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Autore: wrjms    03/08/2012    5 recensioni
Bip. Bip. Bip.
Voci lontane, ovattate.
«Nome?»
«John Watson».
«Tasso alcolico?».
«Uno su mille».
«Cos’è successo?»
«Incidente stradale».
**
Freddo, di nuovo. Freddo nelle vene, freddo nella testa, freddo nel cuore.
«John».
In quel momento Sherlock mi prende la mano fra le sue, ne sfiora le falangi con improvvisa delicatezza, quasi temesse di vedermi sgretolare sotto un tocco troppo intenso. Assaporo il momento, senza muovere la mano.
«John, ho paura».
Le sue parole mi colpiscono il cuore, e ciò mi fa più male di quanto mai potrebbero fare le sue mani.
Sherlock ha paura.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I don't have friends. I've just got one.'
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Buio. Silenzio.

Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Fa freddo. Apro gli occhi. La luce accecante di un neon.
Un sapore tremendo in bocca. Provo a muovere un braccio. Una fitta lancinante al polso.
Sono congelato.

Bip. Bip. Bip.
Voci lontane, ovattate.
«Nome?»
«John Watson».
«Tasso alcolico?».
«Uno su mille».
«Cos’è successo?»
«Incidente stradale». (1)
Sono due uomini, ma non capisco chi siano né da dove provengano le loro voci. Incidente stradale? Io?
Ripercorro con la mente gli episodi più vicini, ma ogni ricordo è sfuocato e si dissolve nella mente appena riesco ad afferrarlo. Voglio ricordare, voglio sapere, ma non riesco. C’è solo il buio.
Paura, ansia, panico. Cosa succede? Perché non riesco a muovermi, perché faccio fatica a pensare?
Cado di nuovo nella voragine, faticando invano per aggrapparmi alla coscienza.

Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Riprendo coscienza di me stesso improvvisamente, con la stessa velocità con cui l’avevo persa. Adesso è diverso, però: penso con lucidità, comprendo ciò che sento, tengo a bada la preoccupazione.
E poi boom: i ricordi mi si schiantano addosso con violenza, senza lasciarmi il tempo di pensare.
Un’auto, un attraversamento stradale. Tanto banale da sembrare la trama di uno di quei film da quattro soldi. Conducente ubriaco, al novanta percento; un pedone distratto e un terribile, arcigno e violento impatto che faceva ruzzolare il corpo in aria.
Il problema era che, al contrario delle supposizioni che chiunque avrebbe fatto, il pedone distratto non era stato John.
Sherlock.
Il nome del detective rimbomba nella mia mente. Io, un misero uomo sofferente su un lettino d’ospedale.
Ricordare la sua inattenzione nell’attraversare la strada mi ferisce. Non riesco a non rivede mille volte nella mia testa il viso dell’uomo che, entusiasta ed esuberante per il nuovo caso capitatogli per le mani, corre dall’altro lato della strada senza badare alle auto.
Paura, panico.
Li rivivo ancora, ancora e ancora. È come se qualcuno stesse schiacciando il tasto “replay” all’infinito, senza curarsi di cosa possa provare io nel rivedere la scena.
Rieccolo ancora, Sherlock. E riecco me stesso che, terrorizzato e incosciente del pericolo, mi lancio addosso all’amico per spostarlo dalla traiettoria dell’auto.
Un flash, un colpo secco sulla schiena.
Perdo i sensi, ancora.

Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Sento di poter muovere un poco le mani, ora, ma non riesco a trovare la strada per gli occhi. Mi limito ad ascoltare ciò che mi sta attorno, rimanendo immobile.
«Ce la farà, Sherlock».
Lestrade?
Sherlock non risponde, sta zitto. Non lo sento, non fa il minimo rumore, ma percepisco la sua presenza al mio fianco. Il suo sguardo mi penetra la pelle, riesco ad avvertire il suo respiro gelido perfino da qua.
Un cigolio, il rumore di due superfici lisce in collisione. Lestrade se n’è andato, ora siamo soli.
Freddo, di nuovo. Freddo nelle vene, freddo nella testa, freddo nel cuore.
«John».
In quel momento Sherlock mi prende la mano fra le sue, ne sfiora le falangi con improvvisa delicatezza, quasi temesse di vedermi sgretolare sotto un tocco troppo intenso. Assaporo il momento, senza muovere la mano.
«John, ho paura».
Le sue parole mi colpiscono il cuore, e ciò mi fa più male di quanto mai potrebbero fare le sue mani.
Sherlock ha paura.
La certezza racchiusa in quelle parole è talmente distruttiva che mi avrebbe fatto ricadere facilmente nella morsa del buio, se non avessi lottato con tutte le mie forze. Mi accorgo che, senza rendermene conto, ho contratto lievemente le dita stringendole attorno a quelle di Sherlock.
Trattiene il respiro. Se ne è accorto.
«So che mi senti, John», mormora, e la sua voce è piena di rammarico. «Ci sono opinioni diverse sullo status mentale del paziente durante il coma, ma io sono sicuro che mi stai ascoltando. E ho bisogno, ho bisogno…». Si interrompe. La sua voce è spezzata, quasi come se stesse combattendo con sé stesso per non scoppiare in lacrime.
Piangere? Sherlock Holmes?
«Ho bisogno che mi ascolti, John», biascica, riprendendo piano il controllo di sé. «Perché l’hai fatto, John? Perché? Quale pazzo istinto suicida ti ha mosso a fare ciò che hai fatto, dannazione?».
L’amore?
«Sei un cretino, John. Avresti dovuto lasciarmi finire sotto quella macchina, così una volta per tutte avrei imparato la lezione. E invece quello in coma da giorni adesso sei tu».
Ma io sto bene!, vorrei urlargli. Ascoltami, guardami, sto bene! Sono qui!.
E invece taccio. Lo ascolto e basta, muovendo impercettibilmente l’indice sul palmo della sua mano. Non riesco a fare di più, non riesco a consolarlo come vorrei. Sono troppo debole.
E, infine, dopo alcuni minuti, anche Sherlock decide di lasciarmi solo. Fa scivolare via la sua mano dalla mia, sfiorandone il palmo con leggerezza, e contemporaneamente si alza facendo scricchiolare la sedia.
In quel momento, non so cosa mi prende.
Non esiste più la debolezza, non sono più fiacco. Ritrovo la strada per ogni singolo muscolo del mio corpo, del mio viso, dei miei arti. In uno scatto di improvvisa forza, stringo le dita lunghe e sottili di Sherlock fra le mie.
Il momento è perfetto, ma qualcosa ha sconvolto Sherlock.
«INFERMIERA!».
Non capisco, sono distratto, vuoto, assente; lo sono perfino quando spalanco gli occhi e guardo il soffitto bianco, terrorizzato.
Sagome indistinte si muovono velocemente davanti a me, biascicando parole che non riesco a comprendere. In uno sprazzo di lucidità, mentre la mano di Sherlock è ancora vicino alla mia nonostante i moniti dei dottori, tutto ritorna ovvio nella mia mente.
Bip. Bip. Bip.
Il mio cuore batte troppo in fretta, troppo. Il mio corpo è scosso da convulsioni. La vista mi si offusca.
Nero, ancora. Non c’è più nulla.

Buio.
Silenzio.
Bip. Bip. Bip.
Non c’è più nessuno nella stanza. Lo so perché, svegliandomi, sono finalmente riuscito ad aprire gli occhi senza scatenare la tempesta attorno a me.
Pensare a ciò che è accaduto senza far impazzire di nuovo l’elettrocardiogramma è difficile, ma niente riesce a togliermi dalla mente le parole di Sherlock.
Ho paura, John”.
Desidero rassicurarlo ora più di qualsiasi altro momento nella mia vita. Ho bisogno di averlo qua, ma per una volta che sono sveglio, nessuno è nella stanza.
Il silenzio fa paura.
Anche Lestrade era lì, ricordo, osservando l’intonaco bianco del muro. Anche Lestrade se n’è andato.
Lestrade, Sherlock. Qualcun altro era stato a trovarmi? Non ricordavo.
Mrs. Hudson sapeva? Qualcuno aveva avvisato Sarah?
Da quanto tempo ero lì?
Perdo – come se non l’avessi già fatto da tempo - la concezione del tempo ponendomi più domande di quanto mi fosse lecito. Non so che ora è, che giorno è, che mese è.
Non so cosa mi è successo nell’incidente. Non so quanto tempo sono stato in coma.
Non so come Sherlock ha preso il mio risveglio.
Rimango chissà quanto tempo a riflettere sull’accaduto, fino a quando, con mia sorpresa, qualcuno mi tamburella sulla spalla.
«Jawn?».
Mi volto verso il muro a cui stavo dando le spalle e, con mia sorpresa, scopro Sherlock seduto su una sedia in un angolino a me nascosto dalla stanza.
Osservo i suoi vestiti spiegazzati e i riccioli spettinati. Chiaramente ha passato la notte con me, e io non mi ero nemmeno accorto della sua presenza.
Si stropiccia gli occhi, senza dare alcun segno di emozione.
È evidente che è imbarazzato per il suo comportamento del giorno prima.
È evidente che sa che ero in ascolto.
È evidente che, anche se non vuole più darlo a vedere, è preoccupato per me.
«Da quanto sei sveglio, John?».
Tento di parlare, ma la mia gola è secca e brucia, e mi esce solo un misero squittio. Cercando di farlo con nonchalance, mi stringo nelle spalle e mi schiarisco la voce.
«Non saprei», biascico, e non posso che arrossire per la mia voce che, più di quella di un uomo, sembra un miagolio. Lui sorride, compiaciuto, e affonda nella sedia di plastica. «Puoi iniziare a chiedermi quello che vuoi, sai».
«Cos’è successo nell’incidente?».
«
Emnopneumotorace. Ieri, quando ti sei svegliato, hai avuto una piccola crisi respiratoria».
Sono stupito. Non mi ero accorto di nulla, ma forse ero troppo annebbiato per capire qualsiasi cosa.
«Hanno già operato la toracotomia?».
Scuote la testa, e un brivido gli scuote le spalle. «Domani».
Intanto, insieme alla lucidità, piano piano riprendo coscienza di tutto: riesco a muovermi nonostante la mia debolezza e, ora che ci faccio caso, sento un lieve dolore al centro del petto. Nemmeno il bruciore alla gola era immaginario.
Osservo il tubicino che mi entra nell’avambraccio. Qualcuno deve avermi dato degli antidolorifici.
«Hai bisogno di insultarmi ancora per mandar via la preoccupazione?», mormoro infine, tentando di rompere il ghiaccio.
Sherlock pare ridestarsi dalla sua strana full-immersion nell’ansia, e mi fissa mettendomi in soggezione. «Allora è vero. Mi hai sentito».
Lo ignoro. «Ringraziarmi no, eh? “Cretino”! La prossima volta ti investo direttamente io».
E, in quel momento, entrambi scoppiamo a ridere. Scoppiamo a ridere perché non ne possiamo più di quest’ansia, nonostante il fatto che stiamo parlando solo da qualche minuto. Scoppiamo a ridere perché, malgrado la situazione sia arcigna, siamo sicuri che andrà tutto bene. Scoppiamo a ridere perché, come tutte le sante volte, ci siamo cacciati di nuovo nei guai.
Ma, improvvisamente, qualcosa cambia.
Mentre rido, mi ritrovo completamente senza ossigeno. Annaspo, reprimendo le ultime risate, e incontro lo sguardo improvvisamente terrorizzato di Sherlock. Il mio respiro è affannoso quando urla per chiamare aiuto, lo è quando la mia vista si riempie di puntini neri e lo è quando l’elettrocardiogramma impazzisce sopra la mia testa.
L’ultima cosa che vedo prima di perdere i sensi sono i suoi occhi azzurri colmi di lacrime.

Buio.
Silenzio.
Qualcosa non va. Il costante “bip” del monitor che seguiva il mio cuore non c’è più a tenermi compagnia durante il risveglio.
Sono morto?
No. La morte non può essere così scomoda.
Apro gli occhi, di nuovo. Tutto si muove a raffica, e milioni di voci si fondono nella mia testa. Nella confusione più totale, è solamente una di quelle che mi tiene ancora attaccato alla vita.
«John. Oh, no, no, no, no. John, John, John!».
Sherlock è vicino al mio orecchio, mi parla con la sua voce piena di rammarico e piange. Piange come non ha fatto mai, piange mentre i medici trasportano via la mia barella, piange mentre disperatamente cerca di farsi sentire da me.
«Mi senti, John? Continua a guardarmi, non osare perdere i sensi!».
Mi rendo conto, improvvisamente, che i miei occhi non lo hanno lasciato nemmeno per un secondo. Seguo con lo sguardo il suo viso rigato dalle lacrime, seguo la sua figura che si affanna per stare dietro alla mia barella. Voglio parlare, apro la bocca per farlo, ma non riesco. Qualcosa è premuto dentro la mia gola, fa male.
«Non parlare, John, non parlare. Andrà tutto bene, guardami!».
Ho un tubo endotracheale ficcato in gola, e non so come riesco a capirlo nella confusione della mia mente. Senza che nessuno mi abbia detto niente, senza che la tristezza mi assalga o che un fiotto di speranza si faccia strada dentro di me, capisco.
Sto per morire.
Sto per morire, ma sono sereno. Sono sereno, senza un motivo, perché mentre muoio Sherlock è lì con me.
Sento lo sguardo di Sherlock addosso. Dischiudo le labbra e, poco prima che i medici mi rinchiudano nella sala operatoria, mormoro una singola, unica parola.
«Vivi».
Silenzio.
Buio.



Angolo Autrice
Eccomi qui con la mia seconda storia su Sherlock. Premetto che, nella scorsa, avevo parlato di una FanFiction work-in-progress, ovvero il seguito di quella. Ebbene, questa non è la storia di cui parlavo, ma una Fanfiction a sé che mi è venuta in mente rileggendo un libro comprato mesi fa.
Il libro in questione è Muses di Francesco Falconi, da cui provengono le prime righe fino al numero (1).  In effetti, beh, non solo questa frase non è farina del mio sacco: anche l’ultima parola di John, “vivi”, mi è stata suggerita dal R.P. Evans nel suo libro Il linguaggio segreto della vita, in cui la moglie del protagonista, timorosa di come il marito prenderà la sua morte, gli sussurra questa richiesta finale nei suoi ultimi momenti.
Ok, basta disclaimer. Tralascio la storia originale di questa fanfiction: era nata come FF sui miei amatissimi Muse, ma poi John e Sherlock si sono autoimposti ed è andata a finire come potete vedere.
Una canzone che mi ha particolarmente aiutato a scrivere è stata invece No Sound But The Wind degli Editors, canzone che ultimamente, oltre alla mia fonte di ispirazione, è stata anche ragione dei miei più intensi momenti di depressione/demoralizzazione/perdita di autostima e dei conseguenti pianti isterici da cui questa Fanfiction è stata originata. Vi consiglierei di leggere il testo perché, se ci si riflette, è qualcosa di meraviglioso… ma anche no, fatelo a vostro rischio e pericolo.
Ok, non mi dilungo troppo – come se non l’avessi già fatto! – e chiudo avvisandovi che questa storia avrà solo due capitoli e che non so quante cavolate io possa aver scritto, in quanto non sono né un medico né un’appassionata di medicina. Tutto ciò che c’è in questa storia è frutto di Wikipedia usata un po’ a casaccio e della mente di una mente bacata senza beta, quindi avete il diritto di insultarmi quanto volete.
Spero di vedere molte recensioni, che siano buone o cattive non importa. Capirò.
Baci,
WaryJMS



 

   
 
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