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Autore: Flaqui    02/08/2012    11 recensioni
"Vincere significa fama e ricchezza.
Perdere, invece, significa morte certa.
Niente di più.
Ma vincere, perdere, non cambia molto. Se perdi muori. Se vinci, vivi. Ma vivi senza speranza, assillato da incubi che ti tortureranno e ti faranno impazzire, togliendoti il sonno.
Quanto sei disposto a perdere?"
Quando Rose viene scelta per partecipare alla trentaquattresima edizione dei Giochi della Fame, sa benissimo di aver firmato la sua condanna a morte. Ognuna delle dieci scuole magiche europee deve sorteggiare, ogni anno, due studenti, una ragazza e un ragazzo, fino alla maggiore età; questi verranno gettati in un arena a combattere fino alla morte.
Rose sa benissimo che non riuscirà a farcela. Ma ha promesso che farà di tutto per tornare a casa, e non intende arrendersi.
In squadra con lei c'è anche Scorpius, un ragazzo gentile che però non ha la stoffa per farcela. Lui vuole dimostrare di non essere una inutile pedina e fa una appassionata dichiarazione davanti alle telecamere di mezzo mondo. Ma nei Giochi della Fame non c'è spazio per l'amore, per l'amicizia e per i sentimenti.
Che i Giochi della fame abbiano inzio.
E possa la buona sorte essere sempre dalla vostra parte!
Genere: Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Severus Potter, Lily Luna Potter, Rose Weasley, Scorpius Malfoy, Victorie Weasley
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'La Buona Sorte -Il Fuoco Sta Divampando-'
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Capitolo VIII
Direi che possiamo anche finirla qui.

 

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La mattina dopo la parata di inizio mi sveglio di colpo, come se qualcuno mi avesse lanciato un gavettone pieno d’acqua in pieno viso. Rimango per un attimo immobile, le coperte arrotolate sul fondo del materasso, il petto che si rifiuta di abbassarsi normalmente.
Mi ci vuole un po’ per convincermi a sollevare il busto e lanciare un’occhiata intorno, osservando un po’ meglio la mia nuova camera; ieri sera, dopo i festeggiamenti che hanno seguito la fine della sfilata, la visualizzazione dei filmati girati dalle mosche-spie per i Cartelloni-Magici e il brindisi in onore di una Dominique brillante come i suoi costumi, ho avuto a malapena le forze di trascinarmi nel mio appartamento, di sfilarmi il mio costume con le fiamme – che ora sembra quasi fissarmi dalla poltrona in velluto verde sulla quale l’ho abbandonato - e di gettarmi sul letto.
Ma ora che sono sveglia e non devo scendere a colazione – Rachel mi ha detto che la mia presenza è gradita per le sette, e al momento la mia sveglia segna le sei e venti - decido che posso concedermi di fare le cose con calma. 
Con un sospiro mi stiracchio le braccia e scalcio via contemporaneamente le coperte e i rimasugli di stanchezza, postumi dell’effervescenza che mi ha colpito ieri. Faccio una breve doccia e, quando esco dal bagno, indosso dei jeans e una semplice maglietta blu che sono stati poggiati con cura sulla poltroncina verde, gemella di quella dove ho lasciato il mio vestito di ieri. Che strano, avrei giurato che qualche secondo prima non ci fosse niente, lì sopra.
Scuoto la testa e decido si fare un giro di perlustrazione del mio appartamento. La camera è, come ormai sono abituata a constatare viste le esperienze degli ultimi giorni, estremamente lussuosa. È arredata con mobili antichi e le pareti sono di un bel verde scuro e cupo, così come le tende, il copriletto e la pelle delle poltroncine e del divanetto. C’è una bella scrivania in quello che, a prima vista, sembra essere mogano – non so se è mogano, ma visto quanto la superficie è lucida e scura, arrischio questa ipotesi - e su di essa sono posati alcuni dei pochi oggetti che mi sono portata da casa: la spilla con la fenice che mi ha regalato Mary, la coroncina fiammeggiante che completa il vestito di ieri e un biglietto segnato da una grafia elegante che mi avverte che potrò usufruire dell’intera giornata per prepararmi mentalmente e fisicamente agli allenamenti che si terranno il giorno seguente.
Il piccolo salottino adiacente alla mia camera da letto è arredato a sua volta con mobili dall’aspetto pregiato e lussuoso. Sul tavolino basso di legno, circondato da alcune poltrone e da un divanetto, sono poggiate diverse miniature in cristallo che rappresentano diversi esseri e animali fantastici. Mi accovaccio sul tappeto persiano e osservo affascinata il modo in cui la prima luce del mattino, ancora debole e fioca, proveniente dalla finestra si infrange contro il vetro, dando alla sostanza trasparente particolari sfumature colorate. È mentre sono intenta ad osservare i deliziosi particolari del bellissimo viso di una Pixie di cristallo che mi accorgo dei quadri.
Appesi alle pareti rosse della stanza ci sono tanti, tantissimi quadri. I soggetti dei dipinti dormono ancora, posso vedere i loro petti abbassarsi e rialzarsi piano. Sotto ogni quadro c’è una targhetta bianca su cui, probabilmente, è segnalato il nome della tela. Lascio con cautela la miniatura sul tavolino e mi avvicino al muro. Osservo con attenzione i primi quadri, la maggior parte dei quali rappresentano tizi vestiti con abiti d’altri tempi, in pose scomode, che russano della grossa, in un mirabile contrasto con il contesto in cui si trovano. E poi ancora bambini, giovani donne che sospirano, piangono, si affacciano alla finestra, animali babbani e fantastici, creature mistiche e personaggi famosi, tutti addormentati.
L’ultimo quadro che mi ritrovo ad osservare è quello che mi colpisce di più. La targhetta posta sotto la tela lo denomina come “Il Bacio” e rappresenta due giovani innamorati che si baciano appassionatamente sulla gradinata di una chiesa, in quello che deve essere il crepuscolo di un giorno ventoso – lo si capisce dalla poca luce e dal movimento continuo dei vestiti, mossi da una brezza inesistente. O almeno penso che quando siano “in servizio”, questi due si bacino visto che, al momento, sono profondamente addormentati.
Mi ci vuole un po’ per capire per quale assurdo motivo questo quadro, di certo non il più bello che abbia visto in questa enorme stanza, mi abbia colpito tanto. Poi, però, mentre osservo il modo in cui i due protagonisti sono addormentati, seduti sulle scale, lei con la testa abbandonata sulle spalle di lui e lui con il braccio a cingere la vita di lei… beh, mi sento in pace con me stessa. Perché, per un attimo, mi è sembrato di rivedere Victorie e Ted, felici e innamorati nel giardino della Tana, prima che lei venisse sorteggiata per i Giochi. Perché, magari, da quando sono qui a Royàl avrò visto tante cose strabilianti e ricche di sorprese ma, alla fine, è rassicurante ritrovare qualcosa di conosciuto come l’amore.
Mi avvicino ancora di più al dipinto, osservandone i dettagli che, alla prima occhiata, mi erano sfuggiti. Il vestito lungo fino ai piedi di lei, i pantaloni scuri di lui, l’espressione rilassata di entrambi. Il mio naso, ormai, quasi sfiora la tela.
«Non ti consiglierei di avvicinarti così tanto. Lei sembra gentile e delicata, ma le sue urla si sentono a distanza di chilometri» 
Una voce nel buio tenue della mattina presto si sparge per la stanza, acuta e squillante quanto basta per farmi sobbalzare violentemente.
Mi allontano velocemente dal quadro dentro il quale la ragazza, quasi avesse capito di essere lei l’oggetto della conversazione, si agita per qualche secondo contro la spalla del suo ragazzo prima di rilassare di nuovo il viso dai tratti delicati. Giro più e più volte la testa, alla ricerca del qualcuno che mi ha così gentilmente avvertito sui rischi a cui andavo incontro svegliando povere fanciulle indifese, ma la stanza si presenta ai miei occhi così come l’avevo lasciata pochi minuti prima della mia esplorazione dei quadri: completamente vuota. 
Perlustro bene ogni angolo e, dopo che nemmeno tale ricerca sembra dare i suoi frutti, inizio seriamente a pensare che la stanchezza possa avermi fatto un brutto scherzo. Sto per riavviarmi in camera da letto quando la stessa voce, questa volta in tono meno allarmato, risuona nuovamente intorno a me.
«Ehi, sono qui! Devi solo girarti verso la porta del salone!»
Con la strana sensazione di vivere in un assurdo sogno, faccio un mezzo giro e mi ritrovo a fissare la porta in legno che fa comunicare il salone ad uno stretto corridoio, di poco nascosto dalla libreria. Mentre mi avvicino a passi cauti e leggeri alla sporgenza costituita dalla rientranza di una delle colonne portanti, penso che se la voce non mi avesse nuovamente chiamata, non avrei mai identificato quella particolare conformazione della stanza.
In un primo momento continuo a non vedere niente, poi, però, due paia di occhi marroni si spalancano di botto e, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, mi ritrovo a fare un balzo all’indietro. È una ragazza. Ha i capelli castani che le ricadono disordinatamente sulle spalle, sulla fronte e che sono stati inutilmente fermati dietro le orecchie a sventola. Il sorriso smagliante che mi rivolge, però, basta a compensare la sua aria piuttosto svampita e assente, tipica delle persone che passano il loro tempo più sulle nuvole o in mondi fantastici che sulla terra. È giovane, al massimo le darei qualche anno in più di me. Quanto James e Dominique, per intenderci. È alta, o almeno, la mia mente la immagina piuttosto alta perché la cornice che la contorna e che si ferma all’incirca a metà busto, è posizionata ad una decina di centimetri più in alto di me. Vista da qui sembra quasi che si stia affacciando da una finestra, le braccia incrociate all’altezza del petto e il viso rivolto in avanti, come una dirimpettaia curiosa che spia le tue buste della spesa e le tue compagnie quando, ritornando a casa, passi davanti al suo giardino.
Rimango a fissarla con quella che ritengo essere un’espressione di sorpresa per qualche istante, poi però viene da sorridere anche a me e allora lo faccio.
«Ciao» esclamo, cauta.
«Ciao!» risponde lei, il sorriso che si allarga sempre di più «Scusami se ti ho spaventata prima, ma non potevo rischiare che l’ochetta si svegliasse. Non la sopporto, davvero» 
Socchiude un po’ gli occhi e arriccia la bocca in una smorfia esasperata, poi però, prima che io possa anche solo pensare di aprire la bocca, attacca a parlare con voce allegra e con un ritmo rapidissimo: «Io sono Stephanie, piacere. Ti darei la mano ma, come vedi, non posso. Oh, con questo non intendo farti notare il fatto che sono un quadro, davvero! Quindi non sentirti in soggezione a parlare con me, sul serio! A me va bene essere un quadro, è una posizione rispettabile, meglio di molte altre in questa società, non credi? Insomma i quadri sopravivvono a tutto: alle guerre, all’usura, all’odio, al rancore… alle persone…»
La voce squillante per tutto il discorso si interrompe di botto e per un attimo il suo sguardo perde la scintilla allegra e rimane vuoto e spento. Stephanie sembra quasi persa in contemplazione di un qualcosa di inesistente prima che, con un veloce cenno del capo, riprenda possesso delle sue facoltà mentali e mi chieda, con la stessa baldanza di poco prima, il mio nome e il motivo per cui mi trovo lì.
«Mi chiamo Rose Weasley. Sono il tributo inglese per i Giochi della Fame di quest’anno» 
Per un momento mi chiedo se ho fatto bene a dare per scontato che lei conosca i Giochi. Ma dopotutto, mi dico, lei sembra essere qui da un po’ e i quadri sanno sempre tutto di tutti.
Capisco che sa davvero di cosa sto parlando quando la sua fronte si aggrotta e la sua espressione cambia nuovamente. È estremamente seria, ora. Non energica ed entusiasta, né drammaticamente segnata, come poco prima. Immagino che sia piuttosto lunatica e umorale per riuscire a cambiare atteggiamento ed espressione così velocemente.
«Capisco» dice senza smettere di cercare il mio sguardo «Speravo fossi la cameriera»
«Non lo sono» esclamo, piuttosto infastidita. Sembro una cameriera? Ho l’aria di una cameriera? Dunque è per questo che ha attaccato bottone? Perché voleva che le spolverassi la tela o le lucidassi la cornice. Lei mi lancia uno sguardo obliquo piuttosto triste e comprensivo e una parte di me si chiede se quello che intendesse dire non fosse che sperava io fossi una cameriera perché la cameriera non sarebbe destinata a morire in uno spettacolo da circo.
«Non lo sono» ripeto, più dolcemente questa volta «Sarebbe stato meglio che lo fossi, a dirla tutta» ammetto.
Lei annuisce e fa un sorrisino mesto «Sì, in effetti. Ma non preoccuparti, sono sicura che hai ottime possibilità per farcela! Chi è il tuo mentore?»
«Victorie Weasley»
Nei suoi occhi passa un lampo che non riesco ad identificare, poi la sua bocca si costringe in un sorriso forzato e mi ritrovo a sapere, ad avere la certezza che quello che sta per dirmi è una bugia.
«Oh, non la conosco. Ma sono sicura che hai comunque molte possibilità di vittoria. Non disperare!»
«Oh, Stephanie» penso mentre contraccambio il sorriso e osservo con la coda dell’occhio l’orologio appeso alla parete «non sai decisamente mentire»

Stiamo aspettando che qualcuno in questo enorme palazzo si ricordi di noi, povere bestie da macello che, dopo aver subito le angherie di una donna dalla parrucca gialla esaltata dalla prospettiva di avere finalmente due tributi con un minimo di potenziale, sono state confinate in questa strana stanza dalle pareti a pois colorati, ma ormai ho perso le speranze.
Scorpius, seduto su uno dei divanetti color arcobaleno che arredano la stanza, giocherella con un braccialetto di corda che porta al polso e fischietta un motivetto allegro che, a lungo andare, mi da davvero sui nervi.
«La finisci, per la miseria?!» esclamo, dopo che al terzo ritornello Scorpius ricomincia la melodia.
«Hai per caso altro da fare?» chiede con la sua solita aria da “sono figo e lo so” «Siamo piuttosto nervosette, oggi, eh? Perché sei così sclerotica?»
«Fatti miei» rispondo, piuttosto sgarbatamente.
«Oh, giusto. Sono cose private. Potevi anche dirlo prima che eri in quel periodo del mese» 
Scorpius sorride così tanto che, per un attimo, la sua testa sembra essere oscurata dalla sua bocca larga. In effetti, ora che lo osservo bene, ha davvero la bocca larga. Non mi ero accorta di questo piccolo difetto. Lui continua ad annuire convinto, come se con la sua mente superiore fosse riuscito a raggiungere la tanto agognata soluzione. Peccato sia quella sbagliata.
«Perché voi maschi, ogni qualvolta una ragazza vi risponde in un modo che non reputate carino e alla vostra altezza, dovete pensare che abbia “le cose”? Il che, fra l’altro, farebbe supporre che io abbia il ciclo ogni santissimo giorno per tutta la mia lunghissima vita. Non sono in quel periodo del mese, se proprio ti interessa»
«Certo, certo» Scorpius fa ciondolare la testa in modo accondiscendente, cosa che mi fa innervosire ancora di più, e riprende a fischiettare.
Con un sibilo di protesta affondo la testa in uno dei morbidissimi cuscini che completano l’arredamento della stanza e cerco di calmarmi. In effetti, anche se faccio fatica ad ammetterlo anche a me stessa, il fatto che Scorpius abbia pensato che io avessi le mie cose non è poi così insolito. Non so per quale motivo, ma dopo che Rachel, a colazione, ci ha annunciato che oggi inizieremo i nostri allenamenti individuali – delle prove a porte chiuse che ci faranno da preparazione ai veri allenamenti con gli altri concorrenti -, mi è salito un groppo allo stomaco e non sono più riuscita a mandare giù nulla.
Il punto è che, maledizione, non mi sento pronta. Io… io non so fare nulla. Ok, vado bene a scuola, prendo sempre ottimi voti in Incantesimi e in Difesa Contro le Arti Oscure, so praticare con risultati discreti molti incanti, alcuni anche abbastanza complicati e ho un innato senso di autoconservazione, abbastanza raro da trovare in un Grifondoro, ma alla fine tutto questo non conta. Perché quando scenderò nell’arena, non sarà come a scuola. Perché a scuola, quando un esercizio non ti viene al meglio, puoi sempre riprovare il giorno dopo. Perché a scuola puoi contare sull’aiuto di un insegnante, di altri compagni, sulla fortuna e sul non essere interrogato. Ma in questa condanna a morte che ci è stata riservata non ci sarà nessuna possibilità di ripetere, nessun secondo tentativo sarà accettato. E sarai solo tu, la tua bacchetta, la tua paura, le tue ferite e i tuoi incubi, contro la morte.
La porta della stanza si spalanca all’improvviso facendomi aprire gli occhi di botto e, finalmente, chiudere la bocca a Scorpius, che, ancora giocherellando con il suo braccialetto, interrompe il suo fastidioso fischiettio e drizza la testa.
«Buongiorno raggi di sole!» cinguetta una voce alle mie spalle.
Sulla soglia, dietro l’ingombrante presenza di Rachel - che occupa circa tutta la porta con la sua pelliccia di un qualche strano animale dal pelo verde e la sua parrucca voluminosa che mi ricorda quella che indossavano i Babbani in quelle foto degli anni 50 che mi ha fatto vedere mamma - c’è un uomo. In un primo momento non lo noto nemmeno, presa come sono a cercare di calmare i battiti accelerati del mio cuore. Poi però, Rachel fa un baldanzoso saltello in avanti e riesco a distinguerlo con chiarezza. 
«Finalmente ci siamo, tesorini! Ora vi presenterò l’uomo che, per i prossimi tre giorni, sarà il responsabile dei vostri allenamenti individuali e che sarà a disposizione anche per i successivi cinque giorni, in cui vi allenerete con gli altri, per delle sessioni private o di coppia. Caramelline, lui è Derek Waywood»
Derek, che nonostante l’espressione dura e la muscolatura molto sviluppata sembra piuttosto giovane, circa sulla trentina, non dice nulla e si limita a fissarci con un espressione vuota e piuttosto significativa allo stesso tempo. Ha i capelli cortissimi, la carnagione abbastanza scura e indossa una maglietta nera a maniche corte che fa risaltare i muscoli del petto e delle braccia.
Non so per quale assurdo motivo ma, se dovessi dare una faccia ad un assassino o mercemago, darei loro il suo volto. Ha qualcosa di poco raccomandabile nell’aspetto e nella postura, ma, allo stesso tempo, vederlo così, sicuro e posato anche nel bel mezzo di questa assurda situazione, mi tranquillizza. Sento improvvisamente di potermi fidare di lui. Se è un assassino saprà come si uccide. E a me serve solo sapere come si fa – e come non provare rimorso o essere tormentata da ricordi per sempre - per sopravvivere. 
Scorpius, accanto a me, è scattato in piedi come se lo stare seduto davanti ad una figura maschile come quella di Derek possa, all’improvviso, averlo messo a disagio. Ma forse è solo una di quelle solite sceneggiate fra uomini, in cui si mettono in mostra come pavoni, tirando fuori le loro penne e dimostrando – con intimo terrore - di non essere impauriti dall’avversario.
Quando Rachel finisce di parlare cade un improvviso silenzio che persiste per un po’, visto che né io né Scorpius né tantomeno il nostro allenatore sembriamo intenzionati a presentarci senza essere costretti. In compenso il gioco di sguardi e di piccoli movimenti del capo – Derek scuote impercettibilmente la testa in avanti - e di piedi – Scorpius molleggia nervosamente da un piede all’altro -, mi fa improvvisamente pensare al gioco dello Shangai, un gioco babbano in cui ogni bastoncino deve incanalarsi alla perfezione con gli altri per impedire il crollo.
Qui è lo stesso. Basta uno sguardo mal interpretato o un gesto che nel linguaggio del corpo possa essere frainteso e la strana sensazione di rispetto e cautela che si è formata al momento rovinerà sul pavimento accanto alle scarpe verdi a punta di Rachel.
È proprio quest’ultima che alla fine interrompe il nostro gioco silenzioso schiarendosi la voce. 
«Bene, immagino che il signor Waywood voglia portarvi nella palestra riservata al nostro piano» 
Si gira con un’espressione interrogativa verso il nostro istruttore e quando lui si limita a un cenno con il capo e ad infilarsi le mani in tasca tranquillo, si rivolge nuovamente verso di noi: «Fate bene attenzione a tutti i suoi insegnamenti, dolcetti. Potrebbero essere l’unico modo per rimanere vivi, nell’arena»
Poi, dopo aver sorriso in modo smagliante e finto come suo solito, si aggiusta il colletto della pelliccia – mi chiedo come faccia a non morire di caldo con tutti quei chili di pelo addosso - e, sbattendo i tacchi con un rumore cristallino, si avvia nel lungo corridoio.
Appena la porta si chiude, Derek fa un passo in avanti così velocemente da apparirmi indistinto e si getta contro Scorpius, cercando di colpirlo con un pugno. Il mio compagno si getta per terra, rotolando giù dal divano ed evitando per un soffio la collisione. Quando si rialza, con un’espressione sconvolta e irritata allo stesso tempo in viso, Derek è chino su di lui, ad offrirgli una mano per rialzarsi.
«Hai dei buoni riflessi, ragazzino. Ma dobbiamo lavorare sull’atterraggio» esclama mentre il mio compagno scaccia via infastidito la sua mano e si tira in piedi da solo. Quando è ormai alzato, scocca un’occhiataccia a Derek che, d’altro canto, si è girato verso di me e mi sta squadrando con un sopracciglio inarcato.
«E tu tesorino? Che cosa sai fare?» chiede, e la sua voce vagamente ironica mi fa improvvisamente venire voglia di afferrare la bacchetta e schiantarlo contro le pareti eccessivamente colorate di questa stupida stanzetta.
«Quello che è necessario per mandarti all’altro mondo» rispondo, anche se dentro di me qualcosa trema e la sensazione che ho provato quando l’ho visto per la prima volta, di affidamento e simpatia, viene largamente sostituita da un odio profondo e accecante.
«Uh, sei una tosta, eh?» chiede, e se non avesse quel sorrisetto di scherno che sembra quasi farmi il verso in bella mostra sul viso, potrei anche perdonarlo. Mi limito ad indurire i lineamenti del mio viso e incrocio le braccia. Scorpius, corrucciato quanto me, mi si accosta e ora siamo in due a fronteggiare la nostra unica speranza di sopravvivenza, con gli occhi che mandano scintille.
Derek, d’altra parte, non sembra minimamente preoccupato dalla piega che la situazione sta prendendo anzi, a giudicare dal sorriso radioso che gli si apre in volto, la cosa lo diverte. Ci fissa per un po’, poi, quando nessuno di noi due distoglie lo sguardo, scoppia a ridere in una risata strascicata che sembra quasi il latrato di un cane.
«A quanto pare mi hanno dato una coppia di combattenti, quest’anno!» ride «Bene, allora, credo che andremo piuttosto d’accordo. Seguitemi»
Spalanca la porta della stanza e si avvia in corridoio a grandi passi. Sento che sta dicendo qualcosa ma, non so come, il mio cervello sembra incapace di registrare qualsiasi altra cosa oltre al battito accelerato del mio cuore. Lo sento che mi pulsa nelle orecchie.
“È tutto vero” mi dice il mio cuore mentre continua a battere forte “Sei davvero qui. Devi davvero imparare a combattere. O morirai. Morirai come muore una mosca, Rosie. Devi darti da fare. Reagire. Restare viva.”
Che strano. La voce che mi parla nella testa è la stessa che ieri mi supplicava di non prendere la mano di Scorpius sul carro. È familiare, in un certo senso. Come quando rispondendo al tuo I-Magic passa qualche infinitesimale secondo prima che tu capisca con chi stai parlando. A di Attenzione continua a scandire nella mia mente ordini e suggerimenti su come seguire l’allenamento, sul farmi amico Derek, su come battere Scorpius sul suo stesso terreno.
È in quel momento che mi accorgo che anche il vero Scorpius, molto più vicino a me di quello ricreato dalla mia immaginazione – che al momento sorride malvagiamente nella mia testa - sta parlando. Lo fisso senza capire, cercando di concentrarmi sulle sue parole, ma le uniche cose che noto sono le sue labbra rosate – così chiare in confronto alle mie e, allo stesso tempo, così scure rispetto alla sua pelle - che si aprono e si chiudono in una ordinata successione.
«Rose?» Scorpius schiocca le dita davanti ai miei occhi e capisco di essermi di nuovo persa nei miei pensieri. Mi sta capitando troppo spesso ultimamente. È come se la mia mente, sapendo che ben presto morirò, si sia decisa a lavorare più del solito. Peccato che questo mi distragga dalle poche informazioni che mi sono date per tentare di restare viva.
«Si?» chiedo a Scorpius che intanto mi ha afferrato il braccio e mi sta spingendo fuori dalla porta. Non so per quale assurdo motivo, sarà che forse davvero mi stanno per arrivare “le mie cose”, ma sono molto più suscettibile del solito e Scorpius mi irrita ancora di più di quanto faccia normalmente.
Lui mi lancia uno sguardo piuttosto risentito e lascia il mio braccio «Beh, dobbiamo andare, non pensi? Non credo che sarebbe molto contento se dopo tutto il discorso della “coppia di combattenti” arrivasse in palestra, si girasse e non ci trovasse»
Annuisco mentre l’irritazione sale sempre più dentro di me. Mi sento arrabbiata senza un vero motivo apparente.

***


La palestra è una sala enorme dove, oltre ad alcuni attrezzi babbani – li riconosco in quanto identici a quelli che usavo alla scuola babbana che ho frequentato fino agli undici anni -, sono presenti diversi strani oggetti che coinvolgono animali fantastici, manichini animati armati di bacchetta con cui esercitarsi a duello, specchi dalle strane proprietà che, se fissati a lungo, distorcono la realtà che ti circonda e, soprattutto, uno strano armadio che si agita al limitare della sala.
Derek, che ovviamente è arrivato prima di noi, è davanti a quest’ultimo a braccia incrociate; fissa la soglia della palestra da dove abbiamo appena fatto la nostra entrata in scena con un’espressione che non promette nulla di buono.
«Bene. Mi sembra che sia arrivato il momento di chiarire un paio di cosette. Non siamo qui per divertirci, d’accordo? Quello che imparerete in questi giorni potrebbe essere la vostra unica risorsa e unica possibilità di rimanere vivi, o per lo meno di non morire subito, una volta nell’arena» 
Mentre parla, i suoi occhi grigi non smettono di seguire ogni nostro minimo atteggiamento, come se stesse cercando di leggere i nostri pensieri per trovare un punto debole per attaccarci. 
«Quindi, mettiamo in chiaro fin da subito le cose» continua «Qui, il capo, sono io. Voi farete quello che dico io, come lo dico io e, soprattutto, quando lo dico io. Non saranno ammesse distrazioni o proteste. Non esiste il “non ce la faccio”. Esistono solo il “Sì, allenatore Waywood” e il “Morirò di una morta terribile e dolorosa se non lo faccio”. Ci siamo intesi?»
Io e Scorpius annuiamo energicamente.
«Perfetto, spero che questo piccolo discorso introduttivo sia servito a voi due “caramelline” a capire come andranno le cose per i prossimi giorni. Il mio compito non è quello di essere accanto a voi, spalla a spalla, ad asciugarvi le lacrime e a sentire i vostri piagnistei su quanto vi manchi casa vostra. Il mio compito è quello di farvi piangere, gridare, sputare sangue ora, per non farvi morire come dei cretinetti dopo» 
Fa un passo in avanti e per un attimo ho l’impulso di indietreggiare come se avessi paura che stesse per tirare un pugno anche a me. Ma ovviamente non lo fa, e io rimango al mio posto. 
Mentre lui si avvicina all’armadio che avevo notato al principio, io mi ritrovo ad osservare di nascosto Scorpius. Ha ancora l’espressione indurita, come quella che aveva dopo essersi tirato su qualche minuto fa, ma i suoi occhi brillano di una scintilla di ammirazione e capisco che almeno lui ha cambiato idea sul nostro allenatore, e lo ritiene, se non simpatico, almeno abbastanza passabile per una certa convivenza pacifica. O forse è solo per il fatto che stiamo per combattere contro dei manichini e si sente esaltato come ogni altro maschietto che si trova nella situazione di mostrare le sue straordinarie capacità.
«…quindi per oggi mi limiterò a osservare le vostre capacità e come ve la cavate con alcuni “ostacoli”, sia del Mondo Magico che di quello Babbano» 
Mi accorgo di essermi persa parte del discorso solo quando un piccolo tonfo mi fa riprendere dallo stato di catalessi apparente in cui ero caduta. Derek è appoggiato con la schiena alle ante del grande armadio, con le mani intrecciate dietro il busto, e ci fissa con un sorrisino malizioso. 
«Buona fortuna, caramelline. E possa la buona sorte essere sempre con voi!»
Con un movimento fluido e velocissimo, spalanca le porte dell’armadio e si scosta di lato. Per un attimo l’interno dell’armadio appare buio e vuoto, tanto che sia io che Scorpius ci lanciamo un’occhiata perplessa e stranamente complice. Allento di poco la presa sulla bacchetta e sto quasi per abbassarla.
«Dunque?» Scorpius ridacchia «Questo è tutto? È una prova per chi ha paura degli armadi? O del buio? Estremamente pericolosa, a dire il ve…»
Non fa in tempo a concludere la frase che una Acromantula dalle dimensioni mastodontiche si getta su di noi, le otto zampe pelose che si protendono verso le sue povere prede, che per poco non strappano la stoffa della mia camicia, i numerosi occhietti che roteano all’impazzata.
Prima di iniziare a correre riesco solo a pensare confusamente che, miseriaccia, io odio i ragni, li odio davvero.
Quello che ai miei occhi spaventati era una Acromantula e a quelli ancora più terrorizzati di Scorpius era un Basilisco, si rivela essere un Molliccio Animale. Come ci spiega Derek mentre, con un gesto della bacchetta, rinchiude la creatura nell’armadio, un Molliccio Animale, oltre ad assumere contemporaneamente una forma diversa per ognuno - io vedevo un ragno e Scorpius, allo stesso tempo, un serpentone gigante - è principalmente meno pericoloso ma, allo stesso tempo, più spaventoso di un vero e proprio Molliccio, in quanto è stato incantato per trasformarsi solo in qualcosa che esiste davvero, in una Creatura, in una persona e non in una paura recondita e profonda. In un certo senso è un bene che nessun Molliccio che incontrerò negli allenamenti – e, Merlino non me lo auguri, nell’arena - si trasformi in mio padre che corre via dall’esplosione ma, da un altro punto di vista, è piuttosto spaventoso che si trasformi in un ragno gigante o nella mia insegnante di Trasfigurazione.
È difficile da spiegare: se da una parte protegge i tuoi più intimi timori e impedisce che, per esempio, tu possa trovarti davanti i tuoi cari morti o che ti urlano contro, da una parte il fatto che possa rivelarsi essere un Lupo Mannaro pronto ad ucciderti è piuttosto terribile allo stesso modo perché, oltre ad essere più spaventoso, è anche più complicato capire se sia vero o meno e, di conseguenza, come affrontarlo.
Nelle seguenti sei ore, con una breve pausa per il pranzo, Derek ci fa affrontare alcune fra le creature più infide che il Mondo Magico sembra offrire - tutte ricostruite tramite un incantesimo avanzato, ma fanno comunque male - e, di tanto in tanto, quando io e Scorpius ci blocchiamo o non sappiamo come colpire l’avversario, ci grida contro e ci mette sotto pressione fino a che non soccombiamo o non troviamo una soluzione al problema.
Scorpius mi si avvicina più volte e cerca di aprire un argomento di conversazione, ma io lo scaccio in malo modo perché in un momento delicato come questo non credo di essere in grado di reggere le sue stupidaggini. L’ultima volta che prova ad attaccare bottone prova con un argomento che, mio malgrado, mi interessa.
«Cosa ne pensi di lui?» chiede, e i nostri sguardi si posano contemporaneamente su Derek che sta armeggiando con dei manichini animati in fondo alla sala.
«Lo trovo fastidioso, in effetti» confido, pensando al suo continuo schernirci quando non troviamo velocemente un modo per evitare un attacco o per attaccare a nostra volta «Crede di essere divertente. E questo allenamento non ci servirà a niente. Dobbiamo imparare ad uccidere le persone, non a schiantare manichini e a stendere stupidi Mollicci»
«A me piace, invece. È un tipo forte e, anche se non penso che te ne sia accorta, si vede che gli vai a genio» esclama «Io non so se gli piaccio. Ma d’altra parte sono uno dei migliori giocatori di Quidditch dell’universo. Fra un po’ manderò la Pluffa negli anelli dell’avversario e chiuderò la partita»
«Molto utile. Peccato che tu non possa colpire con la mazza da Battitore uno dei concorrenti fino a che non rimarrà inerme come i Cannoni di Chudley dopo un incontro con i Tornados» dico per chiudergli il becco. Se crede di poter iniziare a sminuirsi per farmi abbassare la guardia e pensare di riuscire a batterlo, crede davvero male.
Sono oculata. Sono attenta. Sono vigile.
«Non crederci troppo, Rosellina. Magari l’arena sarà un enorme campo da Quidditch! Non sai quanto vorrei che…» risponde Scorpius, felice di poter iniziare una vera e propria conversazione.
«Direi che possiamo anche finirla qui» lo interrompo io «Non dobbiamo essere amici anche quando siamo soli. Basta e avanza fingerlo davanti alle telecamere»
Per i successivi cinque secondi sono fiera della mia risposta. Mi sembra perfetta per mettere al suo posto Scorpius, la sua tattica dell’amico e i suoi tentativi di distrarmi dall’allenamento. Per non pensare poi che, così facendo, ho anche messo in chiaro che il prendergli la mano ieri fosse una mossa solo puramente strategica. Poi però, al sesto secondo, incontro i suoi occhi Foresta Proibita e devo mordermi il labbro per non rimangiarmi tutto.
Sarà stata anche solo una strategia quella di parlare con me, ma ho sbagliato ad espormi e a trattarlo così male. Sto per aprire bocca e cercare di rimediare quando Derek ci richiama e mette fine a quei pochi secondi di pausa che ci aveva concesso.

Visto che i combattimenti e gli scontri sono singoli, mentre Scorpius lotta contro un manichino particolarmente agguerrito ed evita per un soffio di essere bruciato vivo, io osservo i suoi movimenti. È molto più calmo e cauto di me. Sarà che alla fine non sono una Grifondoro per niente, ma il mio modo di combattere è molto più aggressivo e avventato del suo. Scorpius, invece, sembra riflettere bene prima di fare una qualsiasi mossa e, per abbattere il nemico, impiega diversi minuti in più di me.
Nell’ultima ora a disposizione, Derek ci spiega le basi del combattimento corpo a corpo e, visto che non si può lottare fra tributi, ci dice di applicare su dei manichini animati – questa volta sprovvisti di bacchetta - alcune delle mosse appena imparate. Io me la cavo abbastanza bene e riesco a stendere il mio avversario in poco tempo, anche se ricevo tre pugni e un calcio discretamente dolorosi. Scorpius conclude la lotta con un solo pugno incassato ma con ben cinque minuti di combattimento in più.
Derek se ne va verso le sette e Scorpius, che ha continuato ad ignorarmi per tutto il resto del pomeriggio, lo segue dopo un’oretta buona in cui è riuscito a sollevare circa una decina di chili con un rapido movimento del braccio.
Io rimango lì, con il mio manichino, a saltellare avanti e indietro e colpire a vuoto quello stupido umanoide che non vuole proprio saperne di accasciarsi. Alla fine crollo anch’io – un po’ per la delusione e il senso di colpa che mi attanagliano per aver detto quelle cose a Scorpius, un po’ perché la rabbia che ho provato per tutta la giornata sembra essersi trasformata in stanchezza - e tutto sembra fermarsi intorno a me.
Mi stendo di schiena su uno dei tanti tappetini blu che tappezzano la palestra e fisso il soffitto fino a che le luci - impostate in modo da accendersi e spegnersi a seconda che nella stanza ci sia qualcuno o meno - sembrano anche loro dimenticarsi di me e si spengono, e io rimango così.
Viste da qui sotto, le corde che pendono dal soffitto sembrano… non so cosa sembrano, ma continuo a fissarle fino a che le palpebre non mi si chiudono praticamente da sole e mi ritrovo a lottare contro i postumi della pesante giornata appena trascorsa. Eppure non riesco ad addormentarmi e, appena chiudo gli occhi, mi ritrovo davanti a scene terribili che la mia mente stanca mi ripropone con un sottofondo sonoro piuttosto lugubre, una voce femminile che canta con incredibile maestria ma che, allo stesso tempo, mi mette i brividi. È dopo un minuto buono che mi accorgo che la voce che canta non è frutto della mia immaginazione, ma è qualcosa di vero. 
Nella canzone non ci sono vere parole, solo picchi acuti e gorgheggi, ma per un attimo mi sembra di stare ascoltando la canzone dell’impiccato, come quando ero bambina e Dominique si divertiva a cantarla e a spaventarmi con il suo terribile testo.
La canzone dell’impiccato è una di quelle ballate che tutti quanti conoscono ma nessuno canta mai. Questa soprattutto, è protagonista di una lunga tradizione ma è sempre stata esiliata nella sezione proibita, diciamo così. A me la fece conoscere mio zio Charlie, che durante una di quelle sere d’estate che trascorrevamo fuori, nei campi di grano che circondano la Tana, riunì tutti noi nipoti per un bel falò di mezzanotte. Quando poi, dopo avercela fatta imparare, ci fece promettere di non dire a nessuno dei nostri genitori quello che ci aveva insegnato – vi ho mai detto che mio zio Charlie è uno dei membri della famiglia maggiormente amati dalla “nuova generazione”? - tutti promettemmo la massima segretezza, per poi sbandierare al vento le nostre nuove conoscenze il giorno dopo. Dominique la cantò persino al cenone della Vigilia di Natale.
Ma non voglio pensarci ora – al buio, da sola, facilmente suggestionabile come sono al momento. Voglio solo cercare di dimenticare, di non pensare più a nulla, di svegliarmi e di ritrovarmi magicamente a casa mia, nel mio letto, con davanti il viso sorridente di mia madre, con il borbottio continuo di Hugo e le canzoni del suo gruppo Heavy-Metal preferito in sottofondo. Voglio tornare nella mia Foresta Proibita, nella mia Hogwarts, anche se non è sicura o bella come quella di un tempo. Voglio vedere di nuovo Albus sorridere come fa lui, inclinando la testa e abbassando gli occhi, come se si vergognasse.
«Non puoi avere tutto quello che vuoi, sai Rosie?»
La voce di Scorpius mi risuona in testa e penso che mi dispiace. Che magari, se ci fossimo conosciuti in un altro modo, io e lui saremmo potuti essere amici. Avremmo potuto fare tante cose insieme. Avremmo litigato sempre, come facciamo ora, ma per le cose più futili e normali del mondo, come in che ruolo giocare per una partita a Quidditch o per il colore dell’inchiostro per pergamene. Ma ci siamo conosciuti qui, stiamo per morire e non possiamo essere amici, non possiamo fare nulla insieme, se non addestrarci ad uccidere – sapendo che potrebbe toccare a noi, di combattere fra di noi - e litighiamo perché affrontiamo il destino in modo diverso.
E improvvisamente capisco perché, per tutta la giornata, sono stata così arrabbiata, continuamente: perché mi sto affezionando a Scorpius. Non in modo che preveda un qualsivoglia tipo di coinvolgimento sentimentale, in quel senso. Solo non voglio che muoia quasi quanto non voglio morire io. È difficile da ammettere ma, alla fine, credo sia anche normale. Quando passi tanto tempo a contatto con una persona è normale che inizi a conoscerla meglio ed apprezzare le sue qualità, a passare sopra ai suoi difetti.
Con questo non intendo dire che Scorpius mi piaccia, anche solo come amico. Ma non posso ucciderlo, ora che lo conosco. Se c’era qualche possibilità all’inizio di poterlo fare fuori senza alcun rimorso, ora so che non posso nemmeno provare a pensarci. Mi sentirei male. Mi sento male.
E poi c’è questo suo pensare positivo. Sempre. E il suo voler vivere la vita fino all’ultimo istante, come se ogni secondo fosse l’ultimo – cosa che, in parte, è anche vera. Come faccio ad uccidere qualcuno che desidera così disperatamente vivere? Come può qualcuno che ama così disperatamente la vita trovare la morte in un modo così orribile e barbarico? Se lui fosse, non so, disperato, senza più forze né voglia di andare avanti, allora potrei ucciderlo, ma Scorpius non lo è. Scorpius lotta giorno per giorno per la sua vita. E io non posso farci niente.
E questo mi fa arrabbiare. Mi dico che, se fossi stata più attenta, se lo avessi evitato, se avessi rifiutato la sua mano sul carro, se non gli avessi mai rivolto la parola, allora le cose sarebbero state diverse. Ma dentro di me, lo so già, non sarebbe cambiato niente.
Scrollo la testa e mi alzo in piedi di scatto. I sensori sul soffitto registrano la mia presenza e la luce si accende all’improvviso, accecandomi. Rimango per un attimo ferma, aspettando che le macchioline di luce si estinguano e mi permettano di vedere dove metto i piedi con chiarezza. Poi, come se qualcuno stesse tirando i vari arti del mio corpo con dei fili per marionette, i miei piedi si muovono velocemente e attraversano il corridoio dalle pareti azzurrine. 

***


Sto oltrepassando l’appartamento di Victorie quando sento un rumore sordo venire da dietro la sua porta che, avvicinandomi, trovo chiusa ma senza alcuna serratura a bloccarla. Rimango per un attimo ferma davanti alla porta, pensando al da farsi. Da una parte un rumore del genere può essere giustificato con molte spiegazioni ragionevoli: sta spostando un mobile, le è caduto qualcosa, è inciampata - per quanto Victorie abbia nel sangue un gene che la rende incapace di inciampare - ma mi accosto comunque alla porta e do una sbirciatina all’interno.
Il piccolo salottino - la disposizione delle stanze sembra essere uguale a quella del mio appartamento - è vuoto, ma i ripetuti colpi che mi fanno sobbalzare provengono dalla camera da letto, a qualche passo di distanza.
Potrebbe essersi fatta male, mi dico, ma in realtà voglio solo vedere qualcuno di conosciuto e che, nel profondo, mi vuole bene. Quando noto la figura di Victorie, seduta a gambe accavallate sulla scrivania nel centro della stanza, il viso rivolto verso la porta e gli occhi azzurri che guardano verso di me, mi prende un colpo.
«Smettila» dice, sempre fissandomi, e la sua voce è così spossata e stanca che sto per farmi avanti e uscire dal mio nascondiglio dietro la porta quando qualcun altro, una macchia bionda, si fa avanti e si para davanti ai miei occhi. Victorie segue la figura con lo sguardo e improvvisamente capisco che non si è mai accorta di me. 
«Dominique, calmati. Io non sono papà. Non sono pronta ad accogliere i tuoi attacchi di isterismo da prima donna a braccia aperte. Sai benissimo che non puoi perdere così facilmente il controllo»
Dominique serra il pugno della mano destra in una presa ferrea «Sei davvero senza cuore, Vicky. Non capisco come faccia la gente a provare affetto per te» 
Victorie, che ha un po’ storto il naso a sentirsi chiamare con il vecchio soprannome affibbiatole da Lily quando aveva cinque anni, non si scompone e continua a fissarla. 
«Io ho il tuo stesso diritto di sapere cosa è successo. Dopotutto James e Fred sono più cugini miei che tuoi»
Improvvisamente inizio a sudare freddo. Che cosa è successo a James e Fred? Perché Victorie non vuole dirlo a Dominique? Perché, soprattutto, io non ne so niente?
«Tu non hai alcun diritto di sapere, Dominique. Soprattutto visto che non c’è nulla da sapere»
«Oh, ma per favore. Non dire cazzate, Victorie! Io non sono Teddy o uno di quegli stupidi americani che ti porti dietro. Ho visto la lettera di zia Ginny. Vi ho sentite parlare via camino. So che è successo qualcosa a James. E voglio sapere cosa. Di certo, e non credo che vorrai negarlo, quello che fa riguarda più me che te» 
Dominique giocherella con una statuina di cristallo, una delle miniature che ornano anche il mio tavolino in soggiorno.
Victorie rimane in silenzio per un po’ osservando con sguardo fisso e inquietante sua sorella. Poi scuote la testa e sembra decidersi a parlare: «Se te lo dico, eviti di distruggere anche quella miniatura? Sai, non credo che saranno molto contenti visto che ne hai già fatte fuori tre»
Improvvisamente collego quei rumori che ho sentito dal corridoio alle manie di protagonismo di Dominique e alle sue prese di posizione con tanto di lancio di oggetti contro le pareti. E suppongo che tutto questo sia avvenuto con una Victorie impassibile e immobile, come se invece che fragili pezzi di vetro, le stessero tirando addosso petali di fiori. Da morire dal ridere.
«Dimmi» 
L’urgenza nella voce di Dominique mi fa sentire bene. Vuole bene a James e a Fred. Sono la sua cricca e, per quanto la maggior parte del tempo li tratti come degli schiavetti, è davvero legata a loro. Sembra, in effetti, che siano loro i suoi veri fratelli e Victorie solo una lontana cugina.
«Ieri notte James, Fred e i gemelli Scamandro sono andati vicino al confine per completare quella cosa. Ma le guardie li hanno scoperti. Hanno cercato di scappare ma li hanno bloccati alla dogana. Fred è stato rispedito a casa perché è ancora minorenne, ma i fratelli Scamandro sono stati arrestati. Zia Ginny era sconvolta»
Dominique si lascia cadere su una sedia, spossata, e anche io sento il bisogno di afferrare qualcosa per non rovinare a terra. In prigione, condannati per sempre a marcire in delle celle che, anche senza Dissennatori a fare loro la guardia, sono capaci di risucchiarti l’anima. Guardie, uomini senza cuori, mercemaghi che trattano i loro prigionieri, anche quelli che devono ancora ricevere un processo, come criminali della peggior specie. Scappati, morti, scomparsi per sempre, senza alcuna possibilità di tornare a casa.
Mi sento male.

***


«Victorie!» la voce di Dominique sale di un’ottava e assume una particolare sfumatura stridula «Se Fred è a casa e gli Scamandro in… in prigione… dov’è James?»
Victorie sposta lo sguardo verso il basso.
«Victorie… Vic… dove è James?» la voce di Dominique sembra quasi quella di una folle «Victorie, ti prego»
«James…» Victorie si interrompe «James è scappato, Dominique»
   
 
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