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Autore: Demyx    06/08/2012    0 recensioni
«Come ti senti, Ash? »
Era veloce. Rapido come un fulmine. Scivolava intorno a quegli energumeni e schivava i loro colpi con una facilità quasi inumana, ogni movimento era perfetto, elegante e imprevedibile.
«Sarebbe più giusto chiedermi… come NON mi sento. »
Uno, due, tre colpi. E in poco meno di un attimo tutti i suoi avversari erano stesi a terra travolti dalla furia del giovane combattente.
«Cosa intendi dire…? »
Si sentiva forte un toro, veloce come una pantera. Sentiva di poter fare ogni cosa desiderasse, ogni impresa era possibile.
«Sono veloce, sono forte, e i miei occhi… i miei occhi arrivano dove nient’altro può arrivare. »
Si sentiva come un Dio.
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La semplice vita di due giovani ragazzi di Los Angeles, Ash Bryant e Dustin Russel, viene scombinata per sempre. Entrambi ricevono lo stesso dono, ma nello sfruttarlo prendono strade diverse, come era stabilito dal loro destino.
Ma nel momento in cui qualcosa giunge a minacciare ciò che entrambi hanno a cuore, i due ragazzi infrangeranno le barriere di quel destino, per combattere contro il volere di una folle giustizia insensata. E per difendere le vite dei loro cari e dell’intera razza umana.
__________________
«Credi che arrendersi sia la cosa da fare? »
« È la cosa più logica…»
«Ma non la più giusta. »
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4: Di Sangue e di Lacrime

 

Attorno ad Ash, tutto era buio, confuso, come se stesse osservando il ricordo di un sogno lontano, ma sentiva una voce. Una voce grave e calda, che esplose vivida nella sua mente.

 

FOLLE! Come puoi sperare di sconfiggermi!?

 

Non capiva il perché, ma doveva batterlo. Doveva riuscirci a tutti i costi…

 

Io sono …. ! Il Dio del Caos, della Distruzione e della Morte! Tutto ciò che comincia a questo mondo, finisce per mano mia!

 

Cominciò ad avere paura di morire, ma non doveva arrendersi, se l’avesse fatto, sarebbero successe cose orribili, spaventose. Per questo doveva vincere, doveva vincere a tutti i costi.

 

TU STESSO SUBIRAI QUESTA SORTE!

 

Sentì le braccia vibrare impugnando qualcosa di metallico, avvertì la fatica nelle gambe e in tutti i muscoli degli arti. Finché non si rese conto che c’era qualcosa intorno al suo bulbo oculare sinistro, tre dita vi si stavano infilando… e in un lampo esplose il dolore come quello di mille pugnali nel cranio.

 

Ash aprì gli occhi con uno scatto, ancora spaventato a morte. Il contatto con la fredda pietra e la paura ancora nel cuore gli suggerirono di alzarsi il più rapidamente possibile dal terreno, ma la stanchezza improvvisa che sentiva in ogni muscolo del suo corpo lo costrinse a risollevarsi lentamente appoggiandosi al sarcofago.

Si ricordò in un lampo su cosa esattamente si era poggiato e vi staccò velocemente le mani come se fosse stato arroventato, non aveva più intenzione di rimanerci attaccato. Al pensiero di quello che era successo, si guardo la mano destra, aspettandosi di trovarci delle bruciature, invece il suo pallido palmo era immacolato.

La prima domanda che sopraggiunse nella sua mente fu scontata, sciocca:

 

Che diavolo è successo…?

 

Ricordava bene il contatto con il sarcofago e cosa né era conseguito, ma nonostante i suoi ricordi fossero così vividi, la risposta che si diede alla sua stessa domanda fu banale quasi quanto la domanda stessa:

 

Devo aver sognato…

 

Eppure, mentre si strofinava l’occhio sinistro lentamente, Ash ricordò con una precisione quasi preoccupante quelle tre dita dentro il suo cranio, e i nervi oculari strapparsi come elastici troppo tesi.

No, probabilmente doveva aver perso i sensi a causa della mancanza d’aria, ecco perché era svenuto. Il resto non era stato altro che l’influenza del posto.

Doveva andarsene di lì e raggiungere il gruppo, e di corsa.

 

Dust era affannato come dopo una lunga corsa. Aveva la mano destra poggiata sul ginocchio e la sinistra stretta al petto in corrispondenza del cuore. Aveva gli occhi sbarrati dal terrore, e sembrava sul punto di svenire dalla fatica.

L’aveva sentito, così chiaramente… una lama d’acciaio che spezzava le sue costole e s’infilava nel suo cuore facendolo scoppiare come la bollicina di una carta da imballaggio. La sensazione era stata così orribilmente reale che il bruno si stupì seriamente di sentire ancora i battiti ritmici e alterati dalla paura all’interno del suo corpo.

Si sollevò da quella scomoda posizione, con le gambe che tremavano ancora. Doveva stare calmo, ciò che aveva visto doveva essere stato di certo uno stupido sogno che aveva fatto mentre era svenuto. Uno stupido, e veramente realistico sogno.

Doveva uscire da lì. Al diavolo quel posto, al diavolo la “Tomba di Amon-Ra” e al diavolo l’Egitto che l’aveva influenzato così tanto.

Si diresse ancor un po’ barcollante verso l’uscita riaccendendo la torcia del suo cellulare, e appoggiandosi al muro nel cammino, ricordò improvvisamente il sogno che aveva fatto. Quella voce decisa e giovane:

 

Io, oggi vendicherò mio padre… e tu ti pentirai amaramente di avermi sfidato. Pregherai, chiederai pietà ma io non te ne concederò alcuna… sarai sopraffatto dalla stessa morte che tu tanto idolatri, e alla fine non potrai fare altro che averne paura…

 

Poi una luce, talmente abbagliante da bruciargli le retine, la falciata sul torace e la lama nel cuore.

Il solo ricordo gli fece istintivamente portare la mano sul petto, ma decise di rimuovere tutto dalla mente. Era stato solo uno strano incubo, e tale doveva rimanere. Abbandonato nei più profondi meandri del suo cervello.

Quando ormai raggiuse la sala principale in cui si era calato, una figura, di spalle era in piedi davanti a lui. Una figura piacevolmente familiare.

 

«ASH!»

 

Il biondo era proprio di fronte a lui, facendo tirare a Dust un sospiro di sollievo.

 

«Si può sapere dove cavolo ti eri cacciato?»

 

Ash si voltò, sembrando molto sollevato di rivedere il suo amico lì dentro.

 

«Esattamente dove ti eri cacciato tu, Sherlock.» disse lui, affannato «Forza, cerchiamo di raggiungere quel buco e andarcene di qua, non riesco più a stare senza luce»

 

Dust ebbe ancora la forza di esibirsi in un ghigno «Ma come? Il nostro super genio non avrà mica paura del buio?»

 

Ash gli restituì una smorfia.

Arrampicarsi su per il buco non fu difficoltoso dal momento che erano in due. Ash si mise sulle spalle di Dust e raggiunse con un po’ di stenti l’uscita, per poi aiutare l’amico a salire. Quando raggiunsero il gruppo, stettero ben attenti a non dire a nessuno quello che era successo, volendo evitare di essere incolpati per il danno fatto alla stanza di culto, a parte ciò la giornata trascorse tranquilla.

Nessuno dei due disse cosa all’altra cos’ era successo nel profondo della Tomba di Amon-Ra. Nonostante fosse stata un’esperienza quantomeno preoccupante e decisamente curiosa, entrambi pensarono che fosse meglio non mostrarsi angosciati semplicemente per ciò che probabilmente non era stato altro che un incubo in seguito ad un brusco calo di pressione, ma soprattutto perché né Ash né Dust volevano far sapere che erano svenuti come fragili ragazzine. Perciò rimasero in silenzio sulla questione.

 

Nei giorni successivi, entrambi dimenticarono l’episodio nella tomba, ricordandolo soltanto come uno spiacevole incidente di percorso e come una curiosità da poter raccontare in giro una volta tornati a Los Angeles per avere un po’ di attenzione puntata addosso. Per il resto, l’avvenimento dei sarcofaghi fu praticamente rimosso sia da Ash che da Dust.

Al termine della settimana, i due raggiunsero l’aeroporto internazionale di mattina molto presto, anche se con leggero ritardo (dovuto naturalmente a Dust). Ash rivide con sollievo i propri genitori al Check-in parecchio più abbronzati del solito, ma con niente di diverso.

 

«Allora, ragazzi…» cominciò Stephen Bryant con un gran sorriso, non appena i due ragazzi si avvicinarono «…vi siete divertiti?

 

«Abbastanza» disse Ash pacato, in contrasto alla risposta entusiasta di Dust: «Da paura!»

 

«Ne sono contenta» rispose la madre di Ash con un’espressione felice e soddisfatta «Spero per voi che non abbiate dimenticato nulla in albergo, perché il nostro volo parte tra quindici minuti»

 

In poco tempo i quattro ebbero la possibilità di salire sull’aereo che li avrebbe finalmente riportati a casa.

Il viaggio per Ash e Dust fu esattamente come all’andata per entrambi. Ma chissà per quale motivo, il viaggio di ritorno sembrò molto più corto: in un periodo di tempo apparentemente brevissimo erano già passate parecchie ore, e ormai da parecchio il sole era scomparso immergendosi tra le sconfinate acque del mare Atlantico. Ash aveva finito di leggere il suo libro circa tre ore prima, perciò si era messo a scrutare il cielo attraverso il finestrino, girandosi ogni tanto a guardare Dust che dormiva beato con la bava alla bocca e le cuffie nelle orecchie.

Puntando ad un tratto verso il basso, il biondo si notò finalmente una sagoma di luci scintillanti come stelle sul terreno. Una sagoma che lui conosceva molto bene: quella era Los Angeles. Finalmente erano arrivati.

Tirò un sospiro di sollievo immotivato nel rivedere quella miriade di luci che brillavano sotto di lui, quelle luci che in quel momento gli trasmettevano sicurezza e tranquillità. Continuando a guardare sul suo volto si dipinse un sorriso rassicurato che si allargò nel vedere le strade, i quartieri, e la grande scritta Hollywood bianca sulle colline…

Ash sobbalzò, sgranando gli occhi.

Possibile che fossero davvero così visini al terreno? Così vicini da permettergli di distinguere i dettagli così bene? Prima che potesse trovare risposta, la voce gentile del pilota irruppe nell’abitacolo dell’aereo facendoli sobbalzare.

 

«Gentili passeggeri, siamo lieti di informarvi che stiamo per cominciare la discesa verso l’aeroporto di Los Angeles. Siete pregati di allacciare le cinture, grazie.»

 

Il ragazzo assunse un’aria preoccupata, prima di ripuntare lo sguardo verso il basso. Tutto ciò che vedeva, non era altro che una matassa di luci in lontananza.

Se avevano appena cominciato la discesa, significava che l’altezza non era decisamente abbastanza da permettergli di vedere i dettagli di tutta la città con una tale precisione. Allora perché lui ci riusciva? Si era appena immaginato tutto? Ormai cominciava a dubitare fortemente che tutto ciò che gli stava accadendo fosse solo una questione di sogni e immaginazioni…

 

*

 

La mattina dopo, curiosamente, Ash si risvegliò senza particolari preoccupazioni. Era ormai da alcuni giorni che non faceva più nessun incubo e quel giorno non sarebbe dovuto andare a scuola per ordine di sua madre, che gli aveva concesso un paio di giorni di pausa dal viaggio, spiegando con fierezza che “se avesse perso un paio di lezioni non sarebbe certo stato un danno”, e naturalmente lui non aveva obbiettato.

Si alzò dal letto rendendosi conto che erano da poco passate le nove. S’infilò i jeans , la maglietta e le converse, e scese in cucina con l’intenzione di farsi una bella colazione americana che in quella settimana gli era particolarmente mancata. Quando raggiunse il piano di sotto realizzò che i suoi genitori non c’erano. La cosa non lo stupì, visto che loro non potevano permettersi di perdere una giornata di lavoro con la stessa facilità con cui lo faceva lui. Di conseguenza decise un po’ seccato di prepararsi la colazione da solo. Mise un paio di tegami sul gas e cominciò a cucinare uova e pancetta quando un pensiero lo sfiorò con la violenza di un pugno allo stomaco.

Prese il cellulare e cominciò a scrivere un messaggio:

 

“Ehilà! Indovina chi è appena tornato? :3”

 

Destinatario: Nancy Criss.

Rimise il cellulare in tasca e fissò fuori dalla finestra con aria sognante per un tempo che non avrebbe potuto chiaramente definire, finché non fu risvegliato dalle uova che bruciavano.

Dopo un’ora Nancy non aveva ancora risposto. Ash non se né stupì particolarmente. Sapeva che Nancy non dava mai troppo peso al cellulare, ma chissà perché in quel particolare frangente sperava che gli avrebbe risposto subito, anche se probabilmente era a scuola.

Sì, doveva essere per quello che non gli aveva ancora scritto nulla, ma aveva comunque una curiosa sensazione.

Cacciò via dalla mente qualche sciocco pensiero infondato e diede invece retta al suo stomaco, che stava certamente cercando di fargli capire che la colazione fatta da poco non bastava. Perciò si alzò dal divano dove era disteso e si diresse di nuovo in cucina, con l’intenzione di sgranocchiare qualche biscotto. Trovò un barattolo di latta contenente biscotti al cioccolato in una dispensa, e fu ben lieto di prendere il contenitore leccandosi i baffi.

Cerco di aprirlo ma era incastrato molto bene. Doveva essere colpa di quella fissata di sua madre che voleva sempre mettere tutto sotto vuoto. Ci riprovò, mettendo un po’ più di forza.

Al secondo tentativo accadde qualcosa d’impensabile: il barattolo si aprì, ma la mano che lo reggeva si strinse talmente tanto attorno ad esso che la latta si accartocciò con un rumore terribile generato dal miscuglio della lega che si stritolava e i biscotti che si polverizzavano, fino a ché tutta la parte centrale del contenitore non si assottigliò raggiungendo il diametro di due o tre centimetri. Rimasero però intatte le parti più esterne e facendo assomigliare il tutto a una strana specie di clessidra di latta.

Al suono del barattolo stritolato dalla sua mano, Ash sobbalzò e lo lasciò cadere, facendone uscire il contenuto ormai ridotto a una poltiglia di briciole marrone.

Rimase immobile, non sapendo cosa pensare.

Aveva fatto lui quella cosa? Aveva ridotto lui quel barattolo metallico a uno strano tipo di scultura moderna, semplicemente mettendo un po’ di forza nella mano?

Nella sua mente esplosero in un lampo centinaia di possibili spiegazioni logiche. Ma non ne trovò nessuna che calzasse. Sembrava proprio che avesse stritolato il contenitore dei biscotti con le proprie forze, e senza neanche metterci troppo impegno.

Per la prima volta in vita sua non riuscì a pensare a niente. Perciò passò alla seconda cosa più ovvia che chiunque avrebbe fatto in quella situazione: pulire per terra.

Prese la scopa e la paletta e cominciò a spazzare le briciole che erano arrivate persino nel salotto. Dopo aver spazzato per bene in cucina, ripose il barattolo vicino al lavandino toccandolo con cautela come se avrebbe potuto aggredirlo. Poi si diresse nel salotto e cominciò a spazzare con la mente ancora vuota.

Un po’ di briciole erano finite sotto il divano, perciò s’inginocchiò, mise una mano sotto di esso e cercò di sollevarlo appena, giusto lo spazio necessario per raccogliere le briciole.

Stranamente, quello si rivelò molto leggero.

Ash aveva ancora lo sguardo puntato a terra, ma cominciò ad avere molta paura nel guardare la mano che reggeva il divano, ma alla fine si costrinse e guardò.

L’intero divano era sollevato in aria, e aveva come unico punto di appoggio il braccio di Ash, posto solo a una trentina di centimetri da terra.

Il ragazzo sobbalzò ancora una volta, lasciando cadere il divano sul pavimento con un boato assordante e indietreggiando verso il muro, prendendo la saggia decisione di appoggiarvisi.

Fissò l’oggetto che aveva appena sollevato come se fosse stata una creatura mostruosa in procinto di sbranarlo, respirando affannosamente.

Dopo aver ripreso un po’ la calma, si fissò le mani, cominciando seriamente a pensare per la prima volta che non ci fosse una spiegazione logica per ciò che gli stava accadendo.

 

Pochi minuti dopo era fuori di casa. Camminava per le tranquille strade del Wholesale District, con le mani in tasca e la testa bassa.

Non sapeva cosa pensare, a parte alle frequenti immagini del barattolo che si stritolava e del divano sollevato in aria. Riusciva solo a pensare alle sensazioni che aveva provato. La latta sotto le sue mani era diventata più fragile della carta velina, e il divano era così leggero che sembrava fatto di polistirolo. Tornò a guardarsi le mani.

Come diavolo era riuscito a fare quelle cose? Com’era possibile che i deboli muscoli umani fossero capaci di fare cose del genere? Non trovò alcuna risposta, perciò rinfilò le mani nelle tasche, ripensando anche a quello che era successo sull’aereo, quando era stato capace di vedere a decine di chilometri come se si trovasse a poche centinaia di metri da terra. Che quegli avvenimenti fossero collegati?

Non riuscì a capire quanto camminò, né dove i piedi lo stessero portando, ma dopo un tempo non proprio definito, qualcosa attirò la sua attenzione.

Un urlo, e una serie di urti frequenti e irregolari. Ash sobbalzò dalla paura per la terza volta nel giro di un’ora, per poi avvicinarsi a passo svelto verso la fonte del rumore: un vicolo stretto e oscurato posto tra due case con i mattoni scoperti. Cominciarono a sopraggiungere delle voci.

 

«Hai pensato bene di non pagare, eh bastardo?»

 

«Te l’avevamo detto che non l’avresti passata liscia!»

 

La prima voce era grave e rude, la seconda era più gracchiante e pungente. Senza pensare troppo Ash si affacciò nel vicolo, rendendosi conto che due uomini stavano picchiando violentemente un terzo, che gemeva dolorante con la schiena al muro cercando di difendersi come meglio poteva. I due che avevano parlato sembravano decisamente dei poco di buono. Il primo era un uomo di colore bello grosso, con pantaloni di pelle e maglietta bianca, attorno al collo muscoloso portava una catena a mo’ di collana. Il secondo era magro e dall’aria malaticcia, con untuosi capelli rossi e lunghi e il volto incavato come quello di uno scheletro.

Ash si rese conto troppo tardi che aveva messo il naso in affari che non lo riguardavano affatto, anche perché i due criminali si voltarono verso di lui fissandolo in silenzio per un paio di secondi.

 

«Guarda guarda…» cominciò il più grosso aprendo il volto in un sorriso. Ash notò che gli mancavano due premolari «Abbiamo un curioso, qui»

 

Quello più magro intervenne puntando lo stesso identico sorriso dell’amico sul biondo. «Dovremmo fare in modo di tappargli la bocca una volta per tutte. Tu che ne dici Mike?»

 

Ash ingoiò un groppone, ma rimase in silenzio.

 

«Meglio di no, Baby Jay. Lo sai che il capo non vuole che ci lasciamo cadaveri dietro.»

 

L’uomo chiamato Mike si allontanò dall’individuo malmenato coperto di sangue e lividi, e si avvicinò ad Ash, che stranamente non aveva tutta quella paura che si dovrebbe avere logicamente in una situazione del genere.

 

«Stammi a sentire, stronzetto…» cominciò l’energumeno «…se qualcuno comincia a fare domande su ciò che hai visto, daremo per scontato che sia stato tu a spifferare tutto. Perciò verremo a cercarti e faremmo ciò che dovremmo fare oggi. Sono stato abbastanza chiaro?»

 

In un lampo, chissà per quale motivo, la paura era sparita completamente nel momento in cui Ash aveva sentito la parola “stronzetto”. Perciò non ebbe alcun timore di rispondere alle sue intimidazioni con un sorriso beffardo degno di quelli di Dust.

 

«Beh, nonostante tu abbia usato un condizionale invece che un futuro semplice… si, ho capito. Ma avrei capito meglio se tu avessi completato la scuola elementare».

 

Mike sbarrò gli occhi. Evidentemente nessuno aveva mai avuto il coraggio di parlare così di fronte a quell’imponente massa di muscoli. Probabilmente fu a causa di questo che l’energumeno afferrò Ash per il colletto della maglia avvicinando la sua faccia a pochi centimetri da quella del biondo.

 

«Forse hai le orecchie otturate e non ci senti bene…» cominciò ringhiante, per poi interrompersi nell’osservare il ragazzo che storceva il naso e tossiva.

 

«Già…» iniziò con espressione disgustata «… è un peccato che invece il mio naso funzioni perfettamente».

 

Il grosso uomo di colore non ci vide più dalla rabbia. Tirò indietro il braccio caricando un pugno e lo sferrò.

Ash ebbe tutto il tempo di stupirsi. Possibile che quel braccio muscoloso fosse così lento? In un lampo il ragazzo si liberò dalla presa al colletto e schivò il pugno abbassando la testa.

Vide arrivare un altro cazzotto e un altro e un altro ancora. Ma lui li schivò tutti semplicemente spostando il busto, restando con i piedi saldi per terra.

Dopo la scarica di colpi a vuoto, Mike indietreggiò con i pugni ancora alzati e con il volto deformato da un’espressione di stupore. Alle sue spalle, il tizio scarno chiamato Baby Jay aveva gli occhi così sbarrati che somigliava ancora di più ad uno scheletro.

 

«Cos’aspetti!?» sbraitò il grosso uomo di colore al suo amico «Dammi una mano!»

 

L’individuo dai capelli rossicci sembrò riprendersi da una specie di trance, e afferrò un paio di grossi coltelli che aveva nascosto sotto la giacca, manovrandoli con aria esperta.

 

«Non preoccuparti Mike, prometto che lo lascerò abbastanza in vita da permettergli di trascinarsi all’ospedale…» ghignò il rosso «…forse».

 

Si gettò sul ragazzo con i pugnali spinati, tentando un affondo allo stomaco con il coltello destro.

Per Ash fu facile, fin troppo. Si spostò leggermente a destra, afferrò il nemico per il braccio e (era davvero così leggero?) lo scagliò contro il muro con una facilita impressionante. L’urto fu così violento che il corpo del criminale fece addirittura crepare un paio di mattoni.

 

«Se mai dovrò trascinarmi all’ospedale sarà per portarci voi due» disse il biondo con aria saccente.

 

Osservò l’uomo dai capelli rossi che si alzò a fatica, con un rivolo di sangue che gli scendeva dalla tempia. Inizialmente non si accorse che l’altro avversario stava caricando un pugno alle sue spalle, ma un improvviso spostamento d’aria alle sue spalle fu abbastanza. Ash saltò in aria, fece una capriola all’indietro esattamente sopra la testa di Mike e, una volta arrivatogli alle spalle lo colpì con un calcio circolare alla nuca. L’energumeno schizzò ad un paio di metri di distanza trascinandosi sull’asfalto ruvido.

Ash era euforico. Sentiva l’adrenalina scorrergli lungo il corpo e offuscargli il cervello come una droga. Si sentiva forte come un toro e veloce come un leopardo.

I due criminali si rialzarono affannati e doloranti, ma i loro volti continuavano a mandare vampate di odio puro che il biondo riusciva quasi a sentire sulla pelle. Ma lui non aveva alcuna paura: rispose ai due con un sorrisetto di sfida, che sembrò irritarli ancora di più.

Si gettarono insieme su di Ash da parti opposte, Mike caricò come un giocatore di rugby pronto ad un placcaggio epico e Baby Jay tenendo ben alti i suoi coltelli. Il ragazzo rimase immobile, fermo come una statua fino all’ultimo secondo, in cui scattò come una molla. Afferrò uno dei coltelli di Baby Jay e gli spostò il braccio con la mano sinistra, per poi sferrargli un colpo alla base del collo rapida come un fulmine, si voltò il più rapidamente possibile girando sul tacco sinistro e sferrando un altro calcio circolare alla spalla di Mike che andò a cozzare contro il muro. Senza smettere di girare Ash ritornò con lo sguardo puntato verso l’uomo con i coltelli e lo finì con un colpo di palmo al plesso solare.

Nel vicolo esplose il silenzio rotto solo dai respiri affannati di Baby Jay che era riuscito a non svenite al contrario del suo amico. Ash li ignorò entrambi pensando che in quel momento sarebbe stato più utile soccorrere l’uomo che era stato appena malmenato dai due. Avvicinandoglisi, il biondo si accorse che lo sconosciuto lo fissava con occhi sbarrati e la bocca semi aperta. Proprio l’espressione che aveva in testa anche lui mentre ripensava a ciò che aveva fatto.

 

«Tutto bene?» disse semplicemente, inginocchiandosi di fronte all’uomo ferito, un individuo dai capelli neri molto corti sui 35 anni.

 

«Si, ora si… grazie.» rispose lui, alzandosi un po’ a fatica. Sembrava intenzionato a non dire altro.

 

«Vuoi che ti accompagni all’ospedale?» chiese Ash preoccupato, osservando l’individuo alzarsi un po’ traballante.

 

«Ti ringrazio, ma ce la faccio da solo» e si allontanò un po’ zoppicante.

 

Il biondo continuò a fissare il punto in cui se n’era andato senza rendersi conto che i suoi occhi stavano osservando cose ben diverse che l’uscita del vicolo. Davanti ad essi ripassavano le immagini del combattimento appena svolto, ancora non poteva credere di aver fatto una cosa del genere. Fino a due giorni prima probabilmente in una situazione del genere sarebbe scappato a gambe levate, ma di certo non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato capace di fare una cosa come combattere contro quei ceffi e stenderli in meno di un minuto. Sentiva di poter fare ogni cosa desiderasse, ogni impresa era possibile.

Stringendo i pungi sentì la forza delle sue mani che era accresciuta notevolmente, sentendo un’enorme potere in tutto il suo corpo.

Sentendosi come un dio.

 

*

 

Tornò a casa all’ora di pranzo, ancora con lo sguardo perso nel vuoto. Neanche si rese conto delle urla di sua madre mentre si stava automaticamente dirigendo verso le scale della sua stanza.

 

«ASH! Mi senti?»

 

Il biondo sobbalzò, risvegliandosi dal suo anomalo stato di trance. «Eh, che c’è?»

 

«Sono due ore che ti chiamo» disse la donna, mentre cucinava ai fornelli con espressione imbronciata «Comincia a sistemare la tavola che è pronto».

 

Ash non disse nulla, si diresse automaticamente verso il mobiletto verde nel salotto, dove suo padre guardava il notiziario leggendo il giornale come faceva spesso. Come facesse a trarre informazioni da entrambi, suo figlio non lo aveva mai capito. Non ci sarebbe riuscito neanche lui con quel super cervello che si ritrovava.

S’inginocchiò di fronte al mobiletto, lo aprì e ne estrasse tre piatti bianchi, dirigendosi verso la cucina e cominciando a captare qualche stralcio di notizia dalla TV.

 

«…una ragazza della Chaplin High School del Wholesale District è stata violentata ieri notte intorno alle ventitré, mentre si ritirava a casa dopo una sera con le amiche…»

 

Il giovane si sollevò sulle ginocchia e si diresse verso la cucina, puntando gli occhi sulla televisione dove parlava una giornalista sui cinquant’anni.

 

«…l’atto si è consumato nei pressi di Brownien Boulevard…»

 

Era stupefatto. Una ragazza della sua scuola era stata violentata e per di più a pochi isolati da casa sua.

 

«...le notizie appena ricevute in redazione ci informano che la vittima è Nancy Criss, una ragazza di 16 anni, ora ricoverata all’ospedale di…»

 

I piatti s’infransero sul pavimento, facendo sobbalzare entrambi i signori Bryant.

Ash fissò lo schermo della TV con un’espressione di terrore allo stato puro. Tutto intorno a lui era diventato nient’altro che nebbia, cose di poca importanza. Gli sembrava di sentire i genitori che esclamavano qualcosa, gli parve di sentire i cocci di ceramica dotto i piedi e forse la giornalista stava continuando a parlare. Ma per lui tutto era lontano, come un sogno, che lo lasciava però estraneo catapultandolo in una realtà da incubo.

Corse fuori senza badare ai suoi, e si diresse al garage. Aveva scordato le chiavi, ma la cosa non lo preoccupò. Sollevò la saracinesca sentendo i perni di ferro che la bloccavano strapparsi come se fossero fatti di legno sottile, montò sulla sua bici e si diresse in strada, pedalando come mai in vita sua.

Cominciò a piovere parecchio forte, ma Ash sembrò non accorgersene. Pedalava con il sedere alto e lo sguardo terrorizzato fisso nel vuoto. Le gomme sfrecciavano sull’asfalto bagnato ad una velocità impressionante, riuscendo a portare la bici ad una velocità talmente alta da permettergli superare anche le automobili. Ma lui non aveva certo tempo per stupirsi di questo.

Raggiunse l’ospedale e con una sgommata esagerata, Ash abbandonò la bici sul marciapiede di fronte all’entrata, dirigendosi alla porta dell’edificio zuppo da capo a piedi.

L’Atrium dell’ospedale era molto ampio e spazioso, pieno di persone che non diedero retta al ragazzo zuppo come un pulcino che entrava con aria terrorizzata, guardandosi attorno per cercare un luogo in cui chiedere informazioni. Ma dopo alcuni secondi la sua presenza fu notata da parecchi curiosi, che cominciavano a chiedersi cosa ci facesse quel giovane zuppo di pioggia che si guardava intorno come un folle.

Senza pensare agli sguardi curiosi di Pazienti, Medici e infermieri, Ash si diresse al banco delle informazioni che aveva appena individuato. Le uniche due parole che riuscì a tirare fuori dalla bocca furono:

 

«Nancy Criss…»

 

Al banco c’era un’infermiera dai capelli neri di circa trent’anni.

 

«Mi spiace, ma l’orario delle visite è terminato 10 minuti fa, deve tornare dom…»

 

La donna non riuscì a finire la frase, che il ragazzo tirò rabbioso un pugnò sul tavolo della reception. Un forte boato si propagò per tutta l’anticamera, zittendo tutti quanti.

Leo aveva provocato un buco nel tavolo, largo almeno 30 cm, sfondandolo.

 

 «Ho detto che voglio vedere Nancy Criss… e le conviene sbrigarsi a dirmelo, altrimenti posso arrivare a fare di peggio». Il giovane non ci vedeva più dalla rabbia.

 

La donna, terrorizzata, riuscì a proferire solo quattro parole: «…S-stanza 114, terzo piano…»

 

«Grazie». Ringhiò Ash, dirigendosi verso le scale.

 

Corse lasciandosi impronte bagnate e senza dare troppo peso alle persone che urtava, raggiunse la rampa delle scale coprendo la distanza di tre scalini ad ogni passo. Raggiunse il primo piano e in pochi secondi era già al secondo, poi finalmente arrivò al terzo. Sempre di corsa, osservo la porta di fronte alla rampa di scale: era la numero 84. A destra proseguivano i numeri minori e a sinistra quelli maggiori, Ash si gettò nel corridoio a sinistra.

Era tutto deserto. Gli unici rumori erano i suoi passi umidicci in corsa e il suo respiro affannato che penetravano il silenzio della zona.

 

109…110…111…

 

Riusciva a vedere la porta, doveva sbrigarsi. Assolutamente.

 

…112…113…

 

Cominciò a rallentare, realizzando che non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe detto.

 

…114

 

Si fermo di fronte alla porta, esausto. Non si era fermato un solo secondo da quando aveva appreso la notizia alla televisione dieci minuti prima, e non aveva avuto tempo di riflettere su cosa sentiva.

Provò a intavolare qualche pensiero, ma tutto ciò che rimaneva nella sua testa erano le parole della giornalista che parlavano della ragazza violentata due giorni prima, che galleggiavano pigre, echeggiando nella sua mente.

Senza neanche bussare, aprì la porta.

Nancy era lì, in quella spoglia stanza bianca. Era nel letto sotto le lenzuola, ma era seduta e fissava la finestra alla sua sinistra, osservando le gocce di pioggia tintinnare sul vetro, senza quasi notare che Ash era entrato nella stanza dalla porta alla sua destra.

Il biondo notò immediatamente sul comodino un vaso di rose rosse, che facevano un netto contrasto con il bianco della stanza. Di chi potevano essere…?

Facendosi coraggio, Ash parlò.

 

«Ehm… Nancy?»

 

La ragazza si voltò, facendolo sentire ancora più demoralizzato e abbattuto. Nancy non aveva nessun segno evidente sul volto, ma i suoi occhi verde mare erano privi della luce allegra e spensierata che di solito li ornava. Quel giorno erano vuoti e spenti, come se qualcuno avesse chiuso delle persiane dietro di loro.

 

 «Ciao, Ash» disse lei con un largo sorriso, che però non trasmise ad Ash il solito calore che lei sapeva infondergli. «Ti sei divertito in Egitto?»

 

Lui rimase in silenzio, senza sapere cosa dire. Lei sembrò averlo notato perché il suo sorriso cambiò trasformandosi in un’espressione di compassione.

 

«Non c’è bisogno che ti preoccupi, Ash… io stò bene. Ho solo bisogno di riposare un po’».

 

Ash si appellò a tutta la sua forza di volontà per riuscire a sbloccare le labbra. Alla fine riuscì a parlare.

 

«Nancy… non puoi chiedermi di non preoccuparmi» disse piano.

 

Lei non sembrava rendersi conto di ciò che le era capitato. Forse lo shock era stato talmente forte da causargli qualche tipo di rimozione dei ricordi, o semplicemente non voleva dare l’impressione di essere debole e ferita? Ash non lo sapeva, ma sapeva che le era stato fatto del male, e niente lo avrebbe smosso da tale pensiero.

 

«Preoccuparti non risolverà nulla. È inutile piangere sul latte versato». Nancy prese una selle rose dal comodino e la porse ad Ash con un sorriso rassicurante.

 

«Prendila pure, per farti stare più tranquillo»

 

Ash la prese, sfiorando leggermente le dita della ragazza. Erano fredde come il ghiaccio.

Improvvisamente, la porta alle sue spalle si aprì. Nella stanza entrò un’uomo dai capelli scuri striati di nero, con un camice bianco e un paio di occhiali sul naso. Aveva un’aria parecchio contrariata.

 

«Ragazzo…» disse rivolgendosi ad Ash «Devo chiederti di andartene immediatamente. L’orario delle visite è temrinato venti minuti fa. Potrà ritornare a fare visita alla sua amica domani mattina».

 

Nancy voltò di nuovo lo sguardo verso la finestra, osservando la pioggia incessante. Ash non sarebbe riuscito più a dire nulla, perciò, accettò la richiesta del medico, lasciando la stanza.

Il giovane rimase indietro camminando lentamente e con lo sguardo basso, lasciando che il dotore cominciasse a scendere le scale scomparendo dalla sua vista.

Nel corridoio vuoto, ormai solo, Ash cominciò a piangere.

Le lacrime gli rigarono lentamente il viso, mentre il suo volto eradeformato da un’espressione di rabbia selvaggia e i suoi pugni si stringevano furiosamente. All’interno della sua mano destra sentì le spine della rosa entrare nella carne, senza curarsene affatto. In breve, la sua mano sangiunava abbondantemente lasciando cadere goccie di sangue sul freddo pavimento dell’ospedale, che si andavano a mescolare con le lacrime cadute per terra.

Ormai ne era certo. Ash sapeva cosa doveva fare. E niente lo avrebbe fermato nel suo intento.

 

*

 

Il giorno dopo Ash si chiuse nel garage di casa per tutto il giorno successivo. Il giorno precedente aveva comprato dei materiali e ora aveva intenzione di utilizzarlo, perciò al sicuro nel grande spazio colmo di attrezzi da lavoro e cianfrusaglie, il giovane si era messo all’opera con carta, penna, macchine da cucire e fiamma ossidrica, approfittando dell’asenza dei suoi genitori per una gita chissà dove. Lavorò per molto tempo, senza mai stancarsi e senza mai pensare ad altro che al suo obbiettivo. Non riuscì neanche a mangiare sapendo che aveva ancora del lavoro da fare. Ormai i suoi centottanta punti di quoziente intellettivi erano ragruppati tutti attorno al compito che si erano prefissati, senza lasciarsi distrarre da nient’altro

Ci mise meno tempo di quanto aveva programmato, e la sera dopo fu già pronto per entrare in’azione.

 

Era scesa la sera da un paio d’ore a Los Angeles, eppure le auto ancora scorrazzavano nelle strade come migliaia di formiche brulicanti intorno ad un formicaio. Sia gli automobilisti e i passanti guardavano dritti di fronte a loro, senza curarsi di ciò che avevano attorno, senza pensare di alzare lo sguardo al cielo e di osservare le poche stelle visibili ma così rare in una metropoli grande come LA. Ma quella notte non c’erano solo le stelle a guardarli. Se i cittadini della Downtown avessero puntato lo sguardo in’alto, avrebbero visto sicuramente qualcuno, in cima alla Bank Tower.

Era un ragazzo, vestito con un paio di Jeans decorati con una fantasia di fiamme rosse dal ginocchio in giù, e con un paio di Converse rosso fuoco. Il torace era coperto esclusivamente da una canotta azzurra, con un grande falco tribale bianco dalle ali spalancate stampato sulla schiena, più un paio di guanti senza dita lunghi fino a metà dell’avambraccio e dello stesso colore delle scarpe. Infine, intorno al suo volto, c’era una bandana color arancio vivo che lasciava visibili i capelli biondi sulla nuca, con due placche di vetro cucite su di essa che permettevano la vista, costruite in modo da dare a chi la indossava un’espressione minacciosa, e lasciando liberi al vento due lunghi lacci che legavano la bandana alla testa.

Ash guardava in basso le strade della Downtown, riuscendo a distinguere alla perfezione ogni volto, ogni passo e ogni scritta sulla strada, nonostante fosse a duecento metri d’altezza, come un falco che scruta la sua preda, senza tregua.

Era da ore piantato lì sulla cima di quel palazzo, ma non aveva intenzione di spostarsi. Avrebbe trovato il bastardo che aveva fatto del male a Nancy e gliel’avrebbe fatta pagare, e gliel’avrebbe fatta pagare cara.

Un rapido movimento della testa e il biondo si decise. Estrasse una grande verga di ferro vericiata di rosso, con tre artigli di metallo che spuntavano dal suo apice. Premendo un piccolo bottone, la parte superiore della verga scattò come una molla, lasciandosi dietro un lungo cavo d’accaio. Nel momento esatto in cui le lame ricurve si agganciarono, Ash, stringendo forte la verga, si lanciò nel vuoto.

 

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Chiedo umilmente perdono per il mastodontico ritardo, purtroppo ho avuto un sacco di impegni e poca possibilità di stare al PC ç___ç

Ma oggi mi faccio perdonare postando anche un disegnino di Ash nel suo nuovo mascheramento :3

 

Et voilà!

 

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Al prissimo capitolo! “Jackal!”. Ci vediamo! :D

  
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