Buio. Silenzio.
Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Fa freddo. Apro gli occhi. La luce accecante di un neon.
Un sapore tremendo in bocca. Provo a muovere un braccio. Una fitta lancinante
al polso.
Sono congelato.
Bip. Bip. Bip.
Voci lontane, ovattate.
«Nome?»
«John Watson».
«Tasso alcolico?».
«Uno su mille».
«Cos’è successo?»
«Incidente stradale». (1)
Sono due uomini, ma non capisco chi siano né da dove provengano le loro
voci. Incidente stradale? Io?
Ripercorro con la mente gli episodi più vicini, ma ogni ricordo è sfuocato e si
dissolve nella mente appena riesco ad afferrarlo. Voglio ricordare, voglio
sapere, ma non riesco. C’è solo il buio.
Paura, ansia, panico. Cosa succede? Perché non riesco a muovermi, perché faccio
fatica a pensare?
Cado di nuovo nella voragine, faticando invano per aggrapparmi alla coscienza.
Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Riprendo coscienza di me stesso improvvisamente, con la stessa velocità con cui
l’avevo persa. Adesso è diverso, però: penso con lucidità, comprendo ciò che
sento, tengo a bada la preoccupazione.
E poi boom: i ricordi mi si schiantano addosso con violenza, senza lasciarmi il
tempo di pensare.
Un’auto, un attraversamento stradale.
Tanto banale da sembrare la trama di uno di quei film da quattro soldi.
Conducente ubriaco, al novanta percento; un pedone distratto e un terribile,
arcigno e violento impatto che faceva ruzzolare il corpo in aria.
Il problema era che, al contrario delle supposizioni che chiunque avrebbe
fatto, il pedone distratto non era stato John.
Sherlock.
Il nome del detective rimbomba nella mia mente. Io, un misero uomo sofferente
su un lettino d’ospedale.
Ricordare la sua inattenzione nell’attraversare la strada mi ferisce. Non
riesco a non rivede mille volte nella mia testa il viso dell’uomo che,
entusiasta ed esuberante per il nuovo caso capitatogli per le mani, corre
dall’altro lato della strada senza badare alle auto.
Paura, panico.
Li rivivo ancora, ancora e ancora. È come se qualcuno stesse schiacciando il
tasto “replay” all’infinito, senza curarsi di cosa possa provare io nel
rivedere la scena.
Rieccolo ancora, Sherlock. E riecco me stesso che, terrorizzato e incosciente
del pericolo, mi lancio addosso all’amico per spostarlo dalla traiettoria
dell’auto.
Un flash, un colpo secco sulla schiena.
Perdo i sensi, ancora.
Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Sento di poter muovere un poco le mani, ora, ma non riesco a trovare la strada
per gli occhi. Mi limito ad ascoltare ciò che mi sta attorno, rimanendo
immobile.
«Ce la farà, Sherlock».
Lestrade?
Sherlock non risponde, sta zitto. Non lo sento, non fa il minimo rumore, ma
percepisco la sua presenza al mio fianco. Il suo sguardo mi penetra la pelle,
riesco ad avvertire il suo respiro gelido perfino da qua.
Un cigolio, il rumore di due superfici lisce in collisione. Lestrade se n’è
andato, ora siamo soli.
Freddo, di nuovo. Freddo nelle vene, freddo nella testa, freddo nel cuore.
«John».
In quel momento Sherlock mi prende la mano fra le sue, ne sfiora le falangi con
improvvisa delicatezza, quasi temesse di vedermi sgretolare sotto un tocco
troppo intenso. Assaporo il momento, senza muovere la mano.
«John, ho paura».
Le sue parole mi colpiscono il cuore, e ciò mi fa più male di quanto mai
potrebbero fare le sue mani.
Sherlock ha paura.
La certezza racchiusa in quelle parole è talmente distruttiva che mi avrebbe
fatto ricadere facilmente nella morsa del buio, se non avessi lottato con tutte
le mie forze. Mi accorgo che, senza rendermene conto, ho contratto lievemente le
dita stringendole attorno a quelle di Sherlock.
Trattiene il respiro. Se ne è accorto.
«So che mi senti, John», mormora, e la sua voce è piena di rammarico. «Ci sono
opinioni diverse sullo status mentale del paziente durante il coma, ma io sono
sicuro che mi stai ascoltando. E ho bisogno, ho bisogno…». Si interrompe. La
sua voce è spezzata, quasi come se stesse combattendo con sé stesso per non
scoppiare in lacrime.
Piangere? Sherlock Holmes?
«Ho bisogno che mi ascolti, John», biascica, riprendendo piano il controllo di
sé. «Perché l’hai fatto, John? Perché? Quale pazzo istinto suicida ti ha mosso
a fare ciò che hai fatto, dannazione?».
L’amore?
«Sei un cretino, John. Avresti dovuto lasciarmi finire sotto quella macchina,
così una volta per tutte avrei imparato la lezione. E invece quello in coma da
giorni adesso sei tu».
Ma io sto bene!, vorrei urlargli. Ascoltami, guardami, sto bene! Sono qui!.
E invece taccio. Lo ascolto e basta, muovendo impercettibilmente l’indice sul
palmo della sua mano. Non riesco a fare di più, non riesco a consolarlo come
vorrei. Sono troppo debole.
E, infine, dopo alcuni minuti, anche Sherlock decide di lasciarmi solo. Fa
scivolare via la sua mano dalla mia, sfiorandone il palmo con leggerezza, e
contemporaneamente si alza facendo scricchiolare la sedia.
In quel momento, non so cosa mi prende.
Non esiste più la debolezza, non sono più fiacco. Ritrovo la strada per ogni
singolo muscolo del mio corpo, del mio viso, dei miei arti. In uno scatto di
improvvisa forza, stringo le dita lunghe e sottili di Sherlock fra le mie.
Il momento è perfetto, ma qualcosa ha sconvolto Sherlock.
«INFERMIERA!».
Non capisco, sono distratto, vuoto, assente; lo sono perfino quando spalanco
gli occhi e guardo il soffitto bianco, terrorizzato.
Sagome indistinte si muovono velocemente davanti a me, biascicando parole che
non riesco a comprendere. In uno sprazzo di lucidità, mentre la mano di
Sherlock è ancora vicino alla mia nonostante i moniti dei dottori, tutto
ritorna ovvio nella mia mente.
Bip. Bip. Bip.
Il mio cuore batte troppo in fretta, troppo. Il mio corpo è scosso da
convulsioni. La vista mi si offusca.
Nero, ancora. Non c’è più nulla.
Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Non c’è più nessuno nella stanza. Lo so perché, svegliandomi, sono finalmente riuscito
ad aprire gli occhi senza scatenare la tempesta attorno a me.
Pensare a ciò che è accaduto senza far impazzire di nuovo l’elettrocardiogramma
è difficile, ma niente riesce a togliermi dalla mente le parole di Sherlock.
“Ho paura, John”.
Desidero rassicurarlo ora più di qualsiasi altro momento nella mia vita. Ho
bisogno di averlo qua, ma per una volta che sono sveglio, nessuno è nella
stanza.
Il silenzio fa paura.
Anche Lestrade era lì, ricordo,
osservando l’intonaco bianco del muro. Anche
Lestrade se n’è andato.
Lestrade, Sherlock. Qualcun altro era stato a trovarmi? Non ricordavo.
Mrs. Hudson sapeva? Qualcuno aveva avvisato Sarah?
Da quanto tempo ero lì?
Perdo – come se non l’avessi già fatto da tempo - la concezione del tempo
ponendomi più domande di quanto mi fosse lecito. Non so che ora è, che giorno è, che mese è.
Non so cosa mi è successo nell’incidente. Non so quanto tempo sono stato in
coma.
Non so come Sherlock ha preso il mio risveglio.
Rimango chissà quanto tempo a riflettere sull’accaduto, fino a quando, con mia
sorpresa, qualcuno mi tamburella sulla spalla.
«Jawn?».
Mi volto verso il muro a cui stavo dando le spalle e, con mia sorpresa, scopro
Sherlock seduto su una sedia in un angolino a me nascosto dalla stanza.
Osservo i suoi vestiti spiegazzati e i riccioli spettinati. Chiaramente ha
passato la notte con me, e io non mi ero nemmeno accorto della sua presenza.
Si stropiccia gli occhi, senza dare alcun segno di emozione.
È evidente che è imbarazzato per il suo comportamento del giorno prima.
È evidente che sa che ero in ascolto.
È evidente che, anche se non vuole più darlo a vedere, è preoccupato per me.
«Da quanto sei sveglio, John?».
Tento di parlare, ma la mia gola è secca e brucia, e mi esce solo un misero
squittio. Cercando di farlo con nonchalance, mi stringo nelle spalle e mi
schiarisco la voce.
«Non saprei», biascico, e non posso che arrossire per la mia voce che, più di
quella di un uomo, sembra un miagolio. Lui sorride, compiaciuto, e affonda
nella sedia di plastica. «Puoi iniziare a chiedermi quello che vuoi, sai».
«Cos’è successo nell’incidente?».
«Emnopneumotorace.
Ieri, quando ti sei svegliato, hai avuto una piccola crisi respiratoria».
Sono stupito. Non mi ero accorto di nulla, ma forse ero troppo annebbiato per
capire qualsiasi cosa.
«Hanno già operato la toracotomia?».
Scuote la testa, e un brivido gli scuote le spalle. «Domani».
Intanto, insieme alla lucidità, piano piano riprendo coscienza di tutto: riesco
a muovermi nonostante la mia debolezza e, ora che ci faccio caso, sento un
lieve dolore al centro del petto. Nemmeno il bruciore alla gola era
immaginario.
Osservo il tubicino che mi entra nell’avambraccio. Qualcuno deve avermi dato
degli antidolorifici.
«Hai bisogno di insultarmi ancora per mandar via la preoccupazione?», mormoro
infine, tentando di rompere il ghiaccio.
Sherlock pare ridestarsi dalla sua strana full-immersion nell’ansia, e mi fissa
mettendomi in soggezione. «Allora è vero. Mi hai sentito».
Lo ignoro. «Ringraziarmi no, eh? “Cretino”! La prossima volta ti investo
direttamente io».
E, in quel momento, entrambi scoppiamo a ridere. Scoppiamo a ridere perché non
ne possiamo più di quest’ansia, nonostante il fatto che stiamo parlando solo
da qualche minuto. Scoppiamo a ridere perché, malgrado la situazione sia arcigna,
siamo sicuri che andrà tutto bene. Scoppiamo a ridere perché, come tutte le
sante volte, ci siamo cacciati di nuovo nei
guai.
Ma, improvvisamente, qualcosa cambia.
Mentre rido, mi ritrovo completamente senza ossigeno. Annaspo, reprimendo le
ultime risate, e incontro lo sguardo improvvisamente terrorizzato di Sherlock.
Il mio respiro è affannoso quando urla per chiamare aiuto, lo è quando la mia
vista si riempie di puntini neri e lo è quando l’elettrocardiogramma impazzisce
sopra la mia testa.
L’ultima cosa che vedo prima di perdere i sensi sono i suoi occhi azzurri colmi
di lacrime.
Buio.
Silenzio.
Qualcosa non va. Il costante “bip” del monitor che seguiva il mio cuore non c’è
più a tenermi compagnia durante il risveglio.
Sono morto?
No. La morte non può essere così scomoda.
Apro gli occhi, di nuovo. Tutto si muove a raffica, e milioni di voci si
fondono nella mia testa. Nella confusione più totale, è solamente una di quelle
che mi tiene ancora attaccato alla vita.
«John. Oh, no, no, no, no. John, John, John!».
Sherlock è vicino al mio orecchio, mi parla con la sua voce piena di rammarico
e piange. Piange come non ha fatto mai, piange mentre i medici trasportano via
la mia barella, piange mentre disperatamente cerca di farsi sentire da me.
«Mi senti, John? Continua a guardarmi, non osare perdere i sensi!».
Mi rendo conto, improvvisamente, che i miei occhi non lo hanno lasciato nemmeno
per un secondo. Seguo con lo sguardo il suo viso rigato dalle lacrime, seguo la
sua figura che si affanna per stare dietro alla mia barella. Voglio parlare,
apro la bocca per farlo, ma non riesco. Qualcosa è premuto dentro la mia gola,
fa male.
«Non parlare, John, non parlare. Andrà tutto bene, guardami!».
Ho un tubo endotracheale ficcato in gola, e non so come riesco a capirlo nella
confusione della mia mente. Senza che nessuno mi abbia detto niente, senza che
la tristezza mi assalga o che un fiotto di speranza si faccia strada dentro di
me, capisco.
Sto per morire.
Sto per morire, ma sono sereno. Sono sereno, senza un motivo, perché mentre
muoio Sherlock è lì con me.
Sento lo sguardo di Sherlock addosso. Dischiudo le labbra e, poco prima che i
medici mi rinchiudano nella sala operatoria, mormoro una singola, unica parola.
«Vivi».
Silenzio.
Buio.
Angolo Autrice
Eccomi qui con la mia seconda storia su Sherlock. Premetto che,
nella scorsa, avevo parlato di una FanFiction work-in-progress, ovvero il
seguito di quella. Ebbene, questa non è la storia di cui parlavo, ma una
Fanfiction a sé che mi è venuta in mente rileggendo un libro comprato mesi fa.
Il libro in questione è Muses
di Francesco Falconi, da cui provengono le prime righe fino al numero (1). In effetti, beh, non solo questa frase non è
farina del mio sacco: anche l’ultima parola di John, “vivi”, mi è stata
suggerita dal R.P. Evans nel suo libro Il
linguaggio segreto della vita, in cui la moglie del protagonista, timorosa
di come il marito prenderà la sua morte, gli sussurra questa richiesta finale
nei suoi ultimi momenti.
Ok, basta disclaimer. Tralascio la storia originale
di questa fanfiction: era nata come FF sui miei
amatissimi Muse, ma poi John e Sherlock si sono autoimposti ed è andata a
finire come potete vedere.
Una canzone che mi ha particolarmente aiutato a scrivere è stata invece No Sound But The Wind degli Editors,
canzone che ultimamente, oltre alla mia fonte di ispirazione, è stata anche
ragione dei miei più intensi momenti di depressione/demoralizzazione/perdita di
autostima e dei conseguenti pianti isterici da cui questa Fanfiction è stata
originata. Vi consiglierei di leggere il testo perché, se ci si riflette, è
qualcosa di meraviglioso… ma anche no, fatelo a vostro rischio e pericolo.
Ok, non mi dilungo troppo – come se non l’avessi già fatto! – e chiudo
avvisandovi che questa storia avrà solo due capitoli e che non so quante
cavolate io possa aver scritto, in quanto non sono né un medico né
un’appassionata di medicina. Tutto ciò che c’è in questa storia è frutto di
Wikipedia usata un po’ a casaccio e della mente di una mente bacata senza beta,
quindi avete il diritto di insultarmi quanto volete.
Spero di vedere molte recensioni, che siano buone o cattive non importa.
Capirò.
Baci,
WaryJMS