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Autore: Natalja_Aljona    02/08/2012    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Trecentoventicinque


Trecentoventicinque

Mi sei scoppiato dentro al cuore

Libertà, vita in me, sogno in me, libertà

All these bells that have never not once rung out for me

Le campane che non hanno suonato per me

Chi riparerà, chi mi ridarà la vita mia?

I will survive

Io sopravvivrò

A million stars light

This beautiful night

This is not a night to die...

 

La luce di un milione di stelle

Questa bellissima notte

Non è una notte in cui morire...

(Live for the one I love, Notre Dame de Paris)

 

Omsk, 1 Ottobre 1833

 

Il sole nasceva
Ma io non lo vedevo mai
Laggiù era buio
(Una Miniera, New Trolls)

[...]

Cast away

Souls at bay

It's our dream

They betray

Now they say

We can't stay

Prayers we pray

Last today

 

Condannati

Anime in attesa

Il nostro sogno

È un loro errore

Ora loro dicono

Che non possiamo più stare qui

Le nostre preghiere di oggi

Saranno le ultime

(Cast Away, Notre Dame de Paris)

[...]

Ma un'alba più nera, mentre il paese si risveglia
Un sordo fragore ferma il respiro di chi è fuori
Paura, terrore sul viso caro di chi spera
Questa sera, come tante, in un ritorno
(Una Miniera, New Trolls)

 

La svegliarono grida e spari, il 1 Ottobre 1833.

Il suo primo pensiero fu una fucilazione di massa.

Qualcuno si era ribellato, qualcuno non ce la faceva più.

O forse, semplicemente, i padroni della Mërtvogo Doma avevano deciso così.

I detenuti delle celle vicine erano inquieti, si lanciavano sguardi tremanti d'impotenza, il bruciante terrore di essere i prossimi, i prossimi a cui strappare la vita o decimare la famiglia.

E lei?

Aveva otto anni, lei, otto anni e il cognome più temuto dallo zar.

Natal'ja Zirovskaja.

Numero 1482, cella 272.

La cella dei Rivoluzionari.

I Rivoluzionari erano sempre i primi a lasciare la Mërtvogo Doma, i Rivoluzionari avevano sempre trattamenti speciali, torture di lusso.

Come se, rispetto agli altri prigionieri, per essere davvero inoffensivi dovessero morire di più.

Lei era l'unica Zirovskij ch'erano riusciti a prendere...

E anche se aveva solo otto anni, avevano visto giusto.

Dopo suo zio Vasilij, sarebbe diventata la più pericolosa.

Natal'ja Zirovskaja, la futura dea della Rivoluzione.

Poi, d'improvviso, sentì gridare il suo nome.

Forse c'erano altre prigioniere di nome Natal'ja, ma lei era senza dubbio la più famosa.

Non per niente aveva un carceriere solo per lei.

Viktor Zarkhov, che aveva ucciso Zsófike Desztor, e forse, se gli fosse bastato il tempo, avrebbe ucciso anche lei. Sono qui per te, Alja.

Sono qui per te.

Gli sguardi spaventati dei suoi vicini di cella, adesso, si erano spostati su di lei.

Chi diavolo sei, ragazzina?

È per te che stanno buttando giù la Casa dei Morti.

Se non è l'Apocalisse, è la Rivoluzione.

Sono i tuoi parenti, Lys?

Sono gli Zirovskij?

Lei ci pensò, alla sua famiglia.

A suo padre filosofo idealista, a sua madre eterna bambina, più di lei, a suo cugino, il suo dolce Nikolaj che viveva di sogni, a suo nonno che aveva perso la ragione in guerra, caduto ad Austerlitz pur essendo tornato, a sua nonna che si era sacrificata per tutti.

Erano un disastro, gli Zirovskij.

Non erano più quelli di una volta.

Natal'ja era l'ultima fiamma di quella che un tempo era stata la famiglia più famosa e temuta di Russia, dopo i Romanov, dopo la famiglia imperiale, dopo lo zar, ma per i motivi esattamente opposti.

Natal'ja, sui giornali dei curiosi e sulle labbra dei nemici, sarebbe stata paragonata a Vasilij fino all'ultimo giorno.
Natal'ja, sanguinario angelo di Siberia, la spietata libertà.

Non erano loro.

Non erano gli Zirovskij, non erano i suoi parenti.

L'ultima speranza della sua famiglia era lei.

Però, lei avrebbe dovuto riconoscere la voce...

La voce che aveva gridato il suo nome.

Il suo nome con quell'intonazione...

L'accento non era russo né polacco né kazako.

Lys parlava in russo con l'accento polacco, l'accento di Varsavia sputato, l'aveva imparato da Nikolaj...

Ma non era stato lui a chiamarla, non era lui.

Non era inglese, non era suo padre.

Non era siberiano, non era l'accento di Krasnojarsk, ma neanche quello duro e tagliente di Viktor Zarkhov, ch'era nativo di Tomsk, poco lontano da Omsk.

Non era un accento slavo, no...

Era dell’Est, questo sì.

Sembrava più scandinavo, finlandese... Ungherese.

No, non era possibile...

Dentro di lei, Lys lo sapeva.

Sapeva chi c'era lì fuori, sapeva di chi era quella voce.

Sapeva tutto, ma lo viveva come un miraggio, la sciocca illusione di una prigioniera.

Che sogno crudele, quel desiderio irrealizzabile...

Doveva smetterla di sperare.

Lys sapeva anche che quando fosse successo avrebbe perso davvero tutto, ma ormai non riusciva più a capire, tra arrendersi e sperare, cosa faceva più male.

Lys, tu non hai paura, non davvero...

Hai imparato a sfidare la morte, l'hai imparato da me.

Ecco cosa le avrebbe detto in quel momento, prima, dopo e sempre... Quella persona.

Quella persona che forse era là fuori, forse no.

Quella persona che un giorno le aveva detto...

Non dimenticare mai il tuo nome, e, se ci riesci, non dimenticare neanche il mio.

Feri Desztor.

 

Viene l’ora...

Io starò bene

(Visita di Frollo a Esmeralda, Notre Dame de Paris)

 

Lys assaporò quel nome ungherese lettera dopo lettera, erano undici lettere.

Se lo ripeté nella mente come se ogni lettera, dalla prima all'undicesima, fosse stata una goccia di cielo.

Come se ogni lettera, dalla "f" iniziale alla "r" finale, avesse potuto scioglierle le catene.

Sì, lui poteva...

Se davvero lui c'era.

Se davvero il 1 Ottobre 1833 sarebbe stato il suo ultimo giorno nella Casa dei Morti.

Avvelenata da quel dubbio, finì per pronunciare quel nome a voce più alta, e gli occhi di un anziano detenuto poco lontano parvero prendere fuoco, accendersi e brillare di una luce innaturale, e in quella luce due sentimenti intensi al punto di far quasi sanguinare le iridi chiare dell'uomo.

-Pazza. In manicomio dovevi stare, non in galera, Natal'ja! Tu hai i tuoi eroi che ti salveranno, biondina, e magari tra di loro c'è anche il tuo futuro marito, ma noi restiamo qui! Ci ammazzeranno tutti, qui!-

Era Fëdor Akakievič Lévin, il padre quasi settantenne di un sovversivo politico di origini moscovite ch'era morto giù in miniera poche settimane prima, e la morte dell'unico figlio e l'eco della sua disperata innocenza l'avevano fatto impazzire.

Il suo rancore nei confronti di Alja in fondo era comprensibile...

S'era vero che lei sarebbe uscita di là.

Una Rivoluzione per Natal'ja, bionda stella di Siberia.

Forse non era l'unica a meritarsela.

Feri, il suo Feri...

Lo vedeva, ma lui non c'era.

Non ancora.

 

Dove sei, mio campanaro?
Mio Quasimodo, ti chiamo
Vieni qui a tirarmi fuori
Fammi uscire o morirò

(Ali in gabbia, occhi selvaggi, Notre Dame de Paris)

 

-Maledetta, maledetta Siberiana... Questa è la tua terra, tu sei nata qui! Io a Mosca stavo bene!-

Ma lo sapeva, Lévin, che Lys era russa esattamente quanto lui?

In prigione non erano cambiate poi tante cose.

I pregiudizi sui Siberiani rimanevano.

Come se ci fosse stata chissà quale differenza, tra un russo di Mosca e una russa di Krasnojarsk.

Lys si strinse nelle spalle, sbuffò e lo ignorò.

Per fortuna che non era lui, il suo compagno di cella.

-Tanto farai presto la fine di tuo figlio, vecchio razzista...- disse tra i denti, pentendosene un attimo dopo, per rispetto della memoria di Jakòv Fëdorovič Lévin, che quando tornava dalla miniera un sorriso glielo riservava sempre, finché un giorno non era più tornato, e non le aveva sorriso più nessuno.

Tra gli altri detenuti, gli unici che la guardavano con simpatia erano i sovversivi politici e i Rivoluzionari come lei, i più coraggiosi.

Gli innocenti non potevano, perché nonostante Lys avesse solo otto anni, non riuscivano a vedere in lei un'innocenza pari alla loro.

Gli innocenti sbattuti in galera per un sospetto la guardavano come se fosse stata lei a condannarli.

E poi Lys era Siberiana, e anche questa era una colpa, ovviamente.

In quel momento le sembrò semplicemente inaccettabile che Jakòv, con i suoi quasi trent'anni e il suo bel sorriso, fosse morto in miniera.

E anche a lei parve terribile, essere Siberiana...

Perché quel ragazzo era morto nel suo Paese, poco lontano dalla sua città, ed era un po’ come se fosse anche colpa sua.

Lei era nata lì.

 

My homeland

I hold here

 In my heart

Ever near

In your land

I find tears

Words that hurt

Things to fear

In my heart

Summer dies

From your greys

Winter skies

 

La mia Patria

La porto dentro di me

Nel mio cuore

Sempre vicina

Nel tuo Paese

Ho trovato lacrime

Parole che feriscono

Cose da temere

Nel mio cuore

L’estate muore

Per i tuoi grigi

Cieli d’inverno

(Cast Away, Notre Dame de Paris)

 

Ma non poteva credere a quello che le dicevano gli altri, neanche se glielo ripetevano tutti i giorni.

Natal’ja era sempre stata fiera di essere Siberiana.

-Volevo bene a tuo figlio- mormorò, rivolta a Fëdor Lévin.

Il Moscovita esplose in una risata sprezzante.

-Figuriamoci! Quando mai hanno avuto un cuore, le Rivoluzionarie?-

-Davvero-

-Lascia perdere, Natal’ja. Davvero-

Eppure lei a Jakòv aveva voluto bene.

Un giorno, vedendola parlare e ridere con lui, Viktor Zarkhov l’aveva afferrata per un polso e le aveva sibilato all’orecchio:

-Dato che ami tanto la compagnia di Jakòv Lévin, scendi in miniera con lui, oggi!-

Non era giusto, come niente, tra le mura della Mërtvogo Doma.

In miniera ci andavano solo gli uomini, le donne lavoravano nei campi.

Lys non avrebbe mai dimenticato gl’insulti, gli spintoni e i soprusi degli altri minatori forzati, sorpresi ed eccitati di vedere una ragazzina tra di loro.

Erano stati tanti, troppi, nonostante fosse rimasta sempre accanto a Jakòv.

Lui le diceva sempre...

-Quando usciremo di qui ti inviterò nella mia casa a Mosca. È bella, sai? La mia famiglia non è ricca, affatto, non lo è mai stata, ma abbiamo una bella casa. Ci verrai, vero?-

Non si era mai rassegnato a dire “avevamo”.

Lui se chiudeva gli occhi la vedeva ancora, la sua casa a Mosca.

Parlava al futuro, pensava al futuro.

Ma quale futuro?

Morire in miniera a ventinove anni era stato il suo ultimo presente, e poi mai più speranze, mai più sorrisi.

Mai più vita.

Oh, Jakòv...

I suoi capelli neri, i suoi occhi azzurri, il suo sorriso da bambino e il suo coraggio, un coraggio da eroe.

Le mancava davvero, Jakòv.

 

Nessuno parlava, solo il rumore di una pala che scava, che scava...
Tu, quando tornavo, eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo, bianche d'amore
Io non ritornavo, e tu piangevi...
(Una Miniera, New Trolls)

[...]

We're called names

We are blamed

We're kept down

We are shamed

In the night

Torture comes

Try to speak

Without tongues

 

Noi siamo i nomi chiamati

Noi siamo accusati

Noi siamo respinti

Noi siamo disonorati

Nella notte

La tortura arriva

Prova a parlare

Senza lingua

(Cast Away, Notre Dame de Paris)

 

Prima che Hans Christian Andersen inventasse e scrivesse la sua versione, esisteva una piccola fiammiferaia.

Anche lei bionda, anche lei poverissima.

Non danese, ma russa, siberiana.

Anche lei protagonista di vicende strappalacrime, ma per Natal'ja era un po' diverso.

Sarebbe stata lei a strappare lacrime agli uomini a cui avrebbe strappato il cuore, solo qualche anno più tardi. Sarebbe stata lei, e non solo i ricchi sprezzanti della Vigilia di Natale della fiaba di Andersen, a non avere pietà. Natal'ja, il 1 Ottobre 1833, aveva acceso il suo ultimo fiammifero, il suo ultimo sogno, la sua ultima illusione, ma non le era apparsa nessuna nonna...

Bensì Feri Desztor in carne ed ossa.

Ad ogni modo, Den Lille Pige Med Svovlstikkerne, La piccola fiammifera di Andersen sarebbe uscito in Danimarca solo nel 1848, quando Natal'ja aveva già ventitré anni e molte scatole di fiammiferi vendute alle spalle.

Che ci fosse qualche incongruenza con la versione originale, con la realtà di Lys, era assolutamente normale.

In fondo, per Andersen la versione originale sarebbe sempre rimasta la sua, perché non avrebbe mai conosciuto nessuna Natal'ja.

La sua fiaba, però, sarebbe arrivata in Russia, e Natal'ja, leggendo della sua "collega" danese, aveva pensato che le sarebbe piaciuto incontrarlo, Andersen, ma aveva poco tempo.

Solo altri pochi mesi da vivere e una Rivoluzione da fare per cui forse avrebbe trascurato un po' i fiammiferi. Sarebbe stato per un'altra volta.

Per un'altra vita e un'altra fiaba, forse.

A lei bastava la sua.

Ebbene, l'ultimo fiammifero di Alja si era spento.

Le mani sanguinanti della biondina tremavano, i suoi occhi grigiazzurri inseguivano una tenue, fugace fiamma che si era dispersa nell'aria ancora prima che lei riuscisse a vederla.

Feri non era lì.

Feri non l'aveva chiamata, Feri non la stava cercando.

Feri non era venuto a salvarla, Feri forse non era mai esistito.

Era rimasto a Forradalom, e Forradalom era lontana...

Per quanto ne sapeva lei, poteva essere perfino tornato a Budapest.

Budapest...

Era in Ungheria, Budapest?

Alja non se lo ricordava più.

Doveva essere così, perché Feri era ungherese.

E dov’era, l’Ungheria, cos’era, l’Ungheria?

Alja non lo sapeva più.

Ma se davvero Feri era lì, avrebbe voluto esserci anche lei.

Avrebbe voluto essere con lui.

Con lui, sempre...

L’aveva aspettato per nove mesi.

Ma Feri chi, quale Feri aspettava, lei?

Quale, dei mille Feri che c’erano a Budapest e in Ungheria?
Feri...

Il suo nome se lo ricordava.

Feri, sì...

Il ragazzo a cui aveva promesso di non dimenticare mai il suo nome.

Feri...

Desztor.

 

Mio Febo
Nel tuo ricordo pensa che
La tua Esmeralda è accanto a te
Oh, Febo
Lei che ballava e poi non più
Ma la sua vita ce l'hai tu
Oh, Febo
Oh, se tu mi portassi via
Sui mondi dell'Andalusia
Mio Febo...

(Mio Febo, Notre Dame de Paris)

[...]

Le mani, la fronte hanno il sudore di chi muore
Negli occhi, nel cuore c'è un vuoto grande più del mare
Ritorna alla mente il viso caro di chi spera
Questa sera, come tante, in un ritorno
(Una Miniera, New Trolls)

 

Natal’ja avrebbe mantenuto la sua promessa.

Non si sarebbe dimenticata di lui, anche se la memoria, la speranza e la salute cominciavano a vacillare.

Anche se avesse dimenticato i suoi occhi, il suo sorriso e la sua voce...

Il suo nome no, il suo nome mai.

Doveva avere la febbre, altrimenti non si sarebbe potuta spiegare quei deliri.

Quel momento arrivava per tutti i detenuti della Mërtvogo Doma.

Il momento di perdere se stessi, il momento di perdere il sole.

Il momento di ritrovarsi con il respiro spezzato e il cuore in fiamme, il momento di lasciar andare e di non ricordare più nemmeno...

Il proprio nome.

Natal’ja.

Lei si chiamava Natal’ja.

Natal’ja...

Zirovskaja.

Ma dov’era nata, e quando?

Il 28 Febbraio...

No, il 26.

Come Victor Hugo.

O forse il 25, il 24?

Il 22, come Csák Desztor?

E di che anno, poi?

Il 27, era il 27...

E l’anno era il 1826.

No, stava sbagliando ancora...

Era il 1824, come Lörinc?

Chi era Lörinc?

1825.

Ma in che città?

Ad Omsk non poteva essere, ma era siberiana, questo se lo ricordava bene...

Era una città grande, la sua, una città grande e bella, sempre bianca di neve, attraversata da un fiume sempre ghiacciato...

L’Enisej.

C’erano tanti boschi, e le montagne in lontananza...

I Monti d’Oro dell’Altaj.

Lei era nata, lei viveva...

A Krasnojarsk.

Quanti anni aveva?

1825, 1833...

Sette, l’avevano portata via a sette anni.

Ma erano passati nove mesi, e ne aveva compiuti otto.

Otto anni, già.

Otto anni...

Lys provò a muovere le dita, per quel poco che le catene ai polsi glielo permettevano, le sue dita sottili e graffiate, e quel movimento quasi impercettibile la sconvolse, non credeva di poterlo ancora fare.

Aveva i brividi, brividi come spilli su tutta la pelle, su tutto il corpo.

Il suo corpicino esile e fragile, gelido e ossuto...

Era il suo corpo, ma lei non lo sentiva più suo.

Era il corpo di un’altra bambina, un’altra bambina debole e sfortunata, disperata e spaventata che non era lei.

Perché lei era coraggiosa, lei era Natal’ja.

I suoi capelli, quei capelli biondissimi e lunghi oltre l’orlo della sua camicia da notte, troppo lunghi, troppo...

Le davano una sensazione strana, tutti quei capelli, la coprivano più dei vestiti, le solleticavano le gambe e Lys si chiedeva come avesse fatto a farli crescere così tanto, e perché...

Non le davano fastidio, si era sempre sentita protetta da quel manto dorato, ma sapeva che non avrebbero potuto nasconderla per sempre, e l’ansia la tormentava.

I carcerieri glieli avevano lasciati per pietà, ad alcune detenute li tagliavano cortissimi, ma a lei li avevano lasciati.

Li usavano per strattonarla, per scaraventarla a terra quando andava a loro, ancora prima che lei fiatasse.

Avrebbe dovuto lavarli, però...

Ma come poteva, là dentro?

Pensava ai capelli per distrarsi, ma la verità era che non riconosceva più nemmeno quelli, non si riconosceva più.

Si guardava la pelle chiarissima quasi con sorpresa, sembrava fatta di neve.

Glielo dicevano sempre tutti, prima, ma Lys non se lo ricordava.

E poi, perché la chiamavano Lys, a volte?

Chi era Lys?

Avevano sbagliato persona?
Si erano confusi?

Anche lei era confusa, in quel momento.

Chi era Lys?

Lei era Natal’ja, Natal’ja...

E aspettava Feri Desztor.

Quel bellissimo zingaro ingannatore, traditore...

Piangeva, adesso, Natal’ja.

Jakòv non c’era più.

Era morto, Jakòv.

Era morto in miniera a ventinove anni.
Questo se lo ricordava.

Feri era lontano.

Viktor Zarkhov la odiava, e l’avrebbe uccisa.

Ma chi avrebbe ucciso, Zarkhov?

Chi era lei?

Chi era Natal’ja?

Chi era Feri Desztor?

Tanto non sarebbe mai venuto.

 

Chi siete voi?

Che fate qui?
Voi qui per me?

Voi qui perché?

(L’Ombra, Notre Dame de Paris)

 

-Natal’ja! Natal’ja!-

La ragazzina bionda della cella 272 sussultò.

Era lei, Natal'ja...

Era lei che stavano cercando.

Di nuovo quella voce...

No, non era la stessa.

Ma era più vicina...

Più reale.

Chi l'aveva chiamata ormai doveva ormai essere...

Ed era...

Davanti a lei.

Un bellissimo ragazzo dai folti e scompigliati capelli biondo chiaro e con due occhi nerissimi, di un lucente color liquirizia che non lasciava dubbi.

Aveva sedici anni, ma ne dimostrava almeno venti, e sul suo bel viso limpido brillava un sorriso malinconico che Alja non seppe interpretare.

-Feri... Tu non sei Feri... Ma assomigli a lui. Gli assomigli tanto...-

Aveva i suoi stessi lineamenti nordici, quasi scandinavi, e i suoi stessi occhi neri, intensi e luminosi, ma era biondo, e un po’ più alto, forse di due o tre centimetri.

-Sono suo fratello, Lys. Sono Csák-

-Csák...- ripeté lei, con un fil di voce.

Poi gli sorrise debolmente.

-Perché sei qui, Csák?-

-Potrai mai perdonarmi, Alja?-

Natal’ja tacque a lungo, confusa e pensierosa.

Furono attimi interminabili, quelli che Csák attese per una risposta.

Lei lo guardò con un’attenzione quasi bruciante, come se avesse dovuto dipingerlo dopo un solo sguardo, quello sguardo.

E avrebbe potuto farlo, quando distolse gli occhi dal suo volto.

Ma quando il giovane ungherese non avvertì più lo sguardo grigiazzurro della biondina su di lui, Natal’ja aveva capito qualcosa in più.

L’aveva riconosciuto.

-Csák? Sei tu?-

-Igen...- “sì”, sospirò il ragazzo, con gli occhi lucidi e le guance rigate di lacrime, chinandosi davanti a lei e cercandole e stringendole la mano tra le sbarre dalla cella.

-Ti voglio bene- disse lei, in un soffio -Grazie-

Con quel “grazie” lo lasciò senza parole.

Con la gola secca, si limitò ad annuire, e non riuscì a dirle che quel “grazie” lui non se lo meritava, e non si meritava neanche che Lys gli volesse bene.

Senza saperlo, la piccola fiammiferaia aveva appena ringraziato un traditore e graziato un condannato.

-Perché?- sussurrò infine, sfinito dal tormento di quelle emozioni.

-Sei qui- spiegò Alja, e l’istante dopo sorrise, di un sorriso luminoso che la Mërtvogo Doma non poteva più rubare né ingoiare col suo buio, perché Natal’ja Zirovskaja, anche se aveva ancora le catene ai polsi e alle caviglie, anche se la sua cella, la cella 272, era ancora chiusa a chiave, non era più una sua prigioniera.

Fu in quel momento che Alja vide Feri.

 

E tu
Tu sei arrivato
Mi hai guardato
E allora

Tutto è cambiato per me
Mi sei scoppiato dentro al cuore...

(Mi sei scoppiato dentro al cuore, Mina)

 

Un colpo al cuore, una fitta lancinante, una stella esplosa sotto la pelle.

Uno sguardo, il suo sguardo, e Natal’ja si sentì incendiare il sangue sotto le cicatrici.

Era lui, era lui...

Era il suo Feri Desztor.

-Feri...- sussurrò, incredula ed estasiata, e Csák sorrise.

-Sapevo che saresti stata contenta di vederlo. Adesso viene, adesso viene, Lys...-

Ma la piccola Siberiana scosse furiosamente la testa, colta da un sospetto.

Un altro delirio.

Non era lui.

E non solo...

Lei non conosceva nessun Feri Desztor.

Non più.

 

Vai

Ora vai
Ora, sai
Va tutto bene
Ho forti stelle
Ho chi mi dà la mano
Non ha più senso
Che stiamo insieme
Tu sei con me
Dentro me
Da quando vivo
Da quando inseguo
Tutto questo amore
Da quando piango
Da quando scrivo

Ma non c'è più tempo
 Non ho più tempo
Per seguirti ancora
Mi resta un momento
Soltanto
Per una frase sola:
“Sono grande, ora!”

(Love Song -Despedida-, Roberto Vecchioni)

 

-No-

-Come no?-

-Mandalo via-

-Lys...-

-Vai via anche tu-

-Ma perché?-

-Csák e Feri Desztor? Siete fratelli, vero?-

-Sì, sì, Alja, lo sai... Io ho sedici anni, Feri quattordici. Io sono il secondo nato, lui il terzo-

-Siete evasi... Da qui... Voi-

-Sì, tre anni fa. Te l’abbiamo raccontato-

-Eravate qui... Anche vostra madre-

-Zsófike Szebenics. È stata fucilata-

-Fucilata... Da Viktor Zarkhov-

-Sì-

-Vi manda Viktor Zarkhov?-

-No! Alja, cosa stai dicendo?-

-Andate via-

-Alja, ti prego...-

-No... Hai ragione. Non può avervi mandati Viktor Zarkhov... Voi siete i Desztor. Ricordo bene? Siete i Desztor? Siete ungheresi, voi...-

-Sì, Lys, bravissima. Ricordi tutto, sai tutto di noi-

Lys indicò Feri con un cenno del capo.

-Lui è tuo fratello?-

Csák assentì.

-Ti assomiglia-

Lui sorrise.

-Già-

-Sei contento?-

-Di cosa?-

-Di assomigliargli-

-Beh... Sì, certo-

Alja sospirò.

-Fallo venire, se vuoi-

-Lui ti vuole bene, Lys...-

Lei sembrava sofferente.

-Io non posso...-

-Non puoi?-

-Io non ho sofferto quanto lui... Quanto voi... Io non ho il diritto... Ma neanche voi... Voi siete crudeli... Non dovevate venire-

Feri fece un passo avanti, e Lys sbarrò gli occhi.

-Non ti avvicinare... Io credevo che tu mi volessi bene...-

-Io ti voglio bene, Alja!-

-Perché vuoi farmi questo, Feri? Vai via...-

Il quattordicenne ungherese si voltò verso Kolnay, che studiava la situazione pochi passi dietro di lui, sorpreso ma abbastanza tranquillo.

-Papà, cosa le hanno fatto?!-

Feri era disperato, distrutto, sconvolto e terrorizzato.

Se sua madre fosse sopravvissuta, sarebbe diventata come Lys?
Sarebbe diventata... Pazza?

Oh, ma perché, perché?

Lys aveva solo otto anni...

Non se lo meritava!

-Niente che tu non possa farle dimenticare, kicsi hős. Non hanno mai avuto pietà delle nostre donne.

Non preoccuparti, Feri, stai tranquillo... Sono solo deliri momentanei. Deve avere la febbre. È successo anche a te-

-Non me lo ricordo. Cosa dicevo?-

-Parlavi di lei...-

-Di lei? Di Lys?-

Kolnay annuì.

-Parlavi di un soldato greco che voleva portartela via, gli dicevi di lasciarla stare... Eri disperato, piangevi... Ma il punto è che non la conoscevi ancora!-

-Il racconto di Godulov... Ma Dmitrij non aveva parlato di nessun soldato greco!-

-Te l’ho detto, deliravi. Un soldato greco... Certo che ne hai, di fantasia, tu!-

Feri accennò un sorriso, ma era preoccupatissimo per Alja, e ignorando l’inspiegabile paura nei suoi occhi grigiazzurri, paura di lui, raggiunse Csák e gli chiese con lo sguardo di lasciarlo parlare da solo con Lys.

-Nataljetshka, sono io... Il tuo Feri, il tuo amico... Ti voglio bene come nessun altro, io-

Natal’ja lo guardò in silenzio per alcuni secondi, poi scosse di nuovo la testa.

-Voi pensate... Che io sia una stupida, vero? Solo una sciocca ragazzina... Non sono quella che pensavate... Non sono coraggiosa quanto voi-

-Sei coraggiosissima, invece! Non ho mai pensato niente di diverso da questo, Lys... Sei quasi più coraggiosa di me!-

-No... Questo mai... Forse non ho il diritto di soffrire di più di te... Ma tu non hai il diritto di farmi soffrire così!-

-Cosa stai dicendo, Lys...-

-Tu hai sofferto di più... Per tua madre... Per tre anni...-

-Ma cosa c’entra, cosa significa... Tu hai il diritto di soffrire esattamente quanto me... Quanto noi!-

-Vai... Ti prego, vai. Tu mi hai insegnato... Io starò bene-

 

Ho gli occhi tuoi
La tua voce
Gli stessi sguardi
Questo mi porterò di te
Per sempre
Ora che parti
Ora che è tardi
E non c'è più tempo
Nel tempo
Ho una strada sola
Ma dentro i miei sogni
I tuoi sogni
Sono come allora
E che voglia di vivere ancora!

(Love Song -Despedida-, Roberto Vecchioni)

 

-Non posso... Lys, non capisco...-

-Non devi. Non serve. Mi dispiace... Non posso essere tua madre... Io non sono come voi.

Il vostro dolore... Io non riesco più a sopportarlo... Ora che l’ho vissuto anch’io-

-Ce la farai. Natal’ja, mia Natal’ja, ce la farai-

-Io non sono forte quanto te, Feri... Io non ho gli occhi di tua madre... Io ho solo otto anni!-

-Non m’importa... Tu guarirai!-

Feri piangeva, piangeva più di lei.

E le stringeva la mano, ma la sua mano tremava più di quella di Lys.

Lui si era illuso di poterla salvare...

Ma lei era persa, ormai.

La Casa dei Morti le aveva rubato...

L’infanzia, la luce, la Rivoluzione.

E Natal’ja non era più Natal’ja...

Sua madre era morta davvero.

 

Mia madre dissacrata è la tua assenza
Si è capovolto il fiume, son la barca
Mia madre ricreata è la tua assenza
È lei che guida un cieco coi suoi occhi
È sulle nostre scale, la tua assenza
Quando apparivi lungo la ringhiera
Ma è un santo non riuscito, la tua assenza
L'unico santo senza una preghiera
Ma che cosa vedevi sul soffitto
Quando stringevi lacrime e parole?

(La Tua Assenza, Roberto Vecchioni)

[...]

È quasi giorno, ormai
E non ho tra le braccia che il ricordo di te...
(Il primo giorno di primavera, Dik Dik)

 

-Io non sono alla vostra altezza... Non più. Io sono morta con loro, come loro, ormai. Con tua madre e Jakòv... Come tua madre e Jakòv. Sono così bravi, gli Zaristi... A negare e strappare i diritti umani, a distruggere la nostra dignità-

Feri non avrebbe voluto farlo, ma si voltò.

Si voltò a guardare i detenuti delle celle vicine, e come vide i loro visi cerei e i loro occhi vuoti, li riconobbe, perché lui era stato come loro, un tempo.

Dal 1828 al 1831, era stato uno di loro.

Un’ombra come loro.

Pallido e pelle ossa, quasi in punto di morte.

E l’infanzia, quale infanzia?

Non se la ricordava più.

Ma lui voleva sopravvivere...

Tornare a Budapest.

Tornare a casa.

Tornare, tornare, tornare.

E vivere ancora.

 

Oh no, not I, I will survive,
Oh, as long as I know how to love, I know I'll stay alive
I've got all my life to live

 I've got all my love to give
And I'll survive, I will survive

It took all the strength

 I had not to fall apart
And trying hard to mend the pieces of my broken heart
And I spent oh so many nights just feeling sorry for myself
I used to cry, but now I hold my head up high

 

Oh, no, non io, io sopravvivrò

Oh, finché saprò come si ama, so che resterò vivo

Ho tutta la mia vita da vivere

Ho tutto il mio amore da dare

E sopravvivrò, io sopravvivrò

 

Ho usato tutte le mie forze

Non potevo crollare

E ho provato a guarire il mio cuore infranto

E ho passato così tante notti a disperarmi

Spesso ho pianto, ma ora tengo la testa alta

(I Will Survive, Gloria Gaynor)

 

Ero così spaventata, capivo meno di lui.

Lui mi guardava, mi stringeva la mano...

Lui era con me.

Lui aveva paura, era combattuto, tremava.

Lui ricordava.

Con la sua disperata impotenza, con il suo assurdo coraggio.

Nell’eco delle nostre preghiere, nel vuoto dei nostri sguardi.

Lui ricordava, io non potevo.

Io vivevo, lui riviveva.

Io lo aspettavo, io l’avevo fatto soffrire, ma io, per lui...

Avrei dovuto resistere.

Io ero Natal’ja Zirovskaja e lui era Feri Desztor.

Eravamo sempre noi...

Natal’ja e Feri della Rivoluzione.

E lo sapevo...

Era qualcosa di più forte del sangue e di più accecante dell’amore, quello che ci legava.

 

Feri Desztor, numero 0348, cella 272.

Natal’ja Zirovskaja, numero 1482, cella 272.

 

Ora
Io non ho capito ancora
Non so come può finire
Quello che succederà
Ma tu
Tu l'hai capito
L'hai capito, ho visto
Eri cambiato anche tu
Mi sei scoppiato dentro al cuore...

(Mi sei scoppiato dentro al cuore, Mina)

 

La mano di Feri sulla guancia di Natal’ja.

Le speranze di Feri nel cuore di Natal’ja.

Le porte della Fortezza di Omsk erano spalancate...

Le luci di Forradalom avrebbero distrutto la Mërtvogo Doma.

Le chiavi delle catene di Alja, le chiavi della cella 272.

Feri abbracciò forte Natal’ja.

Ce l’avevano fatta.

 

Nei corridoi stretti e bui, cadaveri di carcerieri massacrati.

Una domanda implicita.

Siete stati voi?

Un sorriso in risposta.

Per te e per Zsófike.

Per la Rivoluzione.

Ma non era finita, no...

 

-Viktor Petrovič Zarkhov!- 

Gridato come il nome di Ettore da Achille davanti alle Porte Scee, per l’ultima rivincita di Kolnay Desztor.

Passi di un uomo che correva, passi di un uomo che scappava.

All’improvviso, un muro, un grido.

-Andate via... Avete preso la vostra Natal’ja, andate via!-

Viktor Zarkhov pregava, implorava, supplicava.

Viktor Zarkhov piangeva, non sapeva più cosa fare, dove andare, chi invocare.

Viktor Zarkhov aveva capito.

-Per i miei figli, Natal'ja e la loro infanzia distrutta.

Per le due dita della mano destra di Pál, rimaste sotto la prigione crollata.

Per Dmitrij Godulov e suo fratello Igor.

Per il sangue che abbiamo pianto e sputato nella cella 272.

Per i giorni e le notti in miniera e nei campi.

Per sedici anni di matrimonio che oggi sarebbero stati diciannove.

Per i trentun anni della mia Zsófike che oggi sarebbero stati trentaquattro.

Per le nostre vite, che non valgono meno di quelle dello zar.

Per la Rivoluzione che faremo, per la guerra che vinceremo...

Perché stavolta non riuscirete a fermarci-

Trentuno, come gli anni che aveva Zsófike quando Viktor Zarkhov l'aveva fucilata.

Trentuno pugnalate.

Massacrato come le sue innumerevoli vittime, il carceriere più sadico e perverso della Mërtvogo Doma.

Massacrato da Kolnay Desztor.

Lo spietato, crudelissimo e meraviglioso Kolnay Desztor.

Non sarebbe mai stato una sua vittima, lui.

Viktor Petrovič Zarkhov, nato a Tomsk il 25 Luglio 1796.

Aveva compiuto trent’anni il giorno in cui i capi dei Decabristi erano stati impiccati a San Pietroburgo.

Tra di loro c’era anche Vasilij Iljodorovič Zirovskij, il padre di Nikolaj, lo zio di Natal’ja.   

Viktor Petrovič Zarkhov, morto ad Omsk il 1 Ottobre 1833.

Trentasette anni di assassinii legali, approvati dallo zar, perfino durante i processi, capelli neri e occhi neri usati solo per bruciare gli ultimi sorrisi dei detenuti.

Ora aveva fatto la loro stessa fine.

-Per te, Natal’ja!- gridò Kolnay, lanciando il suo pugnale insanguinato tra le mani della biondina.

-Per il tuo ottavo compleanno-

Lei lo guardò inizialmente incredula, ma un istante dopo gli sorrise.

Non aveva ben capito se il regalo era il pugnale o la morte -il massacro- di Viktor Zarkhov, ma gli era grata per entrambe le cose.

-Dzięki-, “grazie”, sussurrò, in polacco.

Lui finse di aver capito, e le fece l’occhiolino.

-Andiamo?-

-Tak-, “sì”.

-Che c’è, Alja, hai dimenticato il russo, qui dentro? Lo so che sei metà polacca, ma per me potresti usare l’altra metà?-

Lys sorrise, annuendo.

-Na pewno-, “certo”.

-Come non detto...-

Non lo sapeva neanche lei, perché continuava a parlare in polacco.

Era la prima lingua che aveva imparato alla nascita, e a volte le veniva perfino più naturale del russo.

-Przepraszam-, “scusa”, replicò, ma poi si accorse di averlo detto ancora in polacco, e le venne da ridere.

Kolnay le scompigliò affettuosamente i capelli, ricambiando il sorriso.

-Andiamo via di qui, Lys-

Prima di seguirlo, Natal’ja rivolse un ultimo sguardo al corpo esanime Viktor Zarkhov, quasi irriconoscibile, riverso a coprire il suo sangue, e fu felice di vederlo così.

Fece un passo avanti e sputò sul suo cadavere, come aveva fatto lui tre anni prima con quello di Zsófike, anche se questo Lys non lo sapeva.

Andiamo via di qui.

 

Libertà

Vita in me

Sogno in me

Libertà

(Liberi, Notre Dame de Paris)

 


Note

 

Mi sei scoppiato dentro al cuore, Mina.

Libertà, vita in me, sogno in me, libertà: Liberi, Notre Dame de Paris.

All these bells that have never not once rung out for me: Le campane che non hanno suonato per me. The Bells, Notre Dame de Paris.

Chi riparerà, chi mi ridarà la vita mia? - Isabel, Pooh.

I will survive: Io sopravvivrò, Gloria Gaynor.

 

Ed eccomi qui!

Mi ha praticamente strappato il cuore, questo capitolo.

Nel 323 abbiamo visto il punto di vista di Feri, e adesso quello di Alja.

I suoi deliri, il suo assurdo timore di non essere all’altezza dei Desztor perché loro hanno sofferto più di lei ma si sono rialzati, mentre lei non ci riesce, non subito.

Csák, che è il primo a correre da lei, il primo a vederla, il primo ad avvicinarsi, il primo a stringerle la mano.

Feri e la sua paura di essere arrivato troppo tardi, che Natal’ja sia impazzita ed abbia perso ogni speranza, che l’abbiano già uccisa dentro, che le abbiano già fatto troppo male.

La paura di aver perso sua madre per la seconda volta, e che sia morta davvero, stavolta.

Il ricordo di Lys di Jakòv Lévin e della sua tragica morte.

Il personaggio di Jakòv penso che tornerà, in questo capitolo avrei dovuto scrivere anche il momento in cui Alja va a cercarlo con i Desztor nella fossa comune della Mërtvogo Doma, ma credo che lo rimanderò a più avanti.

Il massacro di Viktor Zarkhov, il carceriere dei Desztor e poi di Alja, l’assassino di Sophie, il regalo per l’ottavo compleanno di Lys, il pugnale insanguinato di Kolnay.

Trentuno pugnalate, trentuno come gli anni che aveva Zsófike quando è stata fucilata.

Forse Kolnay è stato fin troppo crudele, ma io credo che Zarkhov se lo meritasse.

La cella 272...

E qui ci tengo a sottolineare una cosa.

272, 27 - 2, 27 Febbraio.

Il compleanno di Alja e Gee, già.

E poi, il numero marchiato sul polso di Alja...

1482.

L’anno in cui è ambientato Notre Dame de Paris, l’anno dell’Anatkh, la Fatalità.

Nulla è lasciato al caso, proprio nulla... Del resto ci sono di mezzo le Parche! ;)
Il soldato greco di cui ha parlato Feri nel delirio, prima ancora di conoscere Natal'ja... È Gee, ovviamente.
Come direbbe Riccardo Cocciante, Era già tutto previsto. ;)
Con questo concludo le note di oggi, augurandomi che il capitolo vi sia piaciuto! ;)

 

A presto!

Marty

 

 

 

 

 

 

 

  
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