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Autore: nals    07/08/2012    1 recensioni
Tirare su le coltri e risistemare il letto è semplice. Cecilia sa farlo da quando era ragazzina: la mamma era stanca di fare tutto lei. La mamma che l’aspetta tutte le mattine accovacciata sul divano, il sorriso a tirarle su le labbra, gli occhi così chiari da sembrare un poco bianchi e così profondi, come le pareti vuote che le augurano la buonanotte prima di mettersi a dormire.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Raffineria.
 
 
 
 
 
Le mattina è fredda e Cecilia l’abbraccia, restituendole le lenzuola, per riscaldarla o per farsi raffreddare.
Gli occhi non vogliono saperla di aprirsi, ma poi si arrendono. Sono neri. Neri come il fondale del mare di notte, ma non profondi uguale. Sono occhi pieni d’incagli. Sanno spingerti fuori e farti annegare; il quando lo decidono loro – e Cecilia.
Tirare su le coltri e risistemare il letto è semplice. Cecilia sa farlo da quando era ragazzina: la mamma era stanca di fare tutto lei. La mamma che l’aspetta tutte le mattine accovacciata sul divano, il sorriso a tirarle su le labbra, gli occhi così chiari da sembrare un poco bianchi e così profondi, come le pareti vuote che le augurano la buonanotte prima di mettersi a dormire.
Inforca una sciarpa color criptonite da legarsi al collo e si allaccia le scarpe con una mano sola. Sua nonna continua a guardarla dalla cornice scura sul comodino. Non le sorride davvero. La borsa è già pronta, è pronta ogni mattina. Cecilia l’afferra, così un po’ troppo vuota, e corre in cucina.
‘Buongiorno’ le sorride la mamma, ‘buongiorno’ sussurra Cecilia. Le da un bacio in fronte e lascia che le dita fredde le scorrano sulla guancia. ‘Vado’ dice dopo aver trangugiato il caffè  troppo in fretta – è freddo e le ustiona la lingua come i polaretti alla fragola di quand’era bambina – e corre via, rotolando giù per le scale. Le piacciono le scale. Più salirle, però. Scenderle è come scappare in continuazione.  È non riuscire a trovare  un motivo per fermarsi.
Salire, invece, è come vivere. Controllare i respiri e stringere i denti. Ci si può fermare per la stanchezza o perché si ha l’impressione che quell’ultimo scalino se la stia dando a gambe, lasciandoci indietro. Oppure non fermarsi affatto. Dimenticare il fiatone e non voler nient’altro che esser lì sopra. Perché il lì sopra è ciò che si sta cercando.
L’autobus delle 6:30 è sempre troppo vuoto d’estate. La stoffa masticata dei sedili è messa in bella mostra ed così invadente o invasiva da esser sul punto di ingoiare il corridoio e Cecilia ad ogni passo. Il conducente risponde al saluto con gentilezza, chissà se lo ha capito che il biglietto non l’ha comprato affatto oggi e neanche ieri o il giorno prima e tutti gli altri ancora. I biglietti li vendono in città, lei in città ci va con l’autobus. E questa faccenda è una contraddizione concreta e così bastarda da mandarla fuori di testa. Come quando suo padre le dice ‘ti voglio bene’, ma a casa non ci torna mai, perché il lavoro non lo può lasciare. Il lavoro non lo può lasciare davvero, non sia mai. Ma sua figlia sì, eccome.
Cecilia sbuffa nascondendo un sorriso e sprofonda nella stoffa di uno dei sedili apparentemente più innocui. È più nero che rosso, nero di sporco, fa meno paura. Non morde, né ingoia. Fantastico.
Cecilia è sul punto di appisolarsi quando l’autobus muore borbottando sul ciglio della strada. La città è quasi bella a quell’ora del mattino. Brulica di gente affaccendata che non guarda.
È bello non essere guardati. É come convincersi di non esistere per davvero. È come sentirsi liberi di scoppiare a ridere ad un funerale.
La porta del negozio si apre piano e Cecilia ricomincia a respirare senza l’affanno di quando ascolta il silenzio sussurrare nella stanza di sua mamma.
C’è poca luce e la musichetta stridula di benvenuto a gracchiare insopportabile nelle orecchie.
“Lo scaffale infondo è da sistemare. Ti do mezz’ora.”
Carlo non dice ‘buongiorno’: non sa come si dica ‘buongiorno’. Cecilia, invece, non dice niente, perché non le va e basta. Abbandona la borsa vuota sul bancone e fa quello che deve. Lo scaffale infondo da sistemare è quello dei classici inglesi e Cecilia sorride. Non c’è niente da sistemare. Carlo ha fatto già tutto. Ma la manda lì ogni giorno e lei continua a non dire niente. La mezz’ora è tutta la mattinata fino all’una scoccata, dura i libri che le va di leggere e le occhiate curiose alla gente che entra. Ce n’è sempre tanta a girovagare per i corridoi, a scavalcare pile lasciate in terra e sfogliare piccoli capolavori, ma troppo poca che compri abbastanza da poter tornare a casa soddisfatta e da rendere felice Carlo, lui e le sue tasche quasi vuote.
È dura di questi tempi, sono duri i tempi, come la salita per la raffineria in periferia da fare in bici e i pedali che non girano. Sono le nove e quaranta quando Giovanni sbuca sulla soglia. Ha gli occhi bassi e le guance rosse, Cecilia nasconde il sorriso tra alcune delle righe di Swift.
Giovanni ha un anno in più di lei, due occhi splendidi e delle mani ancora più belle. Sanno come stringerti, solo le mani, sì, senza braccia. Quelle vengono dopo. Lo conosce da una vita, ha pensato anche di potersene innamorare. Poi però è arrivato Carlo. Cecilia è convinta che l’ottusa cecità del suo capo e i cinque anni compresi tra i 21 e i 26 siano l’unica cosa a dividerli. Abbandonare Gulliver è quasi un sollievo, ma spingere Kerouac tra le dita di Giovanni è terribilmente soddisfacente. Il mare raccolto negli occhi del ragazzo urla al panico, ma Cecilia lo tranquillizza con un sorriso.
“Bella scelta, ragazzino” blatera Carlo, conservando quelle pagine meravigliose in una busta.
“Mi hanno detto che è il tuo preferito.”  Le guance di Giovanni friggono di vergogna, la sua voce, però, è come il vento al contrario. È fuorviante per quanto suoni tranquilla. Carlo non risponde nulla, lo guarda andar via e basta. Cecilia sbuffa per l’ennesima volta, tornando a trotterellare dietro le caviglie di Gulliver.
 
 
 
L’autobus delle 14:00 è meno silenzioso e rassicurante. È talmente tanto vecchio da rischiare di spirare per strada.
Il conducente è impegnato col cellulare, non la saluta più, ma le vecchiette sedute avanti le sorridono serene. Lei ricambia in imbarazzo.
Il sedile che aveva occupato quella mattina è libero, Cecilia se lo riprende con tranquillità. Ma nel poggiare la borsa – vuota –  quella sensazione che aveva iniziato a sapere di leggera felicità, la perde in un colpo solo. Come ha perso l’orologio dal cinturino bianco che le aveva regalato suo zio e le frasi di Baudelaire conservate tra i ventricoli di un cuore un po’ meno acceso, come la lampadina fiacca in cantina che si accede e spegne in continuazione. O l’abbraccio di una mamma. O tutta la mamma.
C’è quel cappellino da rapper a nascondere un paio d’occhi scuri e le dita che le hanno sfiorato le labbra un paio di anni prima arpionate alla stoffa del sedile che gli sta di fronte. E poi ci son quegli occhi nei suoi occhi – occhi pieni d’incagli che non sanno più cosa fare, se spingere o abbracciare – che   non sanno più di niente. Fa male.
E poi le porte si aprono e lui non le fa decidere niente, come al solito. Le sfiora le dita e corre via giù per le scalette.
(Scenderle è come scappare in continuazione.  È non riuscire a trovare  un motivo per fermarsi. )
 E corre via, Dario, come se non ci fosse stato mai. Come se i ricordi fossero sbiaditi troppo in fretta e scivolati nelle fogne assieme all’acqua di scarico d’un water.
Esisti davvero? Sei mai esisitito?
Forse non ti va di esistere per me, come papà.
L’asfalto bolle, assieme alle dita di Carlo sulle guance di Giovanni, ma nel giardinetto abbandonato di fronte casa non c’è nulla della speranza ingabbiata nel paio di centimetri a dividere le loro labbra.
Gli occhi di Cecilia non sanno muoversi più, perché l’acqua le fa più paura del buio mescolato all’aria stantia tra le pieghe delle coperte. E poi c’è sua mamma a sussurrarle ‘bentornata’ dal divano: gli occhi profondi come le pareti bianche che le danno la buonanotte prima di addormentarsi e una pozza di sangue a scorrerle giù dai polsi. C’è rosso tra i cuscini e sulle forbicine appuntite, c’è rosso sul pavimento e anche tra le sillabe di quel non - bentornata e nei suoi non- abbracci.
Forse non ti va di esistere per me, come papà. Come mamma.
E io? Io esisto davvero?
La borsa vuota si accartoccia sul pavimento, assieme ai biglietti comprati, ma mai usati, e Cecilia corre via.
La vita le stringe le dita in gola, ma lei continua a pedalare. E fa male. La raffineria abbandonata nascosta tra gli alberi assomiglia all’ultimo scalino che vuole darsela a gambe; Cecilia lo inchioda con lo sguardo e lo afferra con le mani. C’è l’aria fresca a raffreddare l’asfalto, e le dita tra le sue, e il paio d’occhi scuri a farle perdere la testa. Come due anni fa, come quando suo padre è partito per andare chissà dove scrivendo ‘ti voglio bene’ ‘ti voglio bene’ ‘ti voglio bene’.
“Respira, Ceci. Respira.”
“Non importa a nessuno.”
“Importa. Respira per me.”
E Cecilia respira, si gonfia come un palloncino stropicciato, e il sonno arriva veloce così come è sparito Dario. Ancora. Di nuovo.
 
Il sole è tiempido sulla faccia, ma un po’ più freddo delle mani che le raccolgono i pezzi.
“Buongiorno.”
Il vuoto allo stomaco ha la profondità di un buco nero. Chissà come avrà fatto ad entrarci dentro, chissà se mangiare servirà a qualcosa o se i biscotti al cioccolato che le piacciono tanto moriranno nel vuoto nero e denso, come le stelle.
Cecilia arpiona le braccia attorno al torace di Giovanni e lo stringe forte, forte.
“Starai da me o da Carlo. Dove vorrai. Noi ci saremo sempre, lo sai vero?”
Sì. Non come mamma o papà. O Dario.
“Com’è On the road?”
“Bellissimo.”
“Stiamo parlando della stessa cosa, vero?”
E c’è ancora spazio per una risata che sa di pianto. Una risata un po’ bagnata, ma leggera a modo suo. Come l’impronta delle dita di Dario sulle sue labbra. O gli occhi di Giovanni, e le pause tra i libri negli scaffali, e il silenzio vero a sussurrare altro silenzio nella stanza della mamma.
“Cos’è quello? Non te l’ho mai visto al polso?”
È un bracciale di cuoio sottilissimo. Ha il calore del vuoto di una stanza, del ‘per me’ ad un soffio dalla bocca.
“Speranza. O solo respiro. È questo, credo.”
“Respira allora, Ceci. Respira.”
Respiro.
Per me, per Dario.
Per chi esiste, per chi non vuole.
 
 
 
 
   
 
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