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Autore: Angel Selphie    19/02/2007    2 recensioni
È una storia ormai dimenticata, quella che sto per raccontare, e non so nemmeno quanto giusto sia riportarla alla memoria. Non so perché ne sento il bisogno: forse perché il suo peso grava sempre di più su di me, forse perché sono pazza o forse solo perché amo l’orrido. […]
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voto di Sangue - La Venticinquesima Ora

È una storia ormai dimenticata, quella che sto per raccontare, e non so nemmeno quanto giusto sia riportarla alla memoria. Non so perché ne sento il bisogno: forse perché il suo peso grava sempre di più su di me, forse perché sono pazza o forse solo perché amo l’orrido. Tuttavia le motivazioni non sono importanti al fine della mia narrazione, né mai lo saranno.
Tutto ebbe inizio circa cinquecento anni fa, in un luogo dimenticato da tutti, un piccolo paesino situato vicino alla cima di una delle vette più nebbiose della catena montuosa che delimita il confine nord di questo Stato, un paesino dominato da un maniero oscuro. A quel tempo vivevo là al villaggio, e conducevo un’esistenza tutto sommato felice. La mia era una famiglia di contadini e allevatori che con il tempo si erano notevolmente arricchiti, e infatti, anche se vivevamo in maniera abbastanza spartana, non avevamo mai dovuto preoccuparci di non poter sbarcare il lunario, anzi! Da qui si può dedurre che non avevamo notevoli pensieri. Io ero giovane e bella. Avevo lunghissimi capelli dello stesso colore del fuoco, la carnagione chiara e meravigliosi occhi verdi: molti giovani mi facevano la corte, ma io avevo occhi solo per lui, per il mio Gareth. Lui era figlio di un mercante della zona, e anche la sua famiglia era considerata, non a torto, benestante. Si era trasferito da poco al paese, circa due anni, e fin dal principio mi ero innamorata di lui, dei suoi occhi neri e profondi, di quei capelli che avevano lo stesso colore caldo delle castagne. Me ne ero innamorata, ma dovevo fare i conti con altre ragazze, tutte molto attratte dal giovane. Certo, alcune erano già fidanzate o addirittura sposate, anche se giovanissime, ma ce n’erano anche di libere da qualsiasi vincolo sentimentale, proprio come me. Nonostante la gran quantità di donne che ambivano a lui, Gareth non si curava di nessuna in particolare. Soltanto con me pareva aver stabilito una specie di rapporto di amicizia: sinceramente, erano più frequenti le volte che litigavamo, rispetto alle altre, ma a noi stava bene così, perché nessuno se la prendeva per le parole dell’altro. Una delle cose che ci accomunava era la nostra passione per il combattimento. Fin da piccola le spade mi avevano affascinata, tanto che per un breve periodo mio padre mi aveva permesso di prendere lezioni di scherma presso un maestro che abitava il un centro lì vicino. Ne avevo fatto ritorno profondamente cambiata: il mio carattere si era un po’ indurito, ed ero diventata un’amante della disciplina, per quanto non avessi fissazioni di nessun tipo. Inoltre avevo portato con me, quale ricordo di quell’esperienza indimenticabile, la spada che il maestro mi aveva donato l’ultimo giorno di permanenza presso di lui. Era un’arma di pregevolissima fattura, il cui valore superava probabilmente quello della piccola casa in cui abitavamo, ma non ricevetti mai pressioni per venderla o comunque sbarazzarmene. Effettivamente, vivevo in una famiglia oltremodo liberale, all’interno della quale nessuno mi aveva mai posto vincoli eccessivi, quei vincoli che invece tutte le ragazze della mia età si vedevano costrette a rispettare. A pensarci bene, l’educazione che avevo ricevuto sarebbe stata più adatta ad un maschio piuttosto che a una femmina, ma essendo io la primogenita di tre figlie, i miei genitori avevano ritenuto che ci fosse bisogno di una presenza forte in casa, e a me la cosa non dispiaceva affatto: godevo di tutte le libertà di un ragazzo e di tutti i privilegi di una ragazza.
Comunque, ritornando alla mia passione per il combattimento, da quando avevo conosciuto Gareth avevo avuto modo di fare pratica. Lui aveva studiato scherma per tre anni, e misurarmi con lui era sempre un piacere: potevo apprendere nuove tecniche, mettere alla prova le mie abilità e scaricare la tensione. Non erano rari, perciò, i pomeriggi in cui ci vedevamo: ci rifugiavamo all’interno di una vecchia stalla abbandonata per buona parte dell’anno, e lì davamo sfogo a tutte le nostre energie, menando fendenti a destra e a manca, stando comunque attenti a non farci del male. Uno che fosse passato davanti alla stalla durante i nostri “allenamenti” avrebbe sentito solo un gran clangore di spade. Era addirittura capitato che uno degli abitanti del villaggio, passando lì davanti, avesse pensato che tutto quel rumore fosse opera del Maligno, ed era andato a chiamare il parroco pregandolo di compiere un esorcismo.
A parte questo, la vita procedeva normalmente, e con lo scorrere dei giorni cominciai a rendermi sempre più conto che la presenza di Gareth al mio fianco era diventata per me indispensabile come l’aria che respiravo. Insistevo perché ci allenassimo ogni giorno, e cercavo di incontrarlo non appena mi fosse possibile. Nonostante l’amore totale che provavo per lui, ero convinta che non ricambiasse i miei sentimenti. Ma mi sbagliavo.
Tutto si chiarì un pomeriggio. Come al solito eravamo chiusi nella stalla a combattere quando lui, stremato e sudato, si fermò.
-Ti va di fermarti per un po’, Danacy? Non ce la faccio più!- sbuffò sorridendo, passandosi una mano sulla fronte per detergere il sudore.
-Sei già stanco?- ridacchiai io.
-Beh, ricorda che è da quasi tre ore che siamo chiusi qui! Penso che nemmeno i cavalieri del re si allenino così tanto!- osservò Gareth.
-Allora potresti sempre approfittarne e fare domanda per entrare a far parte della Guardia Reale, no?- lo stuzzicai, ben sapendo che quello di diventare cavaliere era uno dei suoi sogni più grandi.
-Chi, io? Il figlio di un mercante? Va bene sognare, Danacy, ma questo è troppo!- esclamò con una punta di rammarico nella voce, prima di posare la spada e andarsi a stendere sulla paglia che si trovava in un angolo.
-Pensi forse che essere figlio di un mercante sia un disonore?- gli domandai, sdraiandomi al suo fianco.
-No, ma so bene qual è il mio posto nella scala sociale. Noi veniamo quasi per ultimi, sotto di noi ci sono solo i servi della gleba.-
-E allora? Il coraggio e il valore di un cavaliere non si misurano certo in base al suo lignaggio.-
-Temo che tu non possa capire.- sospirò lui, con la rassegnazione nel cuore e la tristezza negli occhi.
-No, hai ragione. Io non posso capire molte cose. Sono una donna, i miei desideri sono differenti dai tuoi, e non posso certo immedesimarmi in te. Però Gareth…però posso starti accanto, e posso incoraggiarti e spronarti, perché non tutti i sogni sono destinati a rimanere tali.- gli dissi per tirargli su il morale.
Dopo queste mie parole, restammo in silenzio. Non so per quanto: forse minuti, o magari ore. So solo che era bello stare distesi sulla paglia, nella semioscurità, e ascoltare il suo respiro sempre più calmo dopo lo sforzo. Era bello lasciarsi cullare dal nulla, assaporare quegli attimi di tranquillità e di felicità. Lo facevamo spesso, dopo aver combattuto, ma quel giorno era diverso, era come se l’aria fosse invasa da un insolito senso di attesa per qualcosa di bello che doveva ancora verificarsi. In effetti, continuavo a guardare il mio amico, quasi nella speranza che da un momento all’altro mi facesse una dichiarazione, anche se ero convinta che fosse impossibile. Comunque, ero certa che stesse per parlare, e la mia certezza si rivelo esatta.
-Sai, Danacy, tu sei diversa da tutte le altre ragazze.- affermò Gareth.
-Cosa intendi dire?- chiesi.
Non capivo dove volesse andare a parare.
-Intendo che tu non sei una di quelle che non pensano ad altro che alla casa e ai figli. Non hai la mentalità chiusa che è tipica di tutta la gente. Tu non vai alla ricerca di qualcuno che ti sposi e che ti prenda con sé per mantenerti. Sei uno spirito libero, ami combattere, ami misurarti anche con forze più grandi di te. Non hai paura di ciò che gli altri potrebbero pensare, non segui il viver comune solo per non avere problemi. Non sei quel tipo di persona terrorizzata da Dio, che fa di tutto pur di ingraziarselo. Sei semplicemente tu, sei te stessa, non quello che gli altri vogliono tu sia. Per questo ti ho sempre dimostrato fiducia. L’ho avvertito nell’aria già dalla prima volta che ci siamo visti. Vedevo tutte quelle ragazze avvicinarsi chiedendo notizie su di me, sulla mia vita, con tono falsamente interessato. Ti dirò la verità: so di essere un bel ragazzo e un ottimo partito, lo capisco da tutte le proposte di matrimonio che mi sono arrivate. Ma io non voglio legarmi a qualcuno che non capirà mai la mia sete di libertà, non voglio dovermi ridurre a diventare mercante rinunciando ai miei sogni. Non voglio fare la vita di mio padre, per quanto egli sia un uomo degno di tutto il mio rispetto. Tuttavia credi forse che io non lo veda? Credi che non sappia a cosa abbia dovuto dire di no per fare contenti i suoi genitori? Ecco, io non voglio dire di no alle mie ambizioni. Voglio provare, Danacy, ma temo che nessuna ragazza all’infuori di te potrà mai capirlo.- sospirò.
Lo guardai interrogativamente, anche se il buio che avvolgeva la stalla molto probabilmente non gli permise di notare la mia espressione stranita. Cosa intendeva dire Gareth con quelle parole, con quello sfogo accorato e disperato? Perché mi stava dicendo tutto ciò? Non lo sapevo, e non volevo chiederglielo, temendo che con una domanda del genere ai suoi occhi sarei risultata solo una sciocca. Fortunatamente, fu lui a dipanare la matassa dei miei dubbi.
-Penso che mi riterrai un povero stupido quando ti avrò posto la mia richiesta, proprio io che mi vanto di non aver legami e affermo di non volerne nemmeno sentir parlare, però da quando ti conosco è tutto diverso, quindi…. Vuoi sposarmi, Danacy? Non devi rispondermi ora, non sentirti obbligata a farlo.-
A sentire quelle parole il mio cuore perse un battito. Non potevo crederci: Gareth, l’uomo dei miei sogni, mi aveva appena chiesto di sposarlo! Voleva condividere il resto della sua vita con me! Non sapevo cosa fare: da una parte avrei voluto saltare per la gioia, dall’altra piangere di felicità, oppure gettarmi tra le braccia del mio amore e stringerlo forte a me. Nel frattempo, boccheggiavo come un pesce fuor d’acqua, nel tentativo di riuscire a respirare di nuovo dopo la sconcertante dichiarazione che mi era stata rivolta. Evidentemente dovevo avere un aspetto strano, perché il mio compagno di mille combattimenti mi chiese preoccupato:
-Cos’hai, Danacy? Stai male? Ho detto qualcosa che non va?-
Scossi la testa lentamente, cercando di ripetermi che era tutto vero, perché se una parte di me sapeva di aver udito le parole di Gareth, l’altra lo negava.
-Danacy? Dimmi qualcosa, qualsiasi cosa!- mi pregò.
-Sì…-
-Cosa?-
-Sì!-
-In che senso sì?-
-Nel senso che la risposta alla tua prima domanda è sì! Mille volte sì!-
-Intendi dire che mi sposerai?-
-Sì, Gareth! Io…era da quando ti ho visto la prima volta che sognavo di sentirti dire queste parole! Credo di essermi innamorata di te a prima vista, ma non osavo avvicinarmi, vista la folla di ragazze che avevi attorno a te!-
-Che sciocca sei stata! Per me è stato lo stesso. Mi hai colpito subito al cuore, Danacy!-
Sorrisi nel buio e mi avvicinai al mio compagno per un bacio. Ero felice, così felice che credevo sarei scoppiata, ma fortunatamente non accadde. Ignoravo, però, che quella felicità sarebbe stata effimera come un temporale estivo.
Accadde tutto sette giorni dopo quel bacio.
Io e Gareth non avevamo perso l’abitudine di allenarci ogni pomeriggio, e fra una pausa e l’altra discutevamo sul matrimonio. I nostri genitori erano stati entusiasti della nostra scelta, e la nostra felicità li aveva resi gioiosi e allegri, tanto allegri che insieme avevano deciso di festeggiare il nostro fidanzamento la stessa sera in cui avevano appreso la notizia. La reazione delle nostre famiglie era stata per noi veramente una fortuna. Se non l’avessero presa bene come speravamo, non avremmo potuto sposarci, e il nostro amore sarebbe stato smorzato sul nascere, come una fiamma sulla quale viene gettata l’acqua. Stavamo proprio parlando di questo durante una pausa dopo un combattimento particolarmente violento, sdraiati come al solito sulla paglia in un angolo.
-Il momento è propizio.- esordii io con fare misterioso.
-Cosa intendi, Danacy?-
-Insomma, l’estate è vicina, siamo quasi alla fine del quinto mese dell’anno. Penso che sia il momento giusto per sposarci.- spiegai.
-Lo credo anch’io. D’inverno la cerimonia sarebbe intralciata dal freddo, la neve coprirebbe la strada e molti dei nostri congiunti non potrebbero salire fin quassù per assistere al matrimonio.-
-Hai ragione.- approvai, accompagnando le parole con un cenno del capo.
Cadde il silenzio. Entrambi eravamo spossati dallo scontro di poco prima, che per me era stato decisamente fortunato, visto che ero riuscita a disarmare il mio compagno, anche se era durato talmente tanto da privarci delle forze. Sorrisi impercettibilmente, al pensiero della vita che mi aspettava, e mi incantai ad osservare un raggio di sole che, infiltratosi da una finestra posta sotto il tetto della stalla, stava illuminando l’esatto punto in cui io e Gareth avevamo lasciato le spade, facendole scintillare di mille bagliori. Ero talmente presa da quello spettacolo insolito, che non mi curai minimamente del leggero zampettare che avvertivo sul mio braccio, almeno fino a che una nuvola, spostata dal vento, non si mosse a coprire l’Astro del Giorno. Per effetto della nube dispettosa, il raggio di sole che colpiva le nostre armi svanì, distogliendomi quindi dalle mie divagazioni mentali e rendendomi cosciente del lieve pizzicore che stava risalendo lungo il braccio destro. Infastidita, mi voltai convinta che quella sensazione spiacevole fosse dovuta a qualche filo di paglia, ben decisa a rimuoverlo per tornare a godermi la tranquillità e il silenzio di quello stanzone. Ma quale non fu la mia sorpresa quando, una volta fissato lo sguardo sul mio arto destro, mi accorsi che non era il fieno a infastidirmi, bensì un grosso ragno peloso.
Non riuscii a trattenere un grido.
-Danacy! Cosa succede???- mi chiese Gareth, riscossosi bruscamente dal dormiveglia.
-Un ragno! Un maledettissimo ragno!- sbraitai, dimenando il braccio per far si che la bestia cadesse.
-Calma, adesso lo mando via!- mi rassicurò il mio ragazzo e, avvicinatosi, con una manata fece finire l’orribile creatura sul pavimento cosparso di fili d’erba secca.
-Che paura che ho preso! Comunque grazie!- ansimai, ancora spaventata.
-Non è niente ma…non pensavo che tu avessi paura dei ragni.-
-Non ho paura dei ragni! Solo…mi ha colto di sorpresa, ecco!- cercai di giustificarmi, anche se io stessa non ero troppo convinta delle mie parole.
I ragni mi avevano sempre fatto abbastanza impressione, ma non l’avrei ammesso neppure davanti all’Onnipotente.
-Dimostramelo!- esclamò Gareth.
-Prego?- chiesi di rimando.
-Dimostrami che non hai paura dei ragni.- ripeté sorridendo.
-Mi stai sfidando?- domandai io con un sorrisino di superiorità che avrebbe fatto scappare la pazienza anche a San Pietro.
-Secondo te?-
-Bene, e in cosa consisterebbe la sfida?-
-Ci addentreremo nel vecchio castello e vi trascorreremo la notte!-
-Il vecchio castello?-
-Esattamente! Che c’è, hai paura di Igraine?- mi provocò il mio compagno.
-Certo che no, quella è solo una vecchia leggenda!- ribattei, piccata.
La leggenda in questione era molto conosciuta al villaggio, ma era considerata un argomento tabù. Il mito voleva che nel castello che dominava il paesello, duecento anni prima fossero vissuti un importante nobiluomo e la sua stupenda moglie Igraine. Quest’ultima era una donna strana: aveva imposto al marito che le stanze del maniero rimanessero avvolte nella semioscurità e si mostrava in pubblico solo in occasione di grandi festeggiamenti, sempre e soltanto vestita con sfarzosi abiti neri impunturati di rosso. Già questo era stato sufficiente ai rappresentanti della nobiltà per considerarla alla stregua di una strega, ma quello che più li aveva colpiti era stato il suo aspetto fisico. Igraine aveva lunghissimi capelli d’ebano e occhi verdi dai riflessi dorati. Inoltre chi la conosceva bene andava in giro raccontando che i suoi canini fossero leggermente pronunciati. Nonostante queste voci, a cui la donna non dava assolutamente peso, nessuno mai l’aveva infastidita, e la sua vita al fianco del marito era trascorsa serenamente, o almeno così si credeva, fino alla notte dell’equinozio di primavera. Quella notte, fra quelle mura avvenne un omicidio. La mattina seguente il marito di Igraine venne trovato morto. Sul suo cadavere erano ben visibili tracce di avvelenamento, tuttavia sul collo si poteva chiaramente distinguere il segno di un morso. Naturalmente tutti i sospetti ricaddero sulla donna, tuttavia non si riuscirono mai a trovare le prove della sua colpevolezza. Il caso rimase irrisolto, ma nessuno smise mai di considerare Igraine colpevole. Anni dopo, anche lei morì, nella solitudine del suo enorme palazzo, odiata e disprezzata dagli abitanti del villaggio, ma nessuno mai trovò il suo corpo. Il castello, ormai disabitato e ritenuto maledetto, cadde in rovina e l’accesso venne sbarrato con tavole di legno. Nonostante ciò, si diceva che lo spirito inquieto di Igraine continuasse a vagare per quelle stanze deserte.
Ora, nessuno ci credeva più, ma lo stesso l’accesso al maniero era vietato. Comunque per me e Gareth questo particolare insignificante non avrebbe certo costituito un problema: le nostre spade erano ottime, avrebbero frantumato il legno ormai marcio in pochissimo tempo, probabilmente addirittura in un sol colpo. Le misure di sicurezza prese a quel tempo non sarebbero certo state sufficienti a fermarci, anche perché erano state applicate in fretta e furia per il timore che causava il sostare per troppo tempo vicino alle mura di quella che era stata ribattezzata “la Dimora del Diavolo”.
-Allora, Danacy, accetti?-
-Certo che sì! A che ora?-
-Stasera alle undici! Ricordi che notte sarà questa, vero?-
-Momentaneamente mi sfugge, Gareth. Che notte sarà?-
-La notte delle streghe, quella in cui le lancette dell’orologio vengono spostate indietro di un’ora!-
-Ah, è vero! Ma credi di spaventarmi con queste favolette?-
-Ovviamente no, cara!- mi prese in giro.
-Ridi, ridi! Ci vediamo questa notte alle undici di fronte al portone del castello!- conclusi io, prima di allontanarmi con un sorriso e uscire dalla stalla.

Il resto della giornata trascorse tranquillo. Non feci parola con nessuno della sfida, mi limitai a comportarmi come facevo normalmente, anche se uno strano senso di inquietudine mi opprimeva. Non avevo paura del castello, avevo paura di qualcos’altro, qualcosa di arcano, remoto, qualcosa a cui nemmeno io sapevo dare un nome. Comunque, paura o meno, avevo accettato la prova, e l’avrei portata a termine. Così attesi che tutti andassero a dormire, e che nelle strade si facesse silenzio. Quand’anche gli ultimi carri si furono allontanati, diedi uno sguardo oltre il vetro della finestra della mia stanza. Sul campanile della piccola chiesetta del paese, che dalla mia posizione riuscivo tranquillamente a scorgere, c’era un grande orologio che il quel momento segnava le undici meno un quarto. Sospirando, mi voltai e uscii dalla mia camera, percorrendo poi le scale e il corridoio, fino a giungere alla porta di casa, che aprii con cautela prima di uscire fulmineamente e di richiudermela dietro le spalle.
Buio e tranquillità ovunque. La notte era calma, ma la mia anima era sempre più inquieta. Perché quel maledetto presentimento non mi voleva abbandonare? Cosa potevo mai rischiare in un vecchio maniero fatiscente, tranne forse una tegola in testa? Nulla! E allora come mai il mio cuore mi diceva di non andare? Come mai mi metteva in guardia verso qualcosa di occulto e misterioso? Non ne avevo idea, e nemmeno lo volevo sapere! Decisi quindi di ignorare bellamente i battiti del mio cuore, che aumentavano man mano che il tempo passava, e di mettermi in cammino, visto che non avevo nessuna intenzione di giungere tardi al luogo dell’appuntamento. Lesta come solo un ladro potrebbe essere, mi introdussi nel piccolo capanno dove mio padre teneva le nostre due cavalle, Mihy e Meva. Sellai la seconda e partii al galoppo.
L’unico suono udibile era quello degli zoccoli del cavallo sul terreno battuto, e ogni tanto il tintinnio metallico di alcuni sonaglietti legati alla sella. Questo argentino suono era confortante, visto che mano a mano che mi avvicinavo alla meta il paesaggio cambiava. Tanto gli alberi del villaggio erano carichi di foglie in abbondanza, tanto quelli che circondavano il maniero erano spogli e nodosi, e le loro sagome, immerse nella notte scura, si allungavano in improbabili forme dettate dall’immaginazione, che tuttavia incutevano un certo terrore. Per mia fortuna arrivai prima di poter concedere al mio cervello il privilegio di perdersi troppo in quelle riflessioni paurose e senza senso.
Davanti al vecchio portone di legno ammuffito e putrefatto mi attendeva Gareth. Il suo volto era illuminato dalla fioca luce di una piccola torcia, luce che gettava ombre tetre sul suo bel viso abbronzato.
-Temevo non arrivassi più!- sorrise lui, nel vedermi.
-Uomo di poca fede!- commentai, scendendo da cavallo.
-Hai portato qualcosa per la notte?-
-Una coperta, una mela nel caso mi venisse fame ed un otre con un po’ d’acqua. Dovrebbe essere sufficiente!- constatai, prima di legare la mia cavalcatura all’albero più vicino.
Quand’anche questa operazione fu compiuta, entrambi sguainammo le spade e colpimmo contemporaneamente l’uscio rovinato da tempo e intemperie. Questo non oppose resistenza: le travi che lo tenevano chiuso saltarono, e noi avemmo libero accesso. Prontamente io raccolsi da terra una delle schegge della trave e la avvicinai alla torcia di Gareth, in modo da incendiarla. Fatto anche questo, eravamo pronti. Con le fiaccole alzate, iniziammo ad avanzare lungo un grande corridoio, guardandoci attentamente attorno. I muri stavano cadendo, sotto il peso degli anni e della trascuratezza, e molti dei portali che una volta segnavano l’ingresso delle varie stanze ora non c’erano più, consumati dallo scorrere degli anni e dai topi. Questo permetteva di scorgere gli interni dei saloni, ancora arredati. Le pareti erano spesso tappezzate di arazzi, molti dei quali strappati (probabilmente a causa della razzia che fecero i contadini prima di chiudere il palazzo), e gli ambienti erano ammobiliati con pochi ma lussuosi oggetti. Quelli più leggeri erano stati trafugati, ma i pesanti tavoli di legno e gli armadi erano ancora intatti.
Intanto noi continuavamo ad avanzare. Non ero tranquilla, anche se il mio compagno era al mio fianco: oltre all’inquietudine che mi portavo dietro fin da casa, si era aggiunta la spiacevolissima sensazione di essere osservata, il che mi costringeva a voltarmi spesso e volentieri indietro per assicurarmi che il mio fosse solo un presentimento e non una realtà. Sapevo che era stupido pensare che lì dentro ci fosse qualcuno, ma una volta, girandomi, mi era parso di scorgere un paio di brillanti occhi verdi, immersi nel buio. Naturalmente non esitai a riferirlo al mio amato.
-Ho visto qualcosa dietro di noi.- affermai con sicurezza.
-Non dire assurdità, Danacy.-
-Non sto mentendo! Ho visto un paio d’occhi verdi che ci fissavano, ne sono sicura.-
-Avrai visto un pipistrello. È normale: questo posto è la loro ideale dimora. Stai tranquilla, non dirmi che già ti arrendi!-
-Non sia mai! Comunque…se tu dici che è un pipistrello…. Ma io è da quando siamo qui che ho la sensazione di essere tenuta d’occhio!-
-Figurati, è solo suggestione, credimi. Piuttosto, vediamo di trovarci un posto abbastanza riparato per dormire!-
Sospirando, feci cenno di sì con la testa, e ci rimettemmo in cammino.
Poco più tardi giungemmo in un luogo che non ci saremmo mai aspettati di vedere. Ci trovavamo in una camera arredata con un enorme letto a baldacchino con ancora il suo corredo di coperte e lenzuola, lacerate dai roditori nel corso di quei due secoli. Vicino al letto c’era un enorme armadio con un’anta leggermente discosta.
Dimentica di ogni timore che fino a poco prima avevo serbato nel cuore, corsi in direzione di quel mobile, ne scostai i battenti e feci luce con la torcia. Davanti ai miei occhi si presentò una vasta serie di abiti femminili. Erano tutti meravigliosamente belli, e molto ben conservati. Tra l’altro, tutti erano neri e avevano decorazioni rosse. A quella constatazione, sobbalzai.
-Gareth, sai dove siamo?-
-Credo nell’ala nord del castello, ma non so con precisione. Perché me lo chiedi? E soprattutto, perché sei corsa verso quel vecchio armadio come una folle? Che ti prende?-
-Vieni a dare un’occhiata!- dissi io.
-Ommioddio!- esclamò lui, dopo aver constatato cosa conteneva il guardaroba.
-Ti rendi conto? Questa è la camera da letto di Igraine!- esclamai, su di giri per la scoperta.
-Non è possibile!-
-Guarda, non sono bellissimi?- chiesi io, rapita, riferendomi ai vestiti.
-Hai ragione!-
Sia io che Gareth ci voltammo di scatto: la voce che aveva parlato era tipicamente femminile, leggermente spettrale ma con una nota di sensualità. Le fiaccole gettarono la loro luce su una figura di donna: lunghi capelli neri, occhi verdi dai riflessi aurei, corpo perfetto e un vestito abbastanza provocante addosso. La donna mosse alcuni passi nella nostra direzione.
-Chi sei?- domandai con un fil di voce.
-Dovrei essere io a porti questa domanda, ragazzina insolente! Osi entrare in casa mia con quel ragazzo, e hai anche la faccia tosta di domandarmi chi sono?- sibilò adirata la signora misteriosa.
-Se lo domando è perché non so chi sei! Comunque il mio nome è Danacy, e il ragazzo al mio fianco è Gareth! Ora ci siamo presentati, e credo che tu dovresti fare altrettanto!- affermai.
-Vi trovate al cospetto di Igraine!-
-Non prenderci in giro! Igraine è morta duecento anni fa!- si alterò Gareth, mentre io lo trattenevo per un braccio.
-Se non mi credi, peggio per te! Ma prova ad osservare il dipinto sopra al letto!- ordinò la donna con un sorriso diabolico.
Con mano tremante, illuminammo il punto che ci era stato indicato: la luce cadde su un ritratto, un ritratto di una donna, il ritratto della stessa donna che era nella stanza ora. Certo, avrebbe anche potuto trattarsi di una semplice somiglianza che accomunava le due signore, ma quando il mio sguardo si soffermò sul viso dipinto, trasalii accorgendomi che sia il volto ne dipinto sia quello della donna presentavano tre nei sotto l’occhio sinistro. Infine, la data scritta sul quadro mi tolse ogni residuo di dubbio che avrebbe potuto popolare la mia testa.
-Allora, siete ancora convinti che io non sia Igraine?- domandò la donna, riscuotendomi dal mio stato di intorpidimento mentale.
-Ma…come puoi tu essere ancora viva?- chiesi.
-Oh, è molto semplice. Vi basti pensare che non sono umana!-
-Basta, ho sentito abbastanza! Andiamocene, Danacy!- mi intimò Gareth, prendendomi per un braccio e cominciando ad avanzare nella direzione dalla quale eravamo venuti.
-Fossi in te non lo farei!- esclamò la proprietaria del maniero, sorridendo.
-E perché?- domandammo all’unisono io e il mio compagno.
-Perché non vi permetterò di uscire di qui!-
-Come sarebbe a dire?- mi meravigliai io.
-Sarebbe a dire che devo raccontarvi una storia. Il mio cuore sente i vostri pensieri. So che siete curiosi, so che vorreste conoscere ciò che accadde fra queste mura due secoli or sono, e in quanto padrona di casa non posso negarvi il favore.-
Io non ero affatto sicura di voler sentire quello che Igraine aveva da dirci, e per di più il presentimento che di lì a poco qualcosa di orribile sarebbe accaduto si stava acuendo. Il mio cuore martellava nel petto, sentivo il sangue pulsarmi nelle vene con ritmo crescente, la paura serrarmi la gola in una morsa gelata. Eppure non riuscivo a muovermi. Non un solo muscolo del mio corpo dava segno di voler obbedire diligentemente ai miei comandi. I miei piedi, come del resto anche quelli di Gareth, erano incollati al pavimento, e a quel punto mi venne naturale chiedermi se fosse solo paura o se di mezzo ci fosse la magia, ma non ebbi tempo di interrogarmi oltre, perché la voce di quella che si era rivelata la nostra carceriera riempì l’aria.
-Dovete sapere innanzitutto che io sono una delle pochissime esponenti della stirpe dei vampiri. Tutti i miei simili vennero sterminati molti secoli fa, e di loro non rimase che un polveroso ricordo ormai quasi cancellato. La mia famiglia era una delle poche ed essere ancora attiva e potente, e proprio per questo, non potendo maritarmi ad un maschio della mia specie, mi diede in sposa ad Herion, un uomo ricco e nobile, l’unico che si dimostrasse all’altezza della mia famiglia. Io non lo amavo, ma non potei oppormi, tuttavia non portavo rancore al mio consorte; non ne avrei certo avuto motivo. Lui, invece, sembrò non digerire il fatto di doversi sposare con una creatura che da tutti veniva etichettata come “figlia di Satana”. Ignorando il vincolo che ci univa, si diede da fare ed ebbe molte amanti, mentre io rimanevo segregata per tutto il giorno e per tutta la notte nelle mie stanze. Comunque ero riuscita ad ottenere di poter lasciare il castello nella penombra anche di giorno. L’unica ala illuminata era quella dove alloggiava mio marito, che non sopportava il buio e pareva, anzi, averne paura: per me il suo tenere le tende aperte non rappresentava un problema. Non avevo il permesso di addentrarmi nei suoi appartamenti. L’unico privilegio che il mio sposo mi aveva riservato era il poterlo accompagnare alle feste, ed era in quelle occasioni che sfoggiavo il mio ricco corredo fatto di pregiatissimi vestiti. Ad uno di questi sfarzosi banchetti ebbi la possibilità di conoscere colui che poi divenne il mio amante. Vampiro quanto me, ma privo di un nome prestigioso, era stato scartato dai miei genitori come possibile pretendente, ma a me non importava dare lustro alla famiglia. Ci incontravamo in un luogo che solo noi conoscevamo, un piccolo capanno in disuso, e lì trascorrevamo le nostre notti. Purtroppo però, come tutti sanno, la felicità è effimera. Herion cominciò a sospettare qualcosa: ero sempre allegra, cantavo spesso e sorridevo in continuazione, tutte cose che prima non accadevano mai. Venne poi a sapere dalla mia cameriera, l’unica a cui avevo confidato il segreto nella speranza che lo mantenesse, che uscivo quasi ogni notte, calandomi da una finestra. Così una sera decise di pedinarmi. Mi seguì quatto quatto, e quando giunsi al luogo dell’appuntamento si nascose, aspettando il momento propizio per agire. L’occasione non tardò a presentarglisi: il mio amante, sentendomi arrivare, si affrettò ad aprirmi la porta, e fu allora che tutto accadde. Vidi il mio consorte, una macchia più scura stagliata contro il buio della notte, sbucare da dietro il tronco di un albero lì vicino. Lo vidi afferrare per il bavero l’uomo che amavo, guardai terrorizzata la sua mano estrarre dal fodero un pugnale dalla lama d’argento e conficcargliela con forza e violenza nel cuore. L’istinto fu più forte della ragione. Mentre Gilras si accasciava al suolo ed esalava il suo ultimo respiro immerso in un lago del suo stesso sangue, io mi scagliai su Herion e lo morsi sul collo. Non gli succhiai abbastanza sangue da ucciderlo o renderlo un vampiro come me, ma pur sempre abbastanza per farlo svenire. Fatto ciò mi allontanai, trascinandomi dietro il corpo privo di coscienza di mio marito. In cuor mio sentii di odiarlo ancora di più. aveva distrutto doppiamente la mia vita, mi aveva ridotta ad una nullità, mi aveva ferita e mi aveva mancato di rispetto, e queste ragioni, mischiate alla rabbia cieca e al folle dolore di quei momenti furono sufficienti a farmi prendere la decisione definitiva. Quell’uomo non meritava di vivere. Fu per questo che, appena giunta al castello, mi affrettai a correre nella stanza dove venivano conservate tutte le erbe medicinali. Lì ne scelsi alcune fra le più potenti, quelle che sapevo che, triturate e poi mescolate insieme, sarebbero state letali, e dopo averle adeguatamente preparate le somministrai io stessa a quel miserevole uomo che mi ritrovavo come compagno. Troppo debole per la perdita di sangue che io stessa gli avevo causato, non osò proferir parola in merito al contenuto della coppa che gli porsi. Bevve tutto d’un fiato, senza lagnarsi e senza fare domande. L’effetto fu devastante: il cuore arrestò quasi immediatamente i suoi battiti. Non avevo mai visto nessuno morire così velocemente, nemmeno durante le mie uscite notturne quando, per la sete di sangue, mi vedevo costretta ad uccidere qualche grosso animale e non nascondo che sulle prime ne fui impressionata. Tuttavia quel che era fatto era fatto, non avrei potuto riportare in vita quell’uomo disgustoso, e non volevo nemmeno farlo, quindi uscii dalla sua stanza e me ne andai a dormire tranquillamente, senza ripensamenti o sensi di colpa. Era la sera dell’equinozio di primavera quando tutto ciò accadde. La mattina seguente, quando il corpo venne ritrovato, immediatamente i domestici si scagliarono contro di me. Sapevano che non ero umana, o meglio lo sapevano inconsciamente, non avevano mai smesso di considerarmi una “messaggera del Maligno”, perciò venne loro naturale credere che avessi ammazzato Herion per soddisfare qualche macabro desiderio di Lucifero oppure per uno strano rito di sangue i cui scopi sarebbero stati noti a me sola. Personalmente, non feci mai nulla per discolparmi: sapevo che attaccarmi apertamente non sarebbe stato saggio da parte degli abitanti del villaggio, poiché con la morte di mio marito ero ufficialmente divenuta padrona di quelle terre, e come mi aspettavo il caso rimase del tutto irrisolto. Trascorsero gli anni. La gente non dimenticò mai completamente quella che era definita una “sporca faccenda”, ma non lo diede a vedere. Io continuai ad occuparmi di quelli che a tutti gli effetti erano ormai i miei possedimenti pur agendo nell’ombra, come ad uno della mia specie si confà. Assumevo regolarmente una pozione che mi invecchiava: essendo immortale ed avendo il dono dell’eterna giovinezza, la mia beltà non era destinata alla decadenza, ma sapevo che se i popolani mi avessero vista sempre giovane e bella, avrebbero dato ancora più credito alle voci che mi volevano “serva fedele del Diavolo”. Alla fine, scomparvi. Avevo ormai raggiunto fisicamente l’aspetto di una donna di circa settant’anni, e questo mi convinse a simulare la mia morte. Più che altro, mi limitai ad andarmene per un paio d’anni. Tornai solo quando le acque si furono calmate. Trovai il maniero sprangato, ma per me non fu un problema entrarvi e riprenderne possesso, complice la paura che i paesani ormai nutrivano per questo palazzo “maledetto”.-
Improvvisamente, Igraine tacque. Io e Gareth la fissavamo sbalorditi. Non sapevamo ancora se credere o meno alla versione dei fatti di quella vampira. E se fosse stata tutta una menzogna? Se il suo lacrimevole racconto non fosse stato altro che una mossa per tirarci dalla sua parte, per spingerci a difenderla? Ma a che pro? I miei compaesani ormai la credevano morta, temevano solo la presenza di un suo fantasma. E allora cosa voleva da noi? La nostra commiserazione? La pietà? Il conforto di parole amiche? O magari era stato tutto solo una sfogo reso necessario da secoli di forzato silenzio e patemi mentali? Non potevo, da sola, rispondere agli interrogativi che mi balenavano nella mente con sempre maggiore insistenza, e non mi restava che affidarmi nuovamente alle parole di quella donna. Tuttavia, prima che potessi aprir bocca, di nuovo lei parlò.
-Non so immaginare la quantità di domande che vorreste pormi, tuttavia ad alcune, che a me sembrano ovvie, proverò a dar risposta. Se vi siete chiesti come sia possibile che, dopo aver assunto una pozione invecchiante, io si ancora giovane, la risposta è semplice: non bevendo più quell’intruglio, il mio corpo, lentamente è ritornato ad essere quello di un tempo. La mia carne non può corrompersi, sono una creatura immortale dotata dell’eterna giovinezza. Solo il morso di un altro vampiro potrebbe portarmi ad un surrogato della morte, quello che viene comunemente denominato coma. E se poi volete sapere come mai io vi abbia raccontato tutto ciò è semplice: volevo rendervi più comprensibile la mia vicenda.-
Continuavo ad essere sempre più perplessa, e Gareth era nelle mie stesse condizioni.
Il senso di paura che mi tormentava si fece d’improvviso più acuto. Avrei desiderato di poter fuggire da quell’orribile posto, portando con me il mio compagno ma, in un modo o nell’altro, sentivo che non mi sarebbe stato possibile.
-Naturalmente avrete immaginato anche da soli ciò che vi aspetta. Sapete troppo, e se voi andaste a raccontarlo in giro per me sarebbe la fine di tutto.- aggiunse Igraine.
Tremavo. Tremavo come una foglia, e cominciavo solo allora a rendermene conto. Sentivo una cortina di gelo puro avvolgermi, penetrare fin nelle ossa, attanagliarmi alla gola come un lupo affamato. Paura. Era la paura di qualcosa a cui non avevo mai nemmeno lontanamente pensato di potermi avvicinare. La morte. Perché era questo ciò che Igraine intendeva, voleva ucciderci, ne ero assolutamente certa. In quanto a lei, fissava me e Gareth con sguardo famelico, quasi avesse visto in noi un succulento pasto.
-Cosa intendi fare? Che…che cosa vuoi da noi???- domandò il mio futuro marito con voce rotta dalla preoccupazione.
-Uhm…è una domanda interessante. A ben pensarci, sarebbe uno spreco uccidervi tutti e due e cibarmi delle vostre carni. In fondo tu, ragazzo, hai tutti i requisiti per poter diventare il mio secondo sposo, non trovi? E tu, Danacy…devo ammettere che, ora che ti guardo bene hai un aspetto familiare…. Ma certo! I tuoi occhi! Anche se hanno in gran parte perso i riflessi dorati, sono di quel punto di verde unico, che distingue tutti gli appartenenti alla mia stessa casata. Tu devi essere sicuramente una mezzosangue, discendente di una famiglia generatasi dal matrimonio di un vampiro con un essere umano! Bene. Bere il tuo sangue mi rinforzerà notevolmente!- ponderò ad alta voce la diabolica creatura.
-NO!- gridai prima di riuscire a trattenermi.
-Osi contrastarmi?-
-No, voglio solo…proporti uno scambio. Prendi me, fai di me una vampira, o uccidimi se preferisci, ma lascia libero Gareth! Garantisco io per lui, non dirà nulla di quanto accaduto, lo prometto solennemente! Ma ti prego, non fargli del male!- supplicai.
Le parole mi erano uscite di getto, prima che fossi stata in grado di controllarmi. Forse era stato sciocco, da parte mia, espormi così, ma non potevo permettere che l’uomo che amavo venisse tramutato in una creatura della notte. Non volevo che la sua vita venisse rovinata così miserabilmente solo per assecondare la brama di sangue e carne di una vampira. Con quelle parole, ne ero cosciente, avevo firmato la mia condanna, ma almeno uno di noi si sarebbe salvato.
-Molto bene.- ghignò Igraine, avvicinandosi a me.
-Danacy, non farlo!- mi urlò Gareth, senza tuttavia riuscire a muovere un passo.
-Ti confesso che non avrei mai sperato in una tale opportunità, mia cara. Poter riportare in luce la mia famiglia grazie ad una delle ultime esponenti della stessa…hai fatto una saggia scelta, ragazzina. In fondo, a nulla mi serve un secondo sposo…non per il momento, almeno.- spiegò la vampira, continuando ad avanzare nella mia direzione.
Ormai era finita. Gettai un’ultima occhiata al mio compagno, pregandolo con gli occhi di fuggire, prima che la crudele proprietaria del maniero potesse avere qualsiasi sorta di ripensamento, ma ciò che lessi nel suo sguardo era solo disperazione e angoscia. Tuttavia, non potevo tornare indietro. Tornai così a volgermi verso Igraine, e scoprii leggermente il collo, per permetterle di mordermi e di tramutarmi in un suo simile.
Accadde tutto in un secondo: sentii una fitta improvvisa, e poi due zanne acuminate penetrare con forza nella mia carne. Sentivo le forze venirmi meno, mentre uno strano stato di debolezza si impadroniva di me sempre di più…fino a che non avvertii qualcosa di caldo e dal sapore metallico scivolarmi giù per la gola…il mio ultimo pensiero coerente fu la constatazione che quello doveva essere il sangue della vampira. Poi fu solo dolore e furia cieca. In me si stava compiendo una trasformazione, qualcosa di così doloroso che mi è impossibile descriverlo. Le mie unghie divennero artigli affilati, i miei canini si allungarono nella mia bocca, dalla schiena spuntarono due grandi ali nere, simili a quelle dei pipistrelli, e all’improvviso venni colta da un terribile bruciore agli occhi.
Era tanta la mia sofferenza, in quel momento, che non capivo più nulla, non avevo coscienza di ciò che mi circondava, non ero in grado di distinguere niente se non la collera che stava montando in me. E fu proprio per questo che, quando Gareth tentò di lanciarsi su di me in un ultimo disperato tentativo di sottrarmi a quella tortura, io lo scaraventai lontano, non prima di averlo ferito a morte con i miei unghioni taglienti. Udii solo un debole gemito alzarsi da un punto imprecisato di quella stanza che era diventata per me luogo di morte e di rovina, prima di cadere a terra, dolorante e priva di forze.
Mi ci volle molto tempo per riprendermi. Mi sentivo come se su ogni centimetro della mia pelle fossero stati piantate miriadi di lunghi aghi incandescenti. Non potevo muovermi senza che paurose fitte mi attraversassero come mille lame di altrettanti spadoni da battaglia. I miei occhi non riuscivano a distinguere i contorni degli oggetti, annebbiati da una cortina opalescente che non voleva abbandonarmi. Sentivo le mie ossa bruciare sotto la pelle. Tentai di alzarmi, ma ricaddi quasi subito al suolo, inerte, paralizzata. Solo quando avvertii dei passi venire nella mia direzione, alzai la testa e cercai di riconoscere la sagoma di fronte a me…. Era Igraine.
-Bevi questo, ti farà stare meglio.- mi disse con una nota di preoccupazione nella voce.
Non avevo la forza per opporre resistenza, così mi limitai a fare quanto ordinatomi, sperando che si trattasse di qualcosa in grado di donarmi il sonno eterno, qualcosa che mi gettasse direttamente tra le braccia di Sorella Morte. Ma mi sbagliavo. Quel liquido scuro e da sapore tremendo che avevo trangugiato riuscì a lenire notevolmente le pene del mio corpo, anche se non fu in grado di cancellare quelle dell’anima.
-So che è stato doloroso…avrei dovuto immaginarlo. Questo perché la tua mutazione si è completata allo scoccare della venticinquesima ora, notoriamente il lasso di tempo migliore per cambiare forma. I vampiri nati in quell’ora sono molto più dotati degli altri, sono più sani e potenti…ma la loro trasformazione reca molte più sofferenze, proprio perché il corpo deve accogliere una maggiore quantità di energia. Ad ogni modo, ora che hai bevuto quella pozione dovresti sentirti come nuova.- mi comunicò la mia antenata.
-Gareth?- riuscii a sibilare, sviando completamente il discorso per portarlo al punto che più mi interessava.
-Mi dispiace…- furono le uniche parole che uscirono dalla bocca della donna-vampiro.
-Che vuol dire “Mi dispiace”?- urlai, balzando in piedi come una furia.
Non ricevetti risposta verbale. Vidi solo un gran lago di sangue sul pavimento e, poco distante da me, accasciato in un angolo, il corpo senza vita di quello che avrebbe dovuto essere il mio futuro consorte. Non sembrava nemmeno lui…era bianco in volto, gli occhi ancora sbarrati, e sul petto aveva un lungo squarcio che, a giudicare dall’aspetto, aveva smesso di sanguinare da poco. Non capivo…perché era morto? Eppure Igraine aveva promesso!
-Cosa gli hai fatto?- gridai disperata, mentre lacrime gelide mi bagnavano le guance.
-Io non ho fatto nulla. Sei stata tu ad ucciderlo, durante la tua trasformazione. Lui, uno sciocco, si è lanciato su di te, sperando forse che così facendo avrebbe potuto frenare il processo di mutazione, ma tu, in preda allo strazio causatoti dal tuo stesso corpo, l’hai allontanato, graffiandolo. Quando ho finito con te, ho provato a salvarlo. Ho tentato di farlo diventare un vampiro, ma ormai era troppo tardi. La vita aveva già abbandonato quel corpo.- mi fu spiegato.
No! NO! Non ero stata io! Non potevo essere stata io! Non avevo ucciso Gareth, il mio Gareth! No, doveva essere stata lei, Igraine…doveva aver approfittato del mio momento di debolezza per avventarsi su di lui ed ucciderlo, per berne in seguito il sangue e saziare, così, la sua sete centenaria. Nella mia testa questa fu l’unica spiegazione plausibile.
-Bugiarda…- sussurrai con l’astio nella voce resa roca dall’intruglio bevuto poco prima.
-Come?-
-Bugiarda! Sei solo una bugiarda! L’hai ucciso tu! Lo hai fatto per il sangue e…no, non voglio essere come te, non voglio vivere come una così spregevole creatura!- urlai, in preda al delirio.
-SMETTILA! Non sono stata io, sciocca! A che pro avrei dovuto farlo? Quanto mi avrebbe giovato il venir meno al mio giuramento, il gettare al vento il mio onore, eh? Non lo sai, forse, che l’onore per quelli della nostra specie è qualcosa di sacro? Credi davvero che potrei essere stata così subdola da ammazzare quell’uomo dopo aver promesso di lasciarlo libero? Rispondimi, Danacy! Lo credi sul serio?- gridò la vampira di fronte a me, in un inquietante crescendo.
-Non avrei mai potuto ucciderlo! Con che coraggio l’avrei fatto? Perché avrei dovuto?- domandai, piangendo fredde lacrime di ghiaccio.
-La tua trasformazione! In quei frangenti il tuo essere era simile a quello di una bestia. Hai visto in lui non l’uomo da amare, ma un usurpatore, un nemico, un invasore da abbattere. Ti sei sentita minacciata, e l’hai allontanato con una tale veemenza da privarlo della vita! Possibile che tu non ricordi?-
-Io non…- cominciai, ma mi bloccai subito, frenata da un’improvvisa ondata di nausea, che portò con se anche alcuni frammenti confusi di ciò che era avvenuto nelle ultime ore.
Fu così che rividi tutto nella mia testa: Gareth che mi si avvicinava con lo sconforto negli occhi, io che non riuscivo a ragionare, la sua presenza che avevo avvertito come ostile, e da ultimo il mio attacco…vidi i miei artigli lacerare la carne del suo petto, il sangue cominciare a uscire a fiotti, la sorpresa, la tristezza e l’amarezza in quell’ultimo sguardo prima della fine, le sue labbra muoversi in un ultimo “Ti amo”…
Un mio urlo disperato si levò allora, assieme alle prime luci dell’alba.
Avevo ucciso il mio uomo, la mia felicità, la mia metà, e tutto a causa di una stupida scommessa, finita in tragedia. Ma ora avrei scontato quella colpa. Per tutta la mia eternità sarei stata condannata a vivere con il rimorso per ciò che avevo fatto. Avrei portato per sempre la croce di questo peccato, fino alla fine il lutto mi avrebbe accompagnata. Avrei avuto la bellezza senza decadenza e tutto il tempo del mondo a mia disposizione, ma non avrei mai più potuto essere felice, perché per mano mia una scintilla nel fuoco immenso della Vita si era spenta, per mano mia un castello di sogni si era sgretolato, per mano mia molta gente avrebbe sofferto.
Igraine mi contemplò in silenzio per qualche istante, con la compassione nello sguardo. Mi poggiò una mano sulla spalla in un gesto di rassicurazione, poi si avviò verso il corpo di Gareth, lo ricompose e gli chiuse gli occhi. La sera stessa lo bruciammo, con un grande falò che allestimmo in una grande stanza di quel maniero decadente che ormai era divenuta la mia casa.
Da quel giorno iniziò la mia nuova vita al fianco della mia progenitrice: dormivamo di giorno, e di notte uscivamo per dar la caccia a tutti gli animali da selvaggina che abitavano le foreste attorno al castello. Non mi avvicinai mai al villaggio, a meno che non ci fosse con me anche Igraine, e non cercai mai i miei genitori. Non volevo spaventarli, ma soprattutto non volevo che mi vedessero ridotta in quello stato. Preferivo di gran lunga che mi credessero morta e che conservassero di me il ricordo della vera Danacy, la Danacy allegra e combattiva, la Danacy che non si arrendeva, la Danacy forte e scapestrata come un ragazzo, la Danacy innamorata di Gareth e prossima alle nozze. Non volevo che venissero a conoscenza della mia nuova natura demoniaca, desideravo che avessero di me l’immagine migliore. Non cercai nemmeno i genitori dell’uomo che avevo amato. Non avrei mai avuto il coraggio di guardarli negli occhi dopo quello che avevo fatto loro, dopo ciò che aveva fatto al loro unico figlio.
Naturalmente in paese tutti credevano che fossimo morti entrambi, ma nessuno riusciva a capire dove fossero spariti i nostri corpi, così si finì per vociferare che fosse stata la misteriosa e terribile Signora del Castello a catturarci, uccidendoci e poi cibandosi dei nostri corpi, e il caso venne archiviato dai funzionari della giustizia.
Io continuai così a condurre quell’esistenza a metà che odiavo, e che odio a tutt’oggi. Vivo ancora con Igraine, della quale ho ormai imparato ad apprezzare il carattere, diventandone persino amica, anche se da tempo immemorabile abbiamo abbandonato la nostra antica residenza, che era ormai divenuta poco più che un cumulo di pietre tra le quali si innalzava, di tanto in tanto, qualche muro. Entrambe abbiamo avuto numerosi compagni, ma mai nessuno di essi è riuscito a prendere il posto che Gareth aveva nel mio cuore. Se devo essere sincera, non lo ricordo nemmeno più, e mi è penoso constatare che ogniqualvolta io mi sforzi di richiamare alla mente il suo viso, davanti a me se presenti solo un volto dai lineamenti così sfocati da renderlo irriconoscibile. Mi pare quasi che non ricordarlo voglia dire amarlo di meno, anche se il mio cuore mi conferma sempre che il mio sentimento per lui non è diminuito o mutato.
Sospiro impercettibilmente, alzandomi dalla poltrona dalla foggia settecentesca sulla quale stavo riposando. A dividermi dal mondo, ora, sono i pesanti drappi di velluto cupo, che preservano me e la mia ava dalla luce solare, che molto può nuocerci se viene in contatto con la nostra pelle. È quasi l’ora di pranzo, mi staranno attendendo nella sala grande.
Qui finisce la mia storia, la storia della bella e triste Danacy, che perdette la felicità solo a causa del suo orgoglio, e che uccise l’uomo che amava. Qui si chiude il libro che narra questa grottesca e sanguinosa favola, ma non per sempre, oh no! Fintanto che la Terra continuerà a girare, ci sarà sempre qualcuno pronto a narrare la storia delle due vampire Signore delle Tenebre, assassine silenziose e subdole, amanti lussuriose e vanitose, vittime entrambe di un sentimento crudele come l’Amore, che venne loro strappato con la violenza, condannandole ad un’eternità di rimorso e rimpianto.
Fino alla fine dei secoli, e ancor di più.

  
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