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Autore: Mao_chan91    17/02/2007    1 recensioni
Vite si sfiorano, scontrano, intrecciano.
L'egoismo diventa chiave della sincerità; il passato qualcosa da allontanare.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Elric, Riza Hawkeye
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Rewrite

Capitolo quarto

Questa fan-fiction è un’AU, dunque ambientata in un universo alternativo, in questo caso semplicemente il mondo moderno. Niente alchimia od altro, dunque, ma determinate situazioni interpersonali sono le stesse,o almeno inizialmente.
Disclaimer: I personaggi qui presenti non appartengono a me, ma alla somma Hiromu Arakawa, autrice di FMA. Mi appartiene solo questa fan-fiction ed ogni singola frase, idea o concetto.

-
Era una bambina deliziosamente bionda e paffuta di guance –ora non si riterrebbe possibile, in verità-, e faceva il solito e comune miliardo di futilità che fanno le bambine.

Giocava, andava a scuola, trascorreva il tempo con gli amici, si stringeva alle gonne materne se era triste, alle ginocchia paterne se ruffiana.

La mamma era gentile, come ogni brava mamma del mondo: leggeva, lavorava strenuamente, alla sera le rimboccava le coperte sfiorandole le guance.

Il papà era un punto di vista contorto del mondo.

Il papà aveva molti anni più della mamma, forse quindici, forse venti.

La famiglia della mamma non esisteva più da tanto, e lei, che ancora neanche sapeva bene perché, sapeva che quello non era il suo papà.

Con un rapido conto, lei era nata un anno prima del matrimonio stentato e sofferto dei suoi: pur non comprendendo come potesse essere nata al di fuori di un matrimonio, prima anche che i genitori si conoscessero, lei era sbagliata per la data di nascita, sbagliata se rapportata agli altri bambini che camminavano con le mani strette a quelle di entrambi i genitori.

Pur salvando le apparenze ad ogni costo –con giocattoli nuovi e costosi, viaggi lontani, soldi e soldi che stavano consumando da allora le finanze di famiglia-, il papà non si stringeva a lei né alla mamma con tenerezza.

Alle volte sentiva la madre gemere dentro sé stessa, deglutire e soffocarsi, con una sensibilità strana maturata dall’osservazione accanita dell’amore senza parole che la cingeva ogni giorno, promettendole qualcosa di meglio, ogni volta che le guance d’ella sanguinavano per schermire quelle della bambina, raccogliendola al suo grembo accogliente, proteggendola a costo di logorare il proprio cuore.

La mamma stava impazzendo.

Il papà stava impazzendo.

Era tutto turbolento, ed il papà a volte guardava con disprezzo la bambina non sua e la moglie sposata per il corpo piacente e per difendere l’immagine di uomo facoltoso con una famiglia perfetta, bionda e perfetta.

Due bambole perfette erano il sorriso smorzato che si mostrava con lui come sua famiglia, perché si vantasse con i conoscenti per pura ambizione e gioco; la mamma aveva sopportato in silenzio.

Riza era cresciuta, diventata ragazza, ed a sedici anni aveva visto suo padre stringere il collo liscio della mamma, che piangeva e non riusciva ad urlare.

Era accorsa, l’aveva colpito con forza, ma la mamma non respirava più ed aveva gli occhi vuoti sul vuoto del soffitto.

Lui era sconvolto, incredulo, ed urlava di averle voluto davvero bene, davvero bene.

Riza non l’aveva pensata così chiudendolo in una stanza e chiamando la polizia.


Si era parlato di un raptus di follia, ed era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico per dirla cordialmente, e lei lo aveva lasciato marcire lì per tutto il resto di quella lorda vita di spasimi e colpe, traendo un sospiro leggero alla sua morte.

Con gli anni aveva provato rimorso, perché dopotutto quello era papà; papà che aveva ucciso la mamma, ma era stato il suo papà per anni.

Sostenuta da lontani parenti che l’avevano adottata sino alla maggiore età, negli studi di un qualcosa per difendere e proteggere la propria testa per non impazzire anche lei, durante il funerale senza patimento ma noia, aveva sentito alcune infermiere, spesso, dichiarare di avere sentito l’uomo pregarli di mandare a chiamare la figlia entro la sua morte per poterla vedere, chiedere perdono, ma erano voci soffuse e stanche, a lungo ignorate perché egli non avesse pace nemmeno nella morte.

Riza aveva chiuso il suo cuore, sé stessa, stringendosi nelle spalle per non crollare, non ricordare.

Affondando nel petto confortevole di Roy che ingoiava poi tra le labbra ogni suo singhiozzo mutandolo nella pallida ed inconsistente stabilità che mutava ancora in gioia e serenità.

Non aveva potuto essere sempre e sempre suo, disperato dell’accanimento con cui ella non si dava pace ma si sentiva felice, tormentandosi delle proprie contraddizioni che lui non riusciva più a sanare.

E fino a quando ella non avesse mosso un passo definitivo- dopotutto lo sapevano entrambi -, lui non avrebbe che tentato, aspramente, di spronarla a darsi una scrollata, liberarsi del passato per gelosia, per i suoi gesti stupidi, perché lui fosse solo suo, ma lei era troppo infelice, più tentava di rimuovere ogni cosa, e più si sentiva affranta anche quando dormivano assieme, le sfiorava la schiena con conforto.

Anche in quei momenti tremava, e per non affrontarlo oltre lo stava perdendo.

-

Anche fissandola con occhio critico, ella gli pare inconfutabilmente forte, rapportata alle amarezze trascorse, a tutto.

Edward percepisce, pateticamente, il proprio patimento sgretolarsi, e si sente innocente e vulnerabile, ma soprattutto sciocco.

Un sentimento strano gli fa tendere la mano alla di lei spalla; si frena a mezz’aria, stringendo il vuoto, e la lascia ricadere mollemente.

Lei si abbandona al morbido giaciglio, lo sguardo alla finestra fissa su alberi su sfondo blu, e macchioline bianche lentamente scendono, tingendo tante cose di chiaro.

Anche lui le fissa, rapito come un bambino ingenuo, e non parlano.

Dopotutto, non parlano molto.

Ma finché uno di loro ascolta, si sentono entrambi compresi, caldi e vicini.

Si supportano silenziosamente, coesistono senza gesti sconvolgenti, senza azioni che confondano per non ferirsi, per reciproco rispetto.

"Vorrei toccarti." Biascica lentamente lui, rosso e tremante, impacciato ed incomprensibile "Ma non ci riesco."

"Posso sentire la tua mano sulla mia spalla, dolcemente. Batte una pacca e si allontana, ed ora mi stai fissando la schiena." sussurra lei, ancora rapita dalla danza della neve al vento, ancora di spalle.

Lui la osserva incerto, e sì, le sta fissando la schiena.

Una cosa l’ha azzeccata, e probabilmente anche l’altra.

Restano così a lungo, silenti con la neve attorno che pare raffreddarli perché la reciproca presenza li riempia di serenità scaldandoli.

-

"Sì, ferie natalizie!" esclama lei contenta, di ritorno dopo aver chiuso lo studio.

Lui per dei giorni è andato a scuola, per altri a trovare Alphonse.

L’ultima volta lo ha sentito premergli un dito sulla mano, e di questo è stato confortato.

O forse l’ho solo immaginato.

Non ha inoltre cambiato scuola, ma si cela spesso dietro gente più alta di lui, quantomeno ad ogni tempesta bionda che lo sorpassi o scorga, pur desiderando, vagamente, parlarle.

Vederla sarebbe doloroso.

E lei lo cerca, senza esito, senza mai trovarlo, affliggendosi.

"Edward?" mormora lei gentile, di ritorno anche dalla passeggiata con Black Hayate "Qualcosa non va?"

"N-no. Va tutto. Insomma, bene."

"Ed... "

"Ho detto bene! Bene, per la miseria, bene!"

Ella sospira, sfiorandogli il capo con la mano, dolcemente, e chinando il suo vicino a lui.

"Senti, qualche volta possiamo parlare. Mi fa piacere parlare con te."

"No, insomma, non... "

"Dici che non capisco, Ed?"

"No, io non...voglio... "

"Oh, bene. Io invece voglio preoccuparmi per te, Ed. Insomma, accendi il mio istinto materno."

"Non mi fa piacere, sai?" brontola lui dopo una sosta, incrociando le braccia e sentendosi colorito d’un rosso violento, come spesso gli accade.

Lei ride, gioviale e morbida come una bambina.

E’ buffo sentirla ridere senza contegno, così soffusa e dolce, veramente buffo.

"Forse scherzavo, suvvia. Forse."

Lui china il capo scurendosi un po’ irato.

"Suvvia, preferiresti essere considerato un uomo? Con i bambini sono gentile, ma gli uomini a volte mi trovano spaventosa."

"Non sei così brutta."

"Troppo gentile, davvero. Non intendevo in quel senso."

"Sì. Sarà per certe tue occhiate. A volte sei spaventosa, sì."

"E mi trovi brutta?"

Lui pare pensarci un poco, innervosendola alquanto, e scrolla le spalle, mormorando appena tra i denti.

"Sei gentile. E se sei gentile io vedo questo, non altro."

Non avrebbe saputo immaginare risposta più accettabile, lei, e si sente timidamente realizzata.

-

Note: Sì, la tempesta bionda nominata è ancora Winry. Che giungerà nel prossimo capitolo. Non essendo andata a scuola (Grazie, assemblea d’istituto! XD), posto prima del previsto.
Ringrazio la fedelissima Setsuka, lieta che abbia apprezzato quella frase in particolare. Era una considerata da una mia purissima esperienza personale, e rendere bene il concetto era molto importante.
E’, in teoria, l’unica lettrice all’attivo, ma confido che prima o poi possa farsi avanti anche qualche lettore rimasto nell’anonimato, non so. Al prossimo capitolo è_é
  
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