quest’ora non saremmo qui a parlarne.”

Affilai lo sguardo. Non ero mai stato propriamente una persona corretta. Anzi, se mi avessero detto che dal calcare i palchi di tutto il mondo cantando davanti a orde di gente impazzita che urlava il nome dei NARKOTIKA sarei finito a vivere in incognito a studiare una cura contro la licantropia, avrei pensato che nemmeno la migliore droga mi avrebbe provocato quell’allucinazione. Mi voltai verso il finestrino.

“Siamo arrivati.” Comunicai. Erano diversi anni che non vedevo Angie e quando avevo provato a chiamarla, stando a Sam, era ben decisa a tenermi fuori dalla sua vita una volta per tutte. Non potevo certo biasimarla, ma le dovevo almeno questo. Koenig rimase in macchina, io tirai su il cappuccio della felpa e scesi, mettendo in spalla lo zaino, poi andai a suonare. Mi ero informato prima di partire, e avevo scoperto che Angie tornava a casa almeno una volta al mese. Ero preparato all’eventualità che potessi trovarmi davanti i suoi genitori, ma fortunatamente, non fu il caso. Ad aprirmi, fu proprio lei. Rimasi per qualche istante a osservarla. Era più magra di come la ricordavo, indossava un pullover viola chiaro e dei leggins e portava i capelli raccolti. Ma nei suoi occhi, oltre alla perplessità iniziale, riuscii a scorgere un velo di tristezza, lo stesso che avevo scorto qualche volta in Isabel. Aggrottò le sopracciglia, cercando di ricollegare la mia faccia a qualcosa di conosciuto, poi quando ci riuscii, la sua bocca si aprì in una sorta di “o” per l’incredulità. Sorrisi, mi aveva riconosciuto.

“Cole!” Esclamò.

“Ciao, Angie.” La salutai.

Nell’arco di pochi secondi la sua espressione incredula mutò in una incerta, del tipo San Tommaso, per poi tramutarsi in un’espressione rabbiosa.

“Che diavolo ci fai tu qui?! Mi sembrava di averti già detto di stare fuori dalla mia vita, per sempre!”

Avevo preso in considerazione anche una risposta del genere.

“Non si tratta di me, Angie. Ho bisogno di parlarti, è importante.”

Sollevò un sopracciglio.

“Non provarci nemmeno, non intendo darti retta.” Fece per chiudere la porta, ma la bloccai.

“Che cavolo ti sei messo in testa, eh?! Vattene! Vattene subito! Torna da dove sei venuto, non voglio sapere niente!”

“Angie, è per Victor! Si tratta di tuo fratello!”

Esitò all’improvviso, avevo fatto breccia nella sua corazza.

“Victor? Cosa… cosa significa?”

“Non qui.”

“Cosa significa, Cole?”

Stavo per risponderle, ma l’agente Koenig intervenne, mostrandole il distintivo.

“Signorina Baranova, sono l’agente William Koenig, distretto di Duluth, Minnesota. Mi spiace disturbarla così, senza alcun preavviso. Accompagno il signor St. Clair.”

Angie riaprì la porta. Ora sul suo viso si leggeva una una penosa incredulità.

“Entrate.” Disse, lasciandoci campo libero.

Era trascorsa una vita da quando ero stato a casa di Angie. Vedere le foto di famiglia, assieme a Victor e al loro fratellino, vederlo felice, mi provocava la stessa stridente e dolorosa sensazione di quando stavo per trasformarmi. Un pugno, un pugno fortissimo all’altezza dello stomaco, e la morsa che mi torceva gli organi interni. Victor mi aveva seguito nel mio vortice di follia. Io l’avevo consegnato nelle mani di Tom Culpeper, dannandomi perché lui riusciva dove io fallivo. Io ero responsabile della sua morte. Dove trovassi il coraggio di guardare Angie non lo sapevo, eppure continuavo a guardarla. Lei al contrario, non mi guardava, ma fissava l’agente Koenig mentre lui le raccontava il motivo per cui eravamo lì. Solo quando “fratello” si incontrò con “morto”, e sul suo viso comparve il pallore dello shock, completamente fuori di sé, mi guardò. Uno sguardo capace di abbattere le mie difese, così come quello della cerva mortalmente ferita che mi implorava di completare la mia opera di distruzione, a Boundary Wood. Entrambe mi avevano chiesto di porre fine a qualcosa, a un dolore. Avrei dovuto raccontarle ogni cosa e sperare che nella migliore delle ipotesi finissi col diventare carne da macello sul tavolo operatorio di mio padre o di altri scienziati pazzi, sezionato in mille pezzetti. Curioso, quel pensiero mi fece tornare in mente la mia hit Break my face (And sell the pieces), ma la realtà era ben più crudele. Una degna espiazione per i miei peccati. Eppure il dilemma su cosa fosse meglio, tra la verità impietosa e una pietosa bugia, non mi aveva sfiorato. Non era solo per me, ma anche per Sam, Grace, i lupi sopravvissuti, che lo facevo. Per proteggere la memoria del mio amico Victor. Per l’agente Koenig, che ci aveva aiutati. Per Isabel, per evitare che un altro Tom Culpeper fosse causa di morte per altri come noi. E così, feci quello che mi riusciva meglio: raccontare mezze verità. Il tour in Canada. Il ricordo della mia ultima esibizione, Jackie che mi allungava la droga, lo sguardo di Geoffrey Beck, i lupi che ci mordevano. La ragazza con la maglietta stinta, Victor e io nel bagagliaio. E il dolore, il dolore lancinante della tossina che si diffondeva nel nostro organismo. Di nuovo Beck e poi per un attimo, i miei occhi che incrociavano quelli gialli di Sam Roth. La trasformazione. Il nulla. Un nuovo inizio.

Recitai a memoria il copione che mi ero preparato. Durante il tour in Canada, in seguito a una overdose, ero stato portato in una clinica del Minnesota e Victor mi aveva accompagnato. Era stato l’agente Koenig a offrirsi di portarci lì, dal momento che era presente al concerto. Lì, eravamo rimasti per diversi giorni, ma mentre io mi stavo riprendendo, Victor aveva contratto il virus della meningite batterica, che nei mesi successivi aveva mietuto diverse vittime nel distretto di Duluth. Ovviamente, si trattava di una bugia che avevamo creato ad hoc, ma l’agente Koenig presentò prove a sostegno della mia tesi, e tra queste, rientrava anche Jack Culpeper, il fratello di Isabel. Vederlo su quei fascicoli, così freddi, mi faceva pensare che se fossi morto, sarebbe stato quello il destino che mi sarebbe toccato. L’impietosa fine di una geniale rock star. Dopotutto, Victor avrebbe avuto ragione. La mia fama non mi sarebbe sopravvissuta. Le dissi che anch’io avevo finito col contrarre il virus, ma per via delle cure a cui mi ero sottoposto, mi aveva contagiato in forma più lieve. Aggiunsi che ero ancora convalescente, sebbene non più infettivo, ma Victor aveva contratto la forma più aggressiva, e la febbre virale gli aveva provocato il coma. Angie ascoltava le mie parole come se stessi narrando la trama di un film dell’orrore, ma quando trassi dallo zaino l’urna con le ceneri di Victor, arrivando al finale senza lieto fine, solo allora emise un verso, un lamento simile a un uggiolio.

“C-Che significa?” Domandò.

Avevo seppellito il lupo a Boundary Wood assieme a Sam e Grace, ma prima o poi, la sua famiglia avrebbe finito col cercare quel corpo, che oramai non aveva più nulla di umano. Così avevo deciso di riesumare quella salma e mi ero occupato della cremazione io stesso. Ottenere il certificato di morte fu più complicato, ma ero riuscito a ingraziarmi un’impiegata presso il Municipio e ad accedere ai file, in modo da falsificare l’atto che mi serviva. Il rischio maggiore era quello della richiesta dell’analisi del DNA, dal momento che pur avendo dei rimasugli di tracce genetiche di Victor, non potevo contare su una comparazione con i membri della sua famiglia. Tuttavia, l’agente Koenig spiegò che per motivi di sicurezza, dovuti all’eventualità di evitare ulteriormente il contagio, si era proceduto a cremare i corpi. A quel punto, estrasse dalla borsa le buste sigillate contenenti le tracce di Victor, e per qualche secondo cercai di capire come ne fosse entrato in possesso. Feci mente locale, e mi ricordai di non aver mai bruciato o fatto sparire gli oggetti personali di Victor. Probabilmente, li aveva trovati setacciando il bagagliaio dell’auto di Beck. Quando avvicinò l’urna e le buste sigillate, Angie continuava a fissarmi. E io non riuscivo a distogliere lo sguardo.

“Cole St. Clair. Ti ho fatto. Una. Domanda.”

Avrebbe voluto sentirsi dire che era uno scherzo di pessimo gusto che avevo ordito ai suoi danni per torturarla, probabilmente. Avrei potuto farlo, era il momento di dire “E’ una horror-camera, Angie. Sorridi, tuo fratello è vivo, ma non tornerà mai più” oppure che era il peggior incubo della sua vita ed era ora di svegliarsi.

“Victor era una persona buona. Darei qualunque cosa pur di riportare indietro il tempo, ma non posso farlo.”

“Perché?”

“Perchè?” Le feci eco.

“Perché Victor? Perché mio fratello non c’è più… e tu sei ancora qui?”

“Signorina Baranova…” L’agente Koenig fece per risponderle, ma lo bloccai. Angie aveva ragione. Sarebbe stato molto più giusto. Ero io quello che voleva sparire, quello che sperava che diventando un lupo avrebbe cancellato per sempre una vita che odiava. Avevo negli occhi il cadavere di Victor, gettato davanti a noi come si fa con una carcassa immonda. Quell’immagine sarebbe rimasta con me fino a che avessi avuto vita.

“Perché la vita è ingiusta, ti direi. Invece, quello che posso dirti è che la vita ti dà una seconda possibilità, a volte, ma in cambio, esige il pagamento di un prezzo, il più alto possibile. Victor è stato quel prezzo. Non ho il diritto né di chiederti scusa, né di domandarti perdono. Desideravo solo che Victor tornasse a casa, accanto alle persone che amava. Mi dispiace di aver tardato così tanto.”

Mi lasciò parlare, fino a che l’emozione non la sopraffece e scoppiò in un pianto dirotto. Per quanto tempo aveva represso quelle lacrime? Non lo avrei saputo dire, ma pianse per minuti interi. Raccolse l’urna tra le mani, stringendola con delicatezza, come se fosse un cucciolo bisognoso di cure. Avevo distrutto le loro vite, e in cambio avevo ricavato una nuova vita, una in cui ero una persona diversa, la persona da cui avevo cercato di fuggire anni fa.

“Angie. Ti prometto che troverò una cura che impedisca a questa malattia di mietere altre vittime. Sto studiando da diversi mesi ormai. La morte di Victor non è stata vana.” Non potevo confortarla, ma era giusto che sapesse almeno questo. Koenig mi fulminò con lo sguardo. Lo ignorai. Angie scosse la testa, e sapevo che nonostante tutto, quelle parole sarebbero rimaste un mero e fuori luogo tentativo di offrirle il mio cordoglio. Rimanemmo così, nel silenzio rotto dai suoi singhiozzi disperati per un lasso di tempo che non avrei saputo quantificare. Il tempo del dolore. L’agente Koenig le stette accanto, abituato com’era ad affrontare eventualità simili. Pacche sulla spalla, mormorii silenziosi, parole di conforto. Nulla che io avessi saputo fare. Osservavo invece quel salone. Quante volte ci ero stato in passato? Seguivo con lo sguardo le suppellettili, molte delle quali erano testimonianza della fede cattolica della famiglia di Angie. C’era un quadro, che raffigurava la Pietà. Qualcuno mai avrebbe avuto pietà della mia anima? Oramai avevo totalmente perso la mia fede. Da anni per me esisteva solo l’inferno, e aveva un aspetto molto più familiare di quanto la letteratura e l’arte potessero mai rappresentare. L’inferno era una vita in cui più nulla aveva valore. Avevo toccato il fondo, ed ero rimasto intrappolato così in basso da non riuscire a riemergere nemmeno se avessi voluto. Anche se io stesso non volevo risalire. Avevo rifiutato l’aiuto di chi mi aveva teso la mano, e l’avevo trascinato nella tana del coniglio con me. Fino a che, in quella tana, avevo incontrato Isabel.

“Cole.”

La voce di Koenig. Gli rivolsi la mia attenzione. Angie si era calmata, ma continuava a stringere l’urna. Solo allora mi resi conto che il sole stava ormai tramontando. Era ora di andare.

“Angie…”

Angie scosse la testa. Mi alzai e raccolsi il mio zaino e così fece Koenig.

“Per qualunque cosa, signorina Baranova, mi chiami. Sono a sua disposizione.” Le disse. Lei annuì. Non voleva sentire altro da me, così voltai le spalle e tornai verso l’ingresso, fermandomi a congedarmi anche da Victor. Raccolsi uno dei portafoto in vista su una mensola in marmo incavata in una nicchia del muro. Victor era lì, col suo sorriso, le bacchette in mano, seduto alla batteria. Felice, pulito, ignaro di tutto. Il genere di foto che diceva tutto di una persona.

“Vic… grazie, amico mio. Suona anche per me, lassù.” Mormorai, e rimisi a posto il portafoto.

 “Cole…”

La voce di Angie. Mi voltai, mi guardava con un’espressione inintelligibile. Le rivolsi un sorriso. Il pianto le aveva conferito un’aria ancora più innocente. Perché lei lo era, lo era sempre stata. Io ero il malvagio, quello che aveva giocato con i suoi sentimenti, quello che le aveva portato via suo fratello. “Ciao, Angie.” Dissi, e mi incamminai verso l’uscita.

“Aspetta.” Ordinò, con voce abbastanza ferma a dispetto dell’apparenza. Costretto, mi voltai nuovamente verso di lei.

“Mio fratello… ha sofferto?”

Aveva sofferto, sì, quando la tossina aveva cominciato a circolarci in corpo. E soffriva ogni volta che il suo corpo instabile cambiava forma, trasformandosi di continuo. Ma quando Tom Culpeper l’aveva ucciso, nonostante il Victor che conoscevo non esistesse più, mi ero augurato che fosse morto sul colpo, e non in una lunga, dolorosa agonia.

“No.” Dissi. “Non se n’è nemmeno reso conto.”

Accusò il colpo, ma vidi la sua espressione ammorbidirsi per qualche istante. Pensai che si sarebbe rimessa a piangere, ma non lo fece. Al contrario, si tolse una catenina con un ciondolo a forma di croce. Affilai lo sguardo, la conoscevo. Un tempo, la portavo anch’io. Ma l’avevo persa, chissà in quale letto d’albergo. L’agente Koenig la guardò perplesso.

“C’è qualcosa di diverso nei tuoi occhi, Cole St. Clair.” Disse, stringendo quel ciondolo. “Non so cosa sia… e non voglio saperlo. Io non potrò mai perdonare il male che hai fatto a me, e anche a Victor, ma… ti ringrazio, per avermi riportato mio fratello.” Mi raggiunse e mi prese la mano. A quel contatto, non provai nulla di sconvolgente, ma nonostante tutto, era come se avessi la sensazione che qualcosa dentro di me si stesse rinsaldando. “Credi ancora che il paradiso non esista?”

Quelle parole mi sorpresero. Non mi aspettavo che ricordasse la conversazione che avevamo avuto anni fa sull’argomento. Allora, le avevo detto che non ci credevo più.

“Ci sto lavorando.” Confessai. Angie non replicò, ma mi porse un’altra domanda.

“I tuoi non sanno che sei qui, vero?”

Scossi la testa. Mi mise in mano il ciondolo, facendo sì che lo impugnassi. Koenig ci guardava senza capire.

“Non dirò niente sulla tua presenza qui. Ma sappi che ti vogliono bene, e che manchi loro.”

Annuii. “Grazie, Angie. Per tutto.”

Era un addio. Non ci saremmo più rivisti. Adesso che Victor non c’era più, ogni mio legame con lei era del tutto svanito. Eppure, nonostante tutto, non avevo rimpianti. Quando andammo via, tuttavia provai un’insolita sensazione di nostalgia. Ma mi ci volle un po’ per capire di cosa si trattasse. Lo compresi solo quando il cellulare di Koenig squillò. Era Sam, che chissà quanto diavolo era in pena per la nostra sorte. La persona che avrei voluto sentire in quel momento, la sola a cui sentivo il bisogno di parlare era Isabel. Avevo nostalgia della sua voce.

Riaprii gli occhi. Ero ancora a mollo nella vasca al piano di sotto. L’acqua era così tiepida che quasi faceva venire freddo. Mi guardai la mano, avevo le dita palmate. Quandi mi decisi, uscii dalla vasca e ripresi finalmente il controllo di me stesso. Dovevo trovare Isabel. Mi concentrai sui suoi occhi, sul suono della sua voce, e annusai l’aria inebriandomi del suo profumo. L’odore era il legame più forte con i ricordi. Poi corsi fuori casa.

Sei Cole St. Clair. Trova Isabel.

Il gelo fece il resto.

 

 

 

 

 

  
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