CAPITOLO 4: Di Sangue e di Lacrime
Attorno ad Ash, tutto era buio,
confuso, come se stesse
osservando il ricordo di un sogno lontano, ma sentiva una voce. Una
voce grave
e calda, che esplose vivida nella sua mente.
FOLLE!
Come puoi
sperare di sconfiggermi!?
Non capiva il perché,
ma doveva batterlo. Doveva
riuscirci a tutti i costi…
Io sono
…. ! Il Dio
del Caos, della Distruzione e della Morte! Tutto ciò che
comincia a questo mondo,
finisce per mano mia!
Cominciò ad avere paura
di morire, ma non doveva
arrendersi, se l’avesse fatto, sarebbero successe cose
orribili, spaventose.
Per questo doveva vincere, doveva vincere a tutti i costi.
TU STESSO
SUBIRAI
QUESTA SORTE!
Sentì le braccia
vibrare impugnando qualcosa di
metallico, avvertì la fatica nelle gambe e in tutti i
muscoli degli arti.
Finché non si rese conto che c’era qualcosa
intorno al suo bulbo oculare
sinistro, tre dita vi si stavano infilando… e in un lampo
esplose il dolore
come quello di mille pugnali nel cranio.
Ash aprì gli occhi con
uno scatto, ancora spaventato a
morte. Il contatto con la fredda pietra e la paura ancora nel cuore gli
suggerirono di alzarsi il più rapidamente possibile dal
terreno, ma la
stanchezza improvvisa che sentiva in ogni muscolo del suo corpo lo
costrinse a
risollevarsi lentamente appoggiandosi al sarcofago.
Si ricordò in un lampo
su cosa esattamente si era
poggiato e vi staccò velocemente le mani come se fosse stato
arroventato, non
aveva più intenzione di rimanerci attaccato. Al pensiero di
quello che era
successo, si guardo la mano destra, aspettandosi di trovarci delle
bruciature,
invece il suo pallido palmo era immacolato.
La prima domanda che sopraggiunse
nella sua mente fu
scontata, sciocca:
Che
diavolo è
successo…?
Ricordava bene il contatto con il
sarcofago e cosa né era
conseguito, ma nonostante i suoi ricordi fossero così
vividi, la risposta che
si diede alla sua stessa domanda fu banale quasi quanto la domanda
stessa:
Devo aver
sognato…
Eppure, mentre si strofinava
l’occhio sinistro lentamente,
Ash ricordò con una precisione quasi preoccupante quelle tre
dita dentro il suo
cranio, e i nervi oculari strapparsi come elastici troppo tesi.
No, probabilmente doveva aver
perso i sensi a causa della
mancanza d’aria, ecco perché era svenuto. Il resto
non era stato altro che
l’influenza del posto.
Doveva andarsene di lì
e raggiungere il gruppo, e di
corsa.
Dust era affannato come dopo una
lunga corsa. Aveva la
mano destra poggiata sul ginocchio e la sinistra stretta al petto in
corrispondenza del cuore. Aveva gli occhi sbarrati dal terrore, e
sembrava sul
punto di svenire dalla fatica.
L’aveva sentito,
così chiaramente… una lama d’acciaio
che
spezzava le sue costole e s’infilava nel suo cuore facendolo
scoppiare come la
bollicina di una carta da imballaggio. La sensazione era stata
così
orribilmente reale che il bruno si stupì seriamente di
sentire ancora i battiti
ritmici e alterati dalla paura all’interno del suo corpo.
Si sollevò da quella
scomoda posizione, con le gambe che
tremavano ancora. Doveva stare calmo, ciò che aveva visto
doveva essere stato
di certo uno stupido sogno che aveva fatto mentre era svenuto. Uno
stupido, e
veramente realistico sogno.
Doveva uscire da lì. Al
diavolo quel posto, al diavolo la
“Tomba di Amon-Ra” e al diavolo l’Egitto
che l’aveva influenzato così tanto.
Si diresse ancor un po’
barcollante verso l’uscita
riaccendendo la torcia del suo cellulare, e appoggiandosi al muro nel
cammino,
ricordò improvvisamente il sogno che aveva fatto. Quella
voce decisa e giovane:
Io, oggi
vendicherò
mio padre… e tu ti pentirai amaramente di avermi sfidato.
Pregherai, chiederai
pietà ma io non te ne concederò
alcuna… sarai sopraffatto dalla stessa morte
che tu tanto idolatri, e alla fine non potrai fare altro che averne
paura…
Poi una luce, talmente abbagliante
da bruciargli le
retine, la falciata sul torace e la lama nel cuore.
Il solo ricordo gli fece
istintivamente portare la mano
sul petto, ma decise di rimuovere tutto dalla mente. Era stato solo uno
strano
incubo, e tale doveva rimanere. Abbandonato nei più profondi
meandri del suo
cervello.
Quando ormai raggiuse la sala
principale in cui si era
calato, una figura, di spalle era in piedi davanti a lui. Una figura
piacevolmente familiare.
«ASH!»
Il
biondo era proprio di fronte a lui, facendo tirare a Dust un
sospiro di sollievo.
«Si
può sapere dove cavolo ti eri cacciato?»
Ash si
voltò, sembrando molto sollevato di rivedere il suo amico
lì dentro.
«Esattamente
dove ti eri cacciato tu, Sherlock.» disse lui,
affannato «Forza, cerchiamo di raggiungere quel buco e
andarcene di qua, non
riesco più a stare senza luce»
Dust
ebbe ancora la forza di esibirsi in un ghigno «Ma come? Il
nostro super genio non avrà mica paura del buio?»
Ash
gli restituì una smorfia.
Arrampicarsi
su per il buco non fu difficoltoso dal momento che
erano in due. Ash si mise sulle spalle di Dust e raggiunse con un
po’ di stenti
l’uscita, per poi aiutare l’amico a salire. Quando
raggiunsero il gruppo,
stettero ben attenti a non dire a nessuno quello che era successo,
volendo
evitare di essere incolpati per il danno fatto alla stanza di culto, a
parte
ciò la giornata trascorse tranquilla.
Nessuno
dei due disse cosa all’altra cos’ era successo nel
profondo della Tomba di Amon-Ra. Nonostante fosse stata
un’esperienza quantomeno
preoccupante e decisamente curiosa, entrambi pensarono che fosse meglio
non
mostrarsi angosciati semplicemente per ciò che probabilmente
non era stato
altro che un incubo in seguito ad un brusco calo di pressione, ma
soprattutto
perché né Ash né Dust volevano far
sapere che erano svenuti come fragili
ragazzine. Perciò rimasero in silenzio sulla questione.
Nei
giorni successivi, entrambi dimenticarono l’episodio nella
tomba, ricordandolo soltanto come uno spiacevole incidente di percorso
e come
una curiosità da poter raccontare in giro una volta tornati
a Los Angeles per
avere un po’ di attenzione puntata addosso. Per il resto,
l’avvenimento dei
sarcofaghi fu praticamente rimosso sia da Ash che da Dust.
Al
termine della settimana, i due raggiunsero l’aeroporto
internazionale di mattina molto presto, anche se con leggero ritardo
(dovuto
naturalmente a Dust). Ash rivide con sollievo i propri genitori al
Check-in
parecchio più abbronzati del solito, ma con niente di
diverso.
«Allora,
ragazzi…» cominciò Stephen Bryant con
un gran sorriso,
non appena i due ragazzi si avvicinarono «…vi
siete divertiti?
«Abbastanza»
disse Ash pacato, in contrasto alla risposta
entusiasta di Dust: «Da paura!»
«Ne
sono contenta» rispose la madre di Ash con
un’espressione felice
e soddisfatta «Spero per voi che non abbiate dimenticato
nulla in albergo,
perché il nostro volo parte tra quindici minuti»
In
poco tempo i quattro ebbero la possibilità di salire
sull’aereo
che li avrebbe finalmente riportati a casa.
Il
viaggio per Ash e Dust fu esattamente come all’andata per
entrambi. Ma chissà per quale motivo, il viaggio di ritorno
sembrò molto più
corto: in un periodo di tempo apparentemente brevissimo erano
già passate
parecchie ore, e ormai da parecchio il sole era scomparso immergendosi
tra le
sconfinate acque del mare Atlantico. Ash aveva finito di leggere il suo
libro
circa tre ore prima, perciò si era messo a scrutare il cielo
attraverso il
finestrino, girandosi ogni tanto a guardare Dust che dormiva beato con
la bava
alla bocca e le cuffie nelle orecchie.
Puntando
ad un tratto verso il basso, il biondo si notò finalmente
una sagoma di luci scintillanti come stelle sul terreno. Una sagoma che
lui
conosceva molto bene: quella era Los Angeles. Finalmente erano arrivati.
Tirò
un sospiro di sollievo immotivato nel rivedere quella miriade
di luci che brillavano sotto di lui, quelle luci che in quel momento
gli
trasmettevano sicurezza e tranquillità. Continuando a
guardare sul suo volto si
dipinse un sorriso rassicurato che si allargò nel vedere le
strade, i
quartieri, e la grande scritta Hollywood bianca sulle
colline…
Ash
sobbalzò, sgranando gli occhi.
Possibile
che fossero davvero così visini al terreno? Così
vicini
da permettergli di distinguere i dettagli così bene? Prima
che potesse trovare
risposta, la voce gentile del pilota irruppe nell’abitacolo
dell’aereo
facendoli sobbalzare.
«Gentili
passeggeri, siamo lieti di informarvi che stiamo per
cominciare la discesa verso l’aeroporto di Los Angeles. Siete
pregati di
allacciare le cinture, grazie.»
Il
ragazzo assunse un’aria preoccupata, prima di ripuntare lo
sguardo verso il basso. Tutto ciò che vedeva, non era altro
che una matassa di
luci in lontananza.
Se
avevano appena cominciato la discesa, significava che
l’altezza
non era decisamente abbastanza da permettergli di vedere i dettagli di
tutta la
città con una tale precisione. Allora perché lui
ci riusciva? Si era appena
immaginato tutto? Ormai cominciava a dubitare fortemente che tutto
ciò che gli
stava accadendo fosse solo una questione di sogni e
immaginazioni…
*
La
mattina dopo, curiosamente, Ash si risvegliò senza
particolari
preoccupazioni. Era ormai da alcuni giorni che non faceva
più nessun incubo e
quel giorno non sarebbe dovuto andare a scuola per ordine di sua madre,
che gli
aveva concesso un paio di giorni di pausa dal viaggio, spiegando con
fierezza
che “se avesse perso un paio di lezioni non sarebbe certo
stato un danno”, e
naturalmente lui non aveva obbiettato.
Si
alzò dal letto rendendosi conto che erano da poco passate le
nove. S’infilò i jeans , la maglietta e le
converse, e scese in cucina con
l’intenzione di farsi una bella colazione americana che in
quella settimana gli
era particolarmente mancata. Quando raggiunse il piano di sotto
realizzò che i
suoi genitori non c’erano. La cosa non lo stupì,
visto che loro non potevano
permettersi di perdere una giornata di lavoro con la stessa
facilità con cui lo
faceva lui. Di conseguenza decise un po’ seccato di
prepararsi la colazione da
solo. Mise un paio di tegami sul gas e cominciò a cucinare
uova e pancetta
quando un pensiero lo sfiorò con la violenza di un pugno
allo stomaco.
Prese
il cellulare e cominciò a scrivere un messaggio:
“Ehilà!
Indovina chi è appena tornato? :3”
Destinatario:
Nancy Criss.
Rimise
il cellulare in tasca e fissò fuori dalla finestra con aria
sognante per un tempo che non avrebbe potuto chiaramente definire,
finché non
fu risvegliato dalle uova che bruciavano.
Dopo
un’ora Nancy non aveva ancora risposto. Ash non se
né stupì
particolarmente. Sapeva che Nancy non dava mai troppo peso al
cellulare, ma
chissà perché in quel particolare frangente
sperava che gli avrebbe risposto
subito, anche se probabilmente era a scuola.
Sì,
doveva essere per quello che non gli aveva ancora scritto
nulla, ma aveva comunque una curiosa sensazione.
Cacciò
via dalla mente qualche sciocco pensiero infondato e diede
invece retta al suo stomaco, che stava certamente cercando di fargli
capire che
la colazione fatta da poco non bastava. Perciò si
alzò dal divano dove era
disteso e si diresse di nuovo in cucina, con l’intenzione di
sgranocchiare
qualche biscotto. Trovò un barattolo di latta contenente
biscotti al cioccolato
in una dispensa, e fu ben lieto di prendere il contenitore leccandosi i
baffi.
Cerco
di aprirlo ma era incastrato molto bene. Doveva essere colpa
di quella fissata di sua madre che voleva sempre mettere tutto sotto
vuoto. Ci
riprovò, mettendo un po’ più di forza.
Al
secondo tentativo accadde qualcosa d’impensabile: il
barattolo
si aprì, ma la mano che lo reggeva si strinse talmente tanto
attorno ad esso
che la latta si accartocciò con un rumore terribile generato
dal miscuglio
della lega che si stritolava e i biscotti che si polverizzavano, fino a
ché
tutta la parte centrale del contenitore non si assottigliò
raggiungendo il
diametro di due o tre centimetri. Rimasero però intatte le
parti più esterne e
facendo assomigliare il tutto a una strana specie di clessidra di latta.
Al
suono del barattolo stritolato dalla sua mano, Ash sobbalzò
e
lo lasciò cadere, facendone uscire il contenuto ormai
ridotto a una poltiglia
di briciole marrone.
Rimase
immobile, non sapendo cosa pensare.
Aveva
fatto lui quella cosa? Aveva ridotto lui quel barattolo
metallico a uno strano tipo di scultura moderna, semplicemente mettendo
un po’
di forza nella mano?
Nella
sua mente esplosero in un lampo centinaia di possibili
spiegazioni logiche. Ma non ne trovò nessuna che calzasse.
Sembrava proprio che
avesse stritolato il contenitore dei biscotti con le proprie forze, e
senza
neanche metterci troppo impegno.
Per la
prima volta in vita sua non riuscì a pensare a niente.
Perciò passò alla seconda cosa più
ovvia che chiunque avrebbe fatto in quella
situazione: pulire per terra.
Prese
la scopa e la paletta e cominciò a spazzare le briciole che
erano arrivate persino nel salotto. Dopo aver spazzato per bene in
cucina,
ripose il barattolo vicino al lavandino toccandolo con cautela come se
avrebbe
potuto aggredirlo. Poi si diresse nel salotto e cominciò a
spazzare con la
mente ancora vuota.
Un
po’ di briciole erano finite sotto il divano,
perciò s’inginocchiò,
mise una mano sotto di esso e cercò di sollevarlo appena,
giusto lo spazio
necessario per raccogliere le briciole.
Stranamente,
quello si rivelò molto leggero.
Ash
aveva ancora lo sguardo puntato a terra, ma cominciò ad
avere
molta paura nel guardare la mano che reggeva il divano, ma alla fine si
costrinse e guardò.
L’intero
divano era sollevato in aria, e aveva come unico punto di
appoggio il braccio di Ash, posto solo a una trentina di centimetri da
terra.
Il
ragazzo sobbalzò ancora una volta, lasciando cadere il
divano
sul pavimento con un boato assordante e indietreggiando verso il muro,
prendendo la saggia decisione di appoggiarvisi.
Fissò
l’oggetto che aveva appena sollevato come se fosse stata una
creatura mostruosa in procinto di sbranarlo, respirando affannosamente.
Dopo
aver ripreso un po’ la calma, si fissò le mani,
cominciando
seriamente a pensare per la prima volta che non ci fosse una
spiegazione logica
per ciò che gli stava accadendo.
Pochi
minuti dopo era fuori di casa. Camminava per le tranquille
strade del Wholesale District, con le mani in tasca e la testa bassa.
Non
sapeva cosa pensare, a parte alle frequenti immagini del
barattolo che si stritolava e del divano sollevato in aria. Riusciva
solo a
pensare alle sensazioni che aveva provato. La latta sotto le sue mani
era
diventata più fragile della carta velina, e il divano era
così leggero che
sembrava fatto di polistirolo. Tornò a guardarsi le mani.
Come
diavolo era riuscito a fare quelle cose? Com’era possibile
che i deboli muscoli umani fossero capaci di fare cose del genere? Non
trovò
alcuna risposta, perciò rinfilò le mani nelle
tasche, ripensando anche a quello
che era successo sull’aereo, quando era stato capace di
vedere a decine di
chilometri come se si trovasse a poche centinaia di metri da terra. Che
quegli
avvenimenti fossero collegati?
Non
riuscì a capire quanto camminò, né
dove i piedi lo stessero
portando, ma dopo un tempo non proprio definito, qualcosa
attirò la sua
attenzione.
Un
urlo, e una serie di urti frequenti e irregolari. Ash
sobbalzò
dalla paura per la terza volta nel giro di un’ora, per poi
avvicinarsi a passo
svelto verso la fonte del rumore: un vicolo stretto e oscurato posto
tra due
case con i mattoni scoperti. Cominciarono a sopraggiungere delle voci.
«Hai
pensato bene di non pagare, eh bastardo?»
«Te
l’avevamo detto che non l’avresti passata
liscia!»
La
prima voce era grave e rude, la seconda era più gracchiante
e
pungente. Senza pensare troppo Ash si affacciò nel vicolo,
rendendosi conto che
due uomini stavano picchiando violentemente un terzo, che gemeva
dolorante con
la schiena al muro cercando di difendersi come meglio poteva. I due che
avevano
parlato sembravano decisamente dei poco di buono. Il primo era un uomo
di
colore bello grosso, con pantaloni di pelle e maglietta bianca, attorno
al
collo muscoloso portava una catena a mo’ di collana. Il
secondo era magro e
dall’aria malaticcia, con untuosi capelli rossi e lunghi e il
volto incavato
come quello di uno scheletro.
Ash si
rese conto troppo tardi che aveva messo il naso in affari
che non lo riguardavano affatto, anche perché i due
criminali si voltarono
verso di lui fissandolo in silenzio per un paio di secondi.
«Guarda
guarda…» cominciò il più
grosso aprendo il volto in un
sorriso. Ash notò che gli mancavano due premolari
«Abbiamo un curioso, qui»
Quello
più magro intervenne puntando lo stesso identico sorriso
dell’amico sul biondo. «Dovremmo fare in modo di
tappargli la bocca una volta
per tutte. Tu che ne dici Mike?»
Ash
ingoiò un groppone, ma rimase in silenzio.
«Meglio
di no, Baby Jay. Lo sai che il capo non vuole che ci
lasciamo cadaveri dietro.»
L’uomo
chiamato Mike si allontanò dall’individuo
malmenato coperto
di sangue e lividi, e si avvicinò ad Ash, che stranamente
non aveva tutta
quella paura che si dovrebbe avere logicamente in una situazione del
genere.
«Stammi
a sentire, stronzetto…» cominciò
l’energumeno «…se
qualcuno comincia a fare domande su ciò che hai visto,
daremo per scontato che
sia stato tu a spifferare tutto. Perciò verremo a cercarti e
faremmo ciò che
dovremmo fare oggi. Sono stato abbastanza chiaro?»
In un
lampo, chissà per quale motivo, la paura era sparita
completamente nel momento in cui Ash aveva sentito la parola
“stronzetto”.
Perciò non ebbe alcun timore di rispondere alle sue
intimidazioni con un
sorriso beffardo degno di quelli di Dust.
«Beh,
nonostante tu abbia usato un condizionale invece che un
futuro semplice… si, ho capito. Ma avrei capito meglio se tu
avessi completato
la scuola elementare».
Mike
sbarrò gli occhi. Evidentemente nessuno aveva mai avuto il
coraggio di parlare così di fronte a
quell’imponente massa di muscoli.
Probabilmente fu a causa di questo che l’energumeno
afferrò Ash per il colletto
della maglia avvicinando la sua faccia a pochi centimetri da quella del
biondo.
«Forse
hai le orecchie otturate e non ci senti bene…»
cominciò
ringhiante, per poi interrompersi nell’osservare il ragazzo
che storceva il
naso e tossiva.
«Già…»
iniziò con espressione disgustata «…
è un peccato che
invece il mio naso funzioni perfettamente».
Il
grosso uomo di colore non ci vide più dalla rabbia.
Tirò
indietro il braccio caricando un pugno e lo sferrò.
Ash
ebbe tutto il tempo di stupirsi. Possibile che quel braccio
muscoloso fosse così lento? In un lampo il ragazzo si
liberò dalla presa al
colletto e schivò il pugno abbassando la testa.
Vide
arrivare un altro cazzotto e un altro e un altro ancora. Ma
lui li schivò tutti semplicemente spostando il busto,
restando con i piedi
saldi per terra.
Dopo
la scarica di colpi a vuoto, Mike indietreggiò con i pugni
ancora alzati e con il volto deformato da un’espressione di
stupore. Alle sue
spalle, il tizio scarno chiamato Baby Jay aveva gli occhi
così sbarrati che
somigliava ancora di più ad uno scheletro.
«Cos’aspetti!?»
sbraitò il grosso uomo di colore al suo amico
«Dammi una mano!»
L’individuo
dai capelli rossicci sembrò riprendersi da una specie
di trance, e afferrò un paio di grossi coltelli che aveva
nascosto sotto la
giacca, manovrandoli con aria esperta.
«Non
preoccuparti Mike, prometto che lo lascerò abbastanza in
vita
da permettergli di trascinarsi
all’ospedale…» ghignò il
rosso «…forse».
Si
gettò sul ragazzo con i pugnali spinati, tentando un affondo
allo stomaco con il coltello destro.
Per
Ash fu facile, fin troppo. Si spostò leggermente a destra,
afferrò il nemico per il braccio e (era davvero
così leggero?) lo scagliò contro
il muro con una facilita impressionante. L’urto fu
così violento che il corpo
del criminale fece addirittura crepare un paio di mattoni.
«Se
mai dovrò trascinarmi all’ospedale sarà
per portarci voi due»
disse il biondo con aria saccente.
Osservò
l’uomo dai capelli rossi che si alzò a fatica, con
un
rivolo di sangue che gli scendeva dalla tempia. Inizialmente non si
accorse che
l’altro avversario stava caricando un pugno alle sue spalle,
ma un improvviso
spostamento d’aria alle sue spalle fu abbastanza. Ash
saltò in aria, fece una
capriola all’indietro esattamente sopra la testa di Mike e,
una volta
arrivatogli alle spalle lo colpì con un calcio circolare
alla nuca.
L’energumeno schizzò ad un paio di metri di
distanza trascinandosi sull’asfalto
ruvido.
Ash
era euforico. Sentiva l’adrenalina scorrergli lungo il corpo
e
offuscargli il cervello come una droga. Si sentiva forte come un toro e
veloce
come un leopardo.
I due
criminali si rialzarono affannati e doloranti, ma i loro
volti continuavano a mandare vampate di odio puro che il biondo
riusciva quasi
a sentire sulla pelle. Ma lui non aveva alcuna paura: rispose ai due
con un
sorrisetto di sfida, che sembrò irritarli ancora di
più.
Si
gettarono insieme su di Ash da parti opposte, Mike caricò
come
un giocatore di rugby pronto ad un placcaggio epico e Baby Jay tenendo
ben alti
i suoi coltelli. Il ragazzo rimase immobile, fermo come una statua fino
all’ultimo secondo, in cui scattò come una molla.
Afferrò uno dei coltelli di
Baby Jay e gli spostò il braccio con la mano sinistra, per
poi sferrargli un
colpo alla base del collo rapida come un fulmine, si voltò
il più rapidamente
possibile girando sul tacco sinistro e sferrando un altro calcio
circolare alla
spalla di Mike che andò a cozzare contro il muro. Senza
smettere di girare Ash
ritornò con lo sguardo puntato verso l’uomo con i
coltelli e lo finì con un
colpo di palmo al plesso solare.
Nel
vicolo esplose il silenzio rotto solo dai respiri affannati di
Baby Jay che era riuscito a non svenite al contrario del suo amico. Ash
li
ignorò entrambi pensando che in quel momento sarebbe stato
più utile soccorrere
l’uomo che era stato appena malmenato dai due.
Avvicinandoglisi, il biondo si
accorse che lo sconosciuto lo fissava con occhi sbarrati e la bocca
semi
aperta. Proprio l’espressione che aveva in testa anche lui
mentre ripensava a
ciò che aveva fatto.
«Tutto
bene?» disse semplicemente, inginocchiandosi di fronte
all’uomo
ferito, un individuo dai capelli neri molto corti sui 35 anni.
«Si,
ora si… grazie.» rispose lui, alzandosi un
po’ a fatica.
Sembrava intenzionato a non dire altro.
«Vuoi
che ti accompagni all’ospedale?» chiese Ash
preoccupato,
osservando l’individuo alzarsi un po’ traballante.
«Ti
ringrazio, ma ce la faccio da solo» e si allontanò
un po’
zoppicante.
Il
biondo continuò a fissare il punto in cui se n’era
andato senza
rendersi conto che i suoi occhi stavano osservando cose ben diverse che
l’uscita del vicolo. Davanti ad essi ripassavano le immagini
del combattimento
appena svolto, ancora non poteva credere di aver fatto una cosa del
genere.
Fino a due giorni prima probabilmente in una situazione del genere
sarebbe
scappato a gambe levate, ma di certo non avrebbe mai immaginato che
sarebbe
stato capace di fare una cosa come combattere contro quei ceffi e
stenderli in
meno di un minuto. Sentiva di poter fare ogni cosa desiderasse, ogni
impresa
era possibile.
Stringendo
i pungi sentì la forza delle sue mani che era
accresciuta notevolmente, sentendo un’enorme potere in tutto
il suo corpo.
Sentendosi
come un dio.
*
Tornò
a casa all’ora di pranzo, ancora con lo sguardo perso nel
vuoto. Neanche si rese conto delle urla di sua madre mentre si stava
automaticamente dirigendo verso le scale della sua stanza.
«ASH!
Mi senti?»
Il
biondo sobbalzò, risvegliandosi dal suo anomalo stato di
trance. «Eh, che c’è?»
«Sono
due ore che ti chiamo» disse la donna, mentre cucinava ai
fornelli con espressione imbronciata «Comincia a sistemare la
tavola che è
pronto».
Ash
non disse nulla, si diresse automaticamente verso il mobiletto
verde nel salotto, dove suo padre guardava il notiziario leggendo il
giornale
come faceva spesso. Come facesse a trarre informazioni da entrambi, suo
figlio
non lo aveva mai capito. Non ci sarebbe riuscito neanche lui con quel
super
cervello che si ritrovava.
S’inginocchiò
di fronte al mobiletto, lo aprì e ne estrasse tre
piatti bianchi, dirigendosi verso la cucina e cominciando a captare
qualche
stralcio di notizia dalla TV.
«…una ragazza della Chaplin
High School del Wholesale District è stata violentata ieri
notte intorno alle
ventitré, mentre si ritirava a casa dopo una sera con le
amiche…»
Il
giovane si sollevò sulle ginocchia e si diresse verso la
cucina, puntando gli occhi sulla televisione dove parlava una
giornalista sui
cinquant’anni.
«…l’atto si è
consumato nei
pressi di Brownien Boulevard…»
Era
stupefatto. Una ragazza della sua scuola era stata violentata
e per di più a pochi isolati da casa sua.
«...le notizie appena
ricevute in redazione ci informano che la vittima è Nancy
Criss, una ragazza di
16 anni, ora ricoverata all’ospedale di…»
I
piatti s’infransero sul pavimento, facendo sobbalzare
entrambi i
signori Bryant.
Ash
fissò lo schermo della TV con un’espressione di
terrore allo
stato puro. Tutto intorno a lui era diventato nient’altro che
nebbia, cose di
poca importanza. Gli sembrava di sentire i genitori che esclamavano
qualcosa,
gli parve di sentire i cocci di ceramica dotto i piedi e forse la
giornalista
stava continuando a parlare. Ma per lui tutto era lontano, come un
sogno, che
lo lasciava però estraneo catapultandolo in una
realtà da incubo.
Corse
fuori senza badare ai suoi, e si diresse al garage. Aveva
scordato le chiavi, ma la cosa non lo preoccupò.
Sollevò la saracinesca
sentendo i perni di ferro che la bloccavano strapparsi come se fossero
fatti di
legno sottile, montò sulla sua bici e si diresse in strada,
pedalando come mai
in vita sua.
Cominciò
a piovere parecchio forte, ma Ash sembrò non
accorgersene. Pedalava con il sedere alto e lo sguardo terrorizzato
fisso nel
vuoto. Le gomme sfrecciavano sull’asfalto bagnato ad una
velocità
impressionante, riuscendo a portare la bici ad una velocità
talmente alta da
permettergli superare anche le automobili. Ma lui non aveva certo tempo
per
stupirsi di questo.
Raggiunse
l’ospedale e con una sgommata esagerata, Ash
abbandonò la bici sul marciapiede di fronte
all’entrata, dirigendosi alla porta
dell’edificio zuppo da capo a piedi.
L’Atrium
dell’ospedale era molto ampio e spazioso, pieno
di persone che non diedero retta al ragazzo zuppo come un pulcino che
entrava
con aria terrorizzata, guardandosi attorno per cercare un luogo in cui
chiedere
informazioni. Ma dopo alcuni secondi la sua presenza fu notata da
parecchi
curiosi, che cominciavano a chiedersi cosa ci facesse quel giovane
zuppo di
pioggia che si guardava intorno come un folle.
Senza pensare agli sguardi curiosi
di Pazienti, Medici e infermieri,
Ash si diresse al banco delle informazioni che aveva appena
individuato. Le
uniche due parole che riuscì a tirare fuori dalla bocca
furono:
«Nancy
Criss…»
Al banco c’era
un’infermiera dai capelli neri di circa
trent’anni.
«Mi spiace, ma
l’orario delle visite è terminato 10
minuti fa, deve tornare dom…»
La donna non riuscì a
finire la frase, che il ragazzo tirò
rabbioso un pugnò sul tavolo della reception. Un forte boato
si propagò per
tutta l’anticamera, zittendo tutti quanti.
Leo aveva provocato un buco nel
tavolo, largo almeno 30
cm, sfondandolo.
«Ho
detto che
voglio vedere Nancy Criss… e le conviene sbrigarsi a
dirmelo, altrimenti posso
arrivare a fare di peggio». Il giovane non ci vedeva
più dalla rabbia.
La donna, terrorizzata,
riuscì a proferire solo quattro
parole: «…S-stanza 114, terzo
piano…»
«Grazie».
Ringhiò Ash, dirigendosi verso le scale.
Corse lasciandosi impronte bagnate
e senza dare troppo
peso alle persone che urtava, raggiunse la rampa delle scale coprendo
la
distanza di tre scalini ad ogni passo. Raggiunse il primo piano e in
pochi
secondi era già al secondo, poi finalmente arrivò
al terzo. Sempre di corsa,
osservo la porta di fronte alla rampa di scale: era la numero 84. A
destra
proseguivano i numeri minori e a sinistra quelli maggiori, Ash si
gettò nel
corridoio a sinistra.
Era tutto deserto. Gli unici
rumori erano i suoi passi
umidicci in corsa e il suo respiro affannato che penetravano il
silenzio della
zona.
109…110…111…
Riusciva a vedere la porta, doveva
sbrigarsi. Assolutamente.
…112…113…
Cominciò a rallentare,
realizzando che non aveva la più
pallida idea di cosa avrebbe detto.
…114
Si fermo di fronte alla porta,
esausto. Non si era
fermato un solo secondo da quando aveva appreso la notizia alla
televisione
dieci minuti prima, e non aveva avuto tempo di riflettere su cosa
sentiva.
Provò a intavolare
qualche pensiero, ma tutto ciò che
rimaneva nella sua testa erano le parole della giornalista che
parlavano della
ragazza violentata due giorni prima, che galleggiavano pigre,
echeggiando nella
sua mente.
Senza neanche bussare,
aprì la porta.
Nancy era lì, in quella
spoglia stanza bianca. Era nel
letto sotto le lenzuola, ma era seduta e fissava la finestra alla sua
sinistra,
osservando le gocce di pioggia tintinnare sul vetro, senza quasi notare
che Ash
era entrato nella stanza dalla porta alla sua destra.
Il biondo notò
immediatamente sul comodino un vaso di
rose rosse, che facevano un netto contrasto con il bianco della stanza.
Di chi
potevano essere…?
Facendosi coraggio, Ash
parlò.
«Ehm…
Nancy?»
La
ragazza si voltò, facendolo sentire ancora più
demoralizzato e
abbattuto. Nancy non aveva nessun segno evidente sul volto, ma i suoi
occhi
verde mare erano privi della luce allegra e spensierata che di solito
li
ornava. Quel giorno erano vuoti e spenti, come se qualcuno avesse
chiuso delle
persiane dietro di loro.
«Ciao, Ash»
disse lei con un largo sorriso, che però non trasmise ad Ash
il solito calore
che lei sapeva infondergli. «Ti
sei divertito in Egitto?»
Lui
rimase in silenzio, senza sapere cosa dire. Lei sembrò
averlo
notato perché il suo sorriso cambiò
trasformandosi in un’espressione di
compassione.
«Non
c’è bisogno che ti
preoccupi, Ash… io stò bene. Ho solo bisogno di
riposare un po’».
Ash si
appellò a tutta la sua forza di volontà per
riuscire a sbloccare
le labbra. Alla fine riuscì a parlare.
«Nancy…
non puoi
chiedermi di non preoccuparmi» disse piano.
Lei
non sembrava rendersi
conto di ciò che le era capitato. Forse lo shock era stato
talmente forte da
causargli qualche tipo di rimozione dei ricordi, o semplicemente non
voleva
dare l’impressione di essere debole e ferita? Ash non lo
sapeva, ma sapeva che
le era stato fatto del male, e niente lo avrebbe smosso da tale
pensiero.
«Preoccuparti
non
risolverà nulla. È inutile piangere sul latte
versato». Nancy prese una selle
rose dal comodino e la porse ad Ash con un sorriso rassicurante.
«Prendila
pure, per farti
stare più tranquillo»
Ash la
prese, sfiorando
leggermente le dita della ragazza. Erano fredde come il ghiaccio.
Improvvisamente,
la porta
alle sue spalle si aprì. Nella stanza entrò
un’uomo dai capelli scuri striati
di nero, con un camice bianco e un paio di occhiali sul naso. Aveva
un’aria
parecchio contrariata.
«Ragazzo…»
disse
rivolgendosi ad Ash «Devo chiederti di andartene
immediatamente. L’orario delle
visite è temrinato venti minuti fa. Potrà
ritornare a fare visita alla sua
amica domani mattina».
Nancy
voltò di nuovo lo
sguardo verso la finestra, osservando la pioggia incessante. Ash non
sarebbe
riuscito più a dire nulla, perciò,
accettò la richiesta del medico, lasciando
la stanza.
Il
giovane rimase
indietro camminando lentamente e con lo sguardo basso, lasciando che il
dotore
cominciasse a scendere le scale scomparendo dalla sua vista.
Nel
corridoio vuoto,
ormai solo, Ash cominciò a piangere.
Le
lacrime gli rigarono
lentamente il viso, mentre il suo volto eradeformato da
un’espressione di
rabbia selvaggia e i suoi pugni si stringevano furiosamente.
All’interno della
sua mano destra sentì le spine della rosa entrare nella
carne, senza curarsene
affatto. In breve, la sua mano sangiunava abbondantemente lasciando
cadere
goccie di sangue sul freddo pavimento dell’ospedale, che si
andavano a
mescolare con le lacrime cadute per terra.
Ormai
ne era certo. Ash
sapeva cosa doveva fare. E niente lo avrebbe fermato nel suo intento.
*
Il
giorno dopo Ash si
chiuse nel garage di casa per tutto il giorno successivo. Il giorno
precedente
aveva comprato dei materiali e ora aveva intenzione di utilizzarlo,
perciò al
sicuro nel grande spazio colmo di attrezzi da lavoro e cianfrusaglie,
il
giovane si era messo all’opera con carta, penna, macchine da
cucire e fiamma
ossidrica, approfittando dell’asenza dei suoi genitori per
una gita chissà
dove. Lavorò per molto tempo, senza mai stancarsi e senza
mai pensare ad altro
che al suo obbiettivo. Non riuscì neanche a mangiare sapendo
che aveva ancora
del lavoro da fare. Ormai i suoi centottanta punti di quoziente
intellettivi
erano ragruppati tutti attorno al compito che si erano prefissati,
senza
lasciarsi distrarre da nient’altro
Ci
mise meno tempo di quanto
aveva programmato, e la sera dopo fu già pronto per entrare
in’azione.
Era
scesa la sera da un
paio d’ore a Los Angeles, eppure le auto ancora scorrazzavano
nelle strade come
migliaia di formiche brulicanti intorno ad un formicaio. Sia gli
automobilisti
e i passanti guardavano dritti di fronte a loro, senza curarsi di
ciò che
avevano attorno, senza pensare di alzare lo sguardo al cielo e di
osservare le
poche stelle visibili ma così rare in una metropoli grande
come LA. Ma quella
notte non c’erano solo le stelle a guardarli. Se i cittadini
della Downtown
avessero puntato lo sguardo in’alto, avrebbero visto
sicuramente qualcuno, in
cima alla Bank Tower.
Era un
ragazzo, vestito
con un paio di Jeans decorati con una fantasia di fiamme rosse dal
ginocchio in
giù, e con un paio di Converse rosso fuoco. Il torace era
coperto
esclusivamente da una canotta azzurra, con un grande falco tribale
bianco dalle
ali spalancate stampato sulla schiena, più un paio di guanti
senza dita lunghi
fino a metà dell’avambraccio e dello stesso colore
delle scarpe. Infine,
intorno al suo volto, c’era una bandana color arancio vivo
che lasciava
visibili i capelli biondi sulla nuca, con due placche di vetro cucite
su di
essa che permettevano la vista, costruite in modo da dare a chi la
indossava un’espressione
minacciosa, e lasciando liberi al vento due lunghi lacci che legavano
la
bandana alla testa.
Ash
guardava in basso le
strade della Downtown, riuscendo a distinguere alla perfezione ogni
volto, ogni
passo e ogni scritta sulla strada, nonostante fosse a duecento metri
d’altezza,
come un falco che scruta la sua preda, senza tregua.
Era da
ore piantato lì
sulla cima di quel palazzo, ma non aveva intenzione di spostarsi.
Avrebbe
trovato il bastardo che aveva fatto del male a Nancy e
gliel’avrebbe fatta
pagare, e gliel’avrebbe fatta pagare cara.
Un
rapido movimento della
testa e il biondo si decise. Estrasse una grande verga di ferro
vericiata di
rosso, con tre artigli di metallo che spuntavano dal suo apice.
Premendo un
piccolo bottone, la parte superiore della verga scattò come
una molla,
lasciandosi dietro un lungo cavo d’accaio. Nel momento esatto
in cui le lame
ricurve si agganciarono, Ash, stringendo forte la verga, si
lanciò nel vuoto.
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Chiedo
umilmente perdono
per il mastodontico ritardo, purtroppo ho avuto un sacco di impegni e
poca
possibilità di stare al PC ç___ç
Ma
oggi mi faccio
perdonare postando anche un disegnino di Ash nel suo nuovo
mascheramento :3
Et
voilà!
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Al
prissimo capitolo! “Jackal!”.
Ci vediamo! :D