Rebecca sospirò, seduta sul letto insieme alla sua migliore
amica. Non c’era altro da fare, e lo sapeva, ma voleva che
fosse Rita a rendersene conto da sola, o quella decisione avrebbe
distrutto la sua vita. Doveva essere brutale: le avrebbe fatto male, e
probabilmente Rita dopo quella sera l’avrebbe odiata per
sempre, ma sapeva di doverle forzare la mano.
- Dunque, ricapitoliamo la questione: aspetti un bambino, e hai
diciassette anni. Jeremy, il pervertito sconsiderato tuo coetaneo che
ti ha messa incinta, dice di non potersi accollare un figlio
perché è troppo giovane, perchè vuole
studiare e diventare uno stimato avvocato come quel debosciato di suo
padre, a cui ovviamente non vuole raccontare di averti
“disonorata”. Oh, non guardarmi così,
non ti ho mai nascosto quello che penso di lui e della sua famiglia! E,
tra le altre cose, sarebbe capace di dire, se tu decidessi di
scavalcarlo e chiedere aiuto ai suoi, che sei andata andata anche con
altri e che quindi il figlio potrebbe benissimo non essere suo, anzi,
che non lo è sicuramente. E, nella sua infinita ipocrisia,
non vuole che tu abortisca, nemmeno adesso che è diventato
legale e sicuro per te e non devi più andare dalla mammana
che c’è a St Helens, perché il bambino
è una vita e merita di essere vissuta; sulle tue spalle,
ovviamente, perché lui se ne lava le mani. Ah, e ovviamente
negherà anche davanti ai tuoi genitori, e stamattina quando
avete litigato ti ha anche dato della puttana e della arrampicatrice
sociale, che hai tentato in tutti i modi di circuirlo e che ti sei
fatta mettere incinta apposta per farti sposare e mantenere da uno
più ricco di te. I tuoi genitori al momento non ne sanno
nulla, e temi che tuo padre ti riempia di botte o, peggio, che ti cacci
di casa nel momento stesso in cui lo scopre. Ho dimenticato qualcosa?
–
Rita la guardava con gli occhi sgranati, da cui scendevano lacrimoni
enormi, le mani a pugno premute sulla bocca in un gesto di orrore. No,
Rebecca non aveva dimenticato nulla, ma sentirsi sbattere in faccia la
verità in quel modo faceva male, troppo male. Si
ripiegò su se stessa, poggiando la fronte sulle ginocchia, e
gemette in una maniera talmente disperata che la sua amica si
sentì salire le lacrime agli occhi.
Le ricacciò indietro con forza: no, non era lei che doveva
piangere!
- Coraggio – la abbracciò, non riusciva
più ad essere crudele con lei – Le soluzioni ci
sono, ma devi essere tu a decidere. E devi farlo qui e ora –
- Io… io lo so cosa devo e cosa voglio fare…
ma… -
- No. Niente “ma”. Vuoi tenere questo bambino?
–
La risposta di Rita, una via di mezzo tra uno sbuffo e una risata
disperata, era abbastanza eloquente, ma Rebecca voleva di
più.
- Allora, lo vuoi tenere? Sì o no? –
- No –
- Ne sei sicura? –
- Sì - Rita ricominciò a piangere – Ma
come faccio? Come arrivo in città? Non ho nemmeno la
macchina! Cosa dico ai miei genitori? –
- Non gli dici nulla. Ascolta cosa faremo: io ho la macchina e la
patente, e i miei genitori questa settimana sono in ferie. Digli che
vieni a dormire da me, così poi stanotte andiamo in ospedale
e domani pomeriggio potrai tornare dai tuoi genitori a cose fatte, e
non sapranno nulla –
- Accidenti! – imprecò Rebecca nel buio
– Adesso che diavolo è successo? –
Scese dalla macchina per l’ennesima volta e le
girò intorno, ma non aveva idea del perché si
fosse improvvisamente fermata, spegnendosi e rifiutandosi di
riaccendersi. La benzina c’era, o almeno così era
indicato sul cruscotto, ma era l’unica cosa che fosse in
grado di controllare.
Scosse la testa. Era inutile, non sarebbe ripartita.
- Qui non si può far nulla –
- Oh cielo, Rebecca – gemette Rita dal sedile del passeggero
– E adesso cosa facciamo? Siamo a metà strada, ci
metteremo un’eternità a tornare
indietro… -
Rebecca sospirò. C’era una sola cosa da fare.
- Chi ha parlato di tornare indietro? – sorrise –
Va bene, la macchina è andata, ma le nostre gambe no.
Cammineremo fino in città, in un paio di ore sono sicura che
ci arriveremo, troveremo un autobus che ci porterà in
ospedale e domani mattina prenderemo il treno per tornare. Su, vieni!
– e ostentendo una sicurezza ed una serenità che
non provava, aiutò l’amica a scendere dalla
macchina e si avviarono a piedi.
- Basta! Basta! BASTA! Non vi voglio più vedere! –
Paul McCartney uscì dallo studio di registrazione sbattendo
la porta. Lo raggiunse attutita la voce di Ringo, che ancora urlava:
- Bravo, vattene! Comportamento maturo, complimenti! –
Paul non lo ascoltò. Salì in macchina e mise in
moto immediatamente. La sua fedele Aston Martin rossa si
infilò in strada e partì velocissima, obbedendo
alla volontà del suo autista, che premeva
sull’acceleratore con tutto il proprio peso, cercando nella
velocità lo sfogo a tutta la sua rabbia e la sua
frustrazione.
Rallentò solo dopo parecchi chilometri, quando si accorse di
essere uscito dalla città e di essere finito in campagna, in
strade prive di illuminazione e strette. D’accordo che era
nervoso, ma non voleva ritrovarsi in uno di quei campi solo
perché aveva litigato con gli altri.
Chissà poi dove diavolo era finito… Le stradine
di campagna al buio sembravano tutte uguali, ma era abbastanza sicuro
di aver svoltato a sufficienza per essere di nuovo in direzione di
Liverpool. Non ne era sicurissimo, però…
La sua attenzione venne attratta da due figure che camminavano sul
ciglio della strada. Avvicinandosi ulteriormente, si accorse che erano
due ragazze sole; non era certo dell’ora, ma era sicuro che
fossero passate abbondantemente le tre del mattino, e si
domandò se quelle due non fossero
“passeggiatrici”, anche se sembrava che fossero
parecchio lontane da qualunque possibile cliente.
Avvicinandosi, si accorse che non avevano assolutamente
l’aria delle donne di strada; anzi, sembravano
smarrite…
Obbedì ad un istinto e, avvicinandosi, rallentò e
si affiancò a loro, allungandosi per abbassare il finestrino
dalla parte del passeggero:
- Ehi, ragazze – le chiamò – Tutto bene?
–
Gli parvero entrambe esauste. La biondina, in particolare, sembrava non
riuscire più a stare in piedi.
- Sì, grazie – gli rispose sostenuta
l’altra, capelli mori e sguardo fiero – Non abbiamo
bisogno di nulla –
- Dove state andando a quest’ora del mattino lungo una strada
deserta? –
- Non sono affari suoi. Vada per la sua strada, che noi andremo per la
nostra –
Paul fu sorpreso di sentirsi apostrofare così, e gli fu
evidente che la pochissima luce aveva impedito alle due ragazze di
riconoscere il loro interlocutore.
Improvvisamente la bionda si voltò e si chinò,
appogginadosi le mani sulle ginocchia. La sua amica la sostenne e le
tirò indietro i capelli. Il rumore fu inequivocabile: la
ragazza stava vomitando.
- Forse lei potrà anche andare per la propria strada
– ricominciò Paul non appena la situazione parve
migliorata – ma la sua amica non sembra stare molto bene.
Andiamo, vi accompagno io, ovunque vogliate andare. Anche se preferirei
accompagnarvi in un ospedale. Non sono molto pratico di queste
stradine, ma credo che ce ne sia uno poco distante, appena dentro il
confine del centro abitato di Liverpool. A piedi ci mettereste una
vita, io vi ci posso portare un meno di un quarto
d’ora… -
La ragazza esitò, poi guardò l’amica:
era pallidissima, sembrava stesse per svenire.
- D’accordo – si chinò ed
afferrò una pietra piuttosto grossa – ma io mi
siederò dietro, e se ti azzardi a fare anche un solo passo
falso, giuro che ti ammazzo come un cane –
- Va bene, va bene – sollevò la sicura –
Salite –
Le due ragazze entrarono in macchina; la bionda, sedutasi davanti, non
appena appoggiò la testa al sedile si laciò
andare ad un sospiro di stanchezza e di sofferenza.
- Grazie – disse soltanto, voltando appena la testa per
guardarlo mentre metteva in moto. Nel buio era solo una sagoma scura,
ed era impossibile vederne i lineamenti.
Si avviarono nel silenzio, fino a che Paul lo trovò troppo
pesante per i propri gusti:
- Allora, posso sapere quali sono i vostri nomi? –
- Io mi chiamo Rita – rispose quella accanto a lui
– e lei è la mia amica Rebecca –
- Il mio nome è Paul, piacere di conoscervi. Cosa vi porta
su questa strada così deserta e persa nel nulla? –
- Potremmo farti la stessa domanda – ribattè
Rebecca, ancora scontrosa. Paul scoppiò a ridere:
- Avete ragione! Beh, la mia storia è parecchio semplice:
ero… a casa di un amico, eravamo in quattro, abbiamo
litigato per una sciocchezza e sono venuto via furibondo. Sono montato
in macchina e ho guidato il più velocemente possibile per
farmi passare il nervoso, prendendo direzioni e strade a caso, fino a
che non mi sono accorto di essere finito in aperta campagna. Quando vi
ho incrociato stavo tornando indietro –
- Come vorrei – sospirò Rita – che la
nostra storia fosse così semplice e lineare… -
- Rita… - la ammonì Rebecca – Non
sappiamo nemmeno chi sia questo, non credo che sia il caso di
sbandierare la tua situazione ai quattro venti –
- Tranquilla – sorrise Paul – non voglio sapere a
tutti i costi gli affari vostri, soprattutto se si tratta di cose
delicate; se è un problema per voi parlarne, allora non
voglio sapere nulla. Guardate, queste sono le prime case di Liverpool,
tra poco più di cinque minuti siamo arrivati
all’ospedale, come vi avevo promesso, se preferite possiamo
anche trascorrerli in silenzio –
In quel momento incrociarono un camion, e le luci dei fari illuminarono
l’interno dell’abitacolo, strappando un urlo a Rita.
- Oddio, oddio, oddio – esclamò, agitatissima
– McCartney! Tu sei Paul McCartney! – si
voltò improvvisamente verso la sua amica, dando un colpo al
braccio di Paul, che teneva il volante.
- Ehi! – protestò lui, dopo aver ripreso il
controllo del mezzo – Attenta, o finiamo fuori strada!
–
- Rebecca, è Paul McCartney! Quello dei Beatles! –
urlava Rita, senza nemmeno averlo sentito – Oddio, oddio,
oddio! –
- Per l’amor del cielo, stai calma! – la
richiamò Paul, ma lei era troppo agitata e continuava a
muoversi a scatti e a urlare frasi sconnesse.
Paul era talmente preoccupato che i continui colpi di lei lo mandassero
fuori strada, che non si accorse del semaforo che diventava rosso, e
prosegì la sua strada nell’incrocio.
Un clacson fu l’ultima cosa che sentì, prima
dell’urto.
- Dannazione! – esclamò Frank, saltando
giù dall’abitacolo del camion, cercando di capire
nella penombra dei lampioni che danni avesse il proprio mezzo
– Cosa diavolo gli ha preso, a questo? Passare a tutta
velocità con il rosso, ma è…?
– si interruppe, vedendo le conseguenze
dell’incidente sull’auto che aveva colpito: si era
schiantata contro un albero piantato sul marciapiede, il guidatore
aveva sfondato il parabrezza con la testa, che aveva evidentemente poi
sbattuto contro l’albero, in una posizione innaturale, ed ora
era accasciato su quel che rimaneva del cofano, le gambe sul volante
piegate in un angolo opposto a quello che avrebbero dovuto avere; la
portiera dalla parte del passeggero era spalancata, e un corpo di donna
ne era stato sbalzato fuori per metà, riverso sulla strada
in una macchia di sangue che si stava allargando velocemente.
- Oddio… - esalò, spaventatissimo.
- Che è successo? – la voce di una signora anziana
arrivò dalla finestra di una casa che affacciava
sull’incrocio.
- Signora! – gridò allora Frank, molto vicino al
panico, correndo verso la macchina – Chiami immediatamente la
polizia ed una ambulanza! E in fretta! – avvicinandosi, gli
fu fin troppo evidente sin da subito che per il guidatore non ci fosse
nulla da fare, la torsione del collo non lasciava alcuna speranza,
quindi non pose attenzione a lui, ma si chinò sulla donna
riversa sulla strada; un gemito uscì dalle sue labbra quando
si accorse di quanto fosse giovane, e che il cuore non batteva
più.
Percepì un innaturale calore e si voltò verso il
motore. Dalla apertura distrutta del cofano fuoriusciva del fumo:
l’auto stava per prendere fuoco.
Si rialzò per allontanarsi, quando scorse una figura sul
sedile posteriore: un’altra ragazza era a bordo di
quell’auto!
Non poteva lasciarla lì, se l’auto si fosse
incendiata per lei non ci sarebbe stato nulla da fare…
sempre se era ancora viva…
- Signorina! Signorina! – iniziò a chiamarla e a
battere furiosamente contro il finestrino, ma la ragazza non diede
segni di vita. Il fumo diventava sempre più denso, doveva
fare in fretta. Afferrò un pezzo di lamiera e lo
sbattè contro il vetro finchè non si infranse; si
allungò all’interno dell’auto
finchè riuscì ad afferrarla, ed iniziò
a tirarla verso di sé. Fu una fortuna che fosse
così magra, così che potè estrarla
senza troppa fatica dal finestrino rotto.
La prese in braccio e si allontanò velocemente, raggiungendo
il proprio camion prima che l’auto prendesse davvero fuoco.
Si sedette sul bordo del marciapiede, tenendo la ragazza sempre tra le
braccia, e sospirò di sollievo quando si accorse che
respirava, anche se a fatica.
Dopo pochi secondi sentì una sirena che si avvicinava.