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Autore: clalla97    07/08/2012    5 recensioni
*SPOILER PER IL CANTO DELLA RIVOLTA*
Sono gli ultimi Hunger Games. I Giochi di Capitol City hanno inizio ora.
Gli occhi sono puntati sull'Arena per l'ultima volta.
Per la prima volta non sono i Distretti ad aver paura per i propri figli.
Per la prima volta un pedigree di Capitol City non serve a rimanere in vita.
[Storia temporaneamente sospesa, in attesa che l'ispirazione torni dal suo viaggio in Messico]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Rosmarino

 

Le braccia erano tese per lo sforzo, eppure Maryvonne non permetteva loro il minimo sgarro. Le mani erano ferme, sicure, pronte a lasciare la corda dell'arco con precisione, scagliando la freccia contro quel bersaglio che la fissava con beffarda ironia.
Avrebbe fatto centro, o almeno ci sarebbe andata vicinissima. Non poteva permettersi di sbagliare. Sbagliare voleva dire essere inutili, e lei era tutto meno che inutile.
La punta si piantò a un paio di centimetri dal pallino rosso che indicava il punto mortale.
Arricciò le labbra, insoddisfatta.
Insegui la perfezione, sempre. Non importa se i muscoli bruciano per la corsa, la gola brucia per la sete, le mani bruciano per le ferite. Tu insegui la perfezione. Devi essere perfetta. In tutto quello che fai. E se non puoi esserlo, fai in modo che gli altri non ti superino mai. A che ti serve vivere se non sei la migliore?
Ricordava queste parole come se le avessero marchiate a fuoco sulla sua pelle. Ricordava la madre, mentre le pronunciava, di fronte allo specchio, pronta per andare a teatro, mentre si stendeva uno spesso strato di rossetto sulle labbra, osservando di sottecchi la figlia, seduta sul letto, che tentava di raccontarle la propria giornata. Gli errori non erano permessi in casa sua. Sua madre era la perfezione fatta persona, impeccabile nell'aspetto, nei modi, nelle parole misurate che pronunciava, nel modo di porsi... Una macchina. Chissà se i sentimenti ce li aveva, magari quelli che mostrava alla figlia erano finti. Magari tutti quei baci dati prima di addormentarsi erano solo dei gesti artificiosi dettati da una coscienza razionale più che da un vero slancio di affetto materno. In fondo sua madre era fatta per recitare, non per avere una famiglia, questo lo sapevano tutti. Magari era così perfetta da riuscire a fingere nella vita facendolo passare per vero. Maryvonne non se ne sarebbe sorpresa.
Così come non se ne sarebbe sorpresa se il padre si fosse dimenticato il suo nome. Sarebbe già stato un traguardo se, in mezzo ad una decine di ragazzine, fosse riuscito ad identificare il suo volto, collegandolo alla parola “figlia” nella sua mente. In fondo lui non c'era mai, a casa. Chissà se andava a trovarla, quando tornava a casa tardi, la notte, trovandola già addormentata. Le sarebbe piaciuto. Ma evitava di riporci troppe speranze. Non che credesse che non provasse il minimo affetto per lei, ma suo padre aveva fatto del lavoro una ragione di vita e della famiglia un accessorio da sfoggiare quando era più comodo. Era Stratega, prima di quella terribile Rivolta.
Ma Maryvonne era la migliore, con l'arco. Lo sapeva. Persino Katniss, osservandola, si lasciava sfuggire un minimo accenno di assenso con il capo, certa di non essere notata.
Eppure non le bastava.
Si sarebbe allenata. Avrebbe sputato sangue, fino a quando non avesse raggiunto il livello per lei soddisfacente.
Lo avrebbe fatto per se stessa, ma soprattutto per lui. Soprattutto per Kaleb.
Kaleb che stava lì, in un angolo, a maneggiare con attenzione la spada, come se lo facesse da sempre, il profilo della mascella squadrata illuminato dal sole, la pelle luccicante di sforzo e sudore, gli occhi accesi di una eccitazione febbrile, come un cane da caccia che punta la preda.
Perfetto.
Kaleb sarebbe stato solo suo. Le apparteneva di diritto, perché era il migliore e lei si meritava solo il meglio.
Ogni suo cenno di incoraggiamento era un passo in avanti verso la meta.
Gli Hunger Games erano sangue, erano morte, erano spettacolo. Ma non le importava, Kaleb sarebbe stato suo, in un modo o nell'altro.
Lo diceva anche il sorriso che lui le aveva appena rivolto, notando la precisione quasi ottimale della sua freccia.
Erano alleati.
Kaleb era ciò che aveva sempre sognato.
Era sicura che avrebbe ottenuto quello che voleva, lo otteneva sempre.
Era questo che si guadagnava, nell'essere i migliori.

 

Avrebbe voluto dire di essersi allenato duramente, durante la preparazione ai Giochi, ma non era così. Alec aveva fissato tutto il tempo la chioma bionda di Annice, il modo in cui si muoveva, in cui le sue sopracciglia si inarcavano di fronte alla delusione di un colpo fallito, di come ai lati delle sue labbra comparissero delle fossette di irritazione, quando le stringeva per impedirsi di imprecare.
Non si era avvicinato, però. Glielo aveva promesso, la sera prima.

Erano seduti sul materasso del suo letto dopo che lei era comparsa in camera ad un'ora improbabile, quando lui era già addormentato, i capelli castani sparsi sul cuscino giallo. Era bastato il leggero strisciare dei suoi piedi nudi contro il parquet per strapparlo bruscamente a quel sonno agitato in cui era crollato a fatica. Erano bastati un paio di secondi per riconoscere, tra le palpebre incrostate e gonfie di sonno, il suo viso. Doveva essere solo un sogno. Era crollato di nuovo, godendosi quel suono allegro che doveva essere la sua risata.
“Alec? Mi dispiace di averti svegliato.” non sembrava poi così rammaricata, dalle suo tono di voce. Gli accarezzava i capelli con le dita, ma era un tocco troppo vero per essere provocato da una mente che smaniava così tanto la sua presenza.
“Annice? Sono sveglio? Cosa ci fai qui?” rideva di nuovo, Annice, rideva e gli dava piena lucidità in pochi istanti.
“Avevo voglia di vederti... Lo so che è tardi, ma non riuscivo a dormire.”
“Siediti.”
Si erano seduti sul materasso ed erano rimasti in silenzio. Per quanto? Forse minuti. Ma non era un silenzio pesante, il loro, la presenza dell'altro lo colmava a sufficienza.
“Domani ci dobbiamo allenare di nuovo...” Ecco, l'aveva rotta lei, quella placida quiete.
“Già.”
“Posso chiederti un favore?”
In un secondo gli erano passate davanti le numerosissime ipotesi: cosa voleva chiedergli, Annice? Di lasciarla in pace? Di non ucciderla nell'Arena? Come se avesse anche solo potuto pensarci...
“Certo... Se posso accontentarti...”
“Oh, non è niente di così difficile. Ti volevo solo chiedere di lasciarmi sola, ad allenarmi, domani.”
Lo aveva ferito, quella richiesta, sapeva di rifiuto.
“Come preferisci, Annice.”
Non aveva aggiunto altro, ma la ragazza doveva aver letto fra le righe.
“Sai... non riesco a concentrarmi se mi sei vicino. Neanche quando ti vedo da lontano, in realtà. Ma averti accanto rende tutto più difficile. Penso a te e non a colpire dritto.”
Era stato Alec a sorridere, quell'ultima volta, prima che lei avesse sfiorato la guancia con le sue labbra fredde e gli avesse chiesto di poter rimanere a dormire lì, con lui. Aveva accettato, ovviamente.
E si era trovato a riflettere, il proprio petto appoggiato alla schiena di lei, le mani intrecciate con le sue sopra la sua pancia piatta, a contatto con la leggera camicia da notte.
Non avevano mai parlato di Alleanze, Alec ed Annice. Non avevano mai parlato di sacrificare vite, guardarsi le spalle, aiutarsi... Non sapeva se fosse una cosa implicita o se lei non si aspettasse un simile gesto, da lui.
Avrebbe tanto voluto farlo, passare ogni singolo istante che gli rimaneva assieme a lei, ma aveva paura, una maledetta paura. Paura di non riuscire a proteggerla, di deluderla, di dimostrarsi debole.
L'orgoglio giocava brutti scherzi anche di fronte alla morte.
Non ne avevano parlato, di Alleanze, quindi probabilmente ognuno sarebbe andato per conto suo. Si chiese se avrebbe pianto, Alec, quando e se avesse visto il viso di Annice sfilare sopra di lui, nel buio della notte. No, non sarebbe successo, non lo avrebbe permesso.
Ma intanto era lì, fra le sue braccia, e poteva sentirne il profumo e stringerne la pelle morbida.
La mattina dopo se n'era andata, lei. Le lenzuola avevano ancora il suo profumo di lavanda.

Ed in quel momento Alec si trovava a fissarla di nuovo, senza farsi scorgere, e si chiedeva che cosa diavolo avesse quella ragazza per trasformarlo dal ragazzo sicuro di sé, dall'animale da palcoscenico che sognava di diventare Maestro di Cerimonie, in una persona silenziosa e decisamente troppo emotiva. In così pochi giorni.
Lo diceva sempre, sua nonna, quando guardava la foto del marito, un anziano rugoso dalla faccia stanca, brutto, ma a cui lei rivolgeva tutta la tenerezza che rimaneva al suo vecchio e debole cuore.
L'amore cambia la gente.
Era vero. L'amore cambiava la gente.
L'amore faceva proprio schifo.

 

Rica si guardava attorno, affascinata. Non aveva senso stare a rimuginare su quello che stava succedendo, a piangere in silenzio in camera, a struggersi il cuore cercando di non pensare all'inevitabile, non quando era circondata da tutto quello splendore.
I suoi occhi, famelici di verità, sondavano ogni volto, ogni goccia di sudore, ogni curva delle labbra, ogni espressione di ogni viso. Tutto ciò che succedeva stava diventando suo, a un livello talmente intimo che nessuno se ne sarebbe accorto. Rubava, Rica. Rubava pezzetti di anima che gli altri si lasciavano in giro, concedendoli a lei, senza nemmeno saperlo.
Osservava. Osservava tutto, perché guardare il mondo ma non vederlo veramente era uno dei modi peggiori per sprecare la propria vita.
Entrava dentro ogni persona della sala, esplorando i suoi sentimenti, che trapelavano, inconsapevoli, da gesti, parole, movimenti...
Le facevano male le mani, che non poteva usare come voleva. Troppo. Mani che muovevano leggermente un legnetto che era destinato a bruciare fra le fiamme incerte di un fuoco accesso dall'inesperienza. Come se quel misero pezzo di frassino, sbeccato, potesse contenere per magia il cuore di grafite che tanto agognava, per lasciare le sue parole anche su quel tratto di pavimento, reso opaco dalle impronte delle loro scarpe.
Avrebbe voluto con tutta sé stessa essere nella propria camera, a mordicchiare una penna in cerca di concetti che non arrivavano o che non erano come piacevano a lei. Voleva il frusciare della carta sotto le proprie dita, voleva la possibilità di rivivere la giornata attraverso le immagini che la sua mente le avrebbe fornito. Voleva scrivere.
Voleva scrivere di loro, sfortunati Tributi gettati in pasto ad un pubblico che voleva sangue, morte, divertimento, a scapito delle loro vite.
E non le importava che quelli che la circondavano fossero volti tristi, disperati, rassegnati.
L'Arte non era mai nata dalla felicità.
Ma chi sarebbe stato il protagonista di quella storia?
Forse Kaleb, con quella rabbia profonda e viscerale per qualcosa che lei non riusciva a cogliere, i suoi occhi non arrivavano così a fondo. Avrebbe ucciso, pur di arrivare alla fine, lo sapeva. Ma troppo odio lo avrebbe portato alla morte.
Forse Jonathan, che era così incorreggibilmente innamorato di Leena e la guardava di sottecchi quando lei era impegnata a fare altro, che la amava anche dopo tutte le ferite che doveva avergli inferto, a giudicare dal dolore che ne segnava lo sguardo.
Forse Sophia, tagliata in due dall'affetto che provava per il fratello e quello che provava per quella ragazza che doveva sempre esserle stata vicina, in cui doveva riporre una fiducia immensa. Aveva cercato di prenderle la mano, quando le era passata vicina. Ma l'aveva stretta a pungo.
Forse Eloise, così fredda, distante, seduta sulla panchina ad affilare un coltello con precisione quasi maniacale.
Forse Rodge, che ansimava in un angolo, un'ombra di terrore puro, vero, a passare tra gli occhi limpidi. Come se sapesse che lui era l'unico ad essere veramente segnato. Rica sapeva che era così. Le sue iridi dicevano tutto.
Forse Annice ed Alec, la coppia innamorata per eccellenza. Sarebbero finiti male, quei due. Se fosse stata lei a dover scrivere di suo pugno la storia, certamente non ne sarebbero usciti vivi. L'amore era più bello quando era drammatico. E la vita sembrava condividere la sua stessa opinione.
Forse Leena, che si portava addosso tanto di quel dolore che gli altri non potevano nemmeno immaginare, neanche nei vaneggiamenti più vividi, che non ricambiava i sentimenti di Jonathan perché non aveva nemmeno la voglia di considerarli, i propri. Forse faceva troppo male.
O forse lei, la stessa Rica, la ragazza sognatrice, sempre persa nel proprio mondo, alla ricerca della musa ispiratrice, della Storia. Non una semplice storia, una con la S maiuscola, una che potesse dare un senso a tutto il suo lavoro.
Vedeva tutto, Rica. Capiva tutto. Non c'era bisogno di parole, con lei. Era il suo compito, trovarle.
Oh, non c'era da preoccuparsi, per Rica. Qualcuno l'avrebbe salvata, nell'Arena.
Il suo principe azzurro, come nelle fiabe che tanto amava. Come nei sogni che occupavano le sue notti.
Ma avere sotto le mani la storia più bella di tutta la sua vita e non poterla raccontare... Per quello sì che c'era da essere tristi. E da quella tristezza per una volta non sarebbe nata nessuna Arte.
Era quello il vero dolore, non la morte.
Il principe azzurro sarebbe arrivato e l'avrebbe salvata.
Lei, nei sogni, ci credeva.
Nelle parole, ancora di più.

 

I capelli erano ancora in ordine, per fortuna. Le guance erano arrossate dalla fatica, ma gli davano un'aria affascinante e per fortuna il suo sudore non aveva un odore troppo forte.
Il riflesso che lama della spada restituì a Chaz, lo soddisfece.
Ma dov'erano le telecamere a riprendere i suoi gesti e a trasmetterli nelle case di centinaia di migliaia di abitanti, di tutta Panem, facendo andare in visibilio ragazzine frivole e sciocche?
Voleva il suo pubblico, lui.
Che senso aveva essere belli, essere bravi, essere falsamente sorridenti se non c'era nessuno a guardarlo?
Senza una folla adorante era solo una carcassa vuota, da gettare in pasto ai lupi ancora prima di cominciare.
Non conosceva le statistiche, in quel momento, né gli importava molto. La gente non poteva essere insensibile al suo fascino. Era impossibile.
Sarebbe sceso nell'Arena a mento alto, certo che i suoi invisibili Sponsor l'avrebbero sostenuto.
Non faceva parte dei suoi piani, impegnarsi a fondo nell'Allenamento, non era fondamentale. Era uno spreco inutile di forze, energie e charme che gli sarebbe tornato utile in un secondo momento.
Gli era dovuto, il sostegno del pubblico, non gli era mai stato negato nulla. Era scontato che tutti facessero a pugni per sostenerlo, per poter dire, una volta che sarebbe uscito Vincitore dall'Arena: “Io tifavo per lui. Io lo sapevo. È anche grazie a me che ha vinto.”
L'avrebbero acclamato, lo sapeva. Portato in trionfo per tutta Capitol. Avrebbe fatto interviste, sorriso alle telecamere, avuto ragazze, mantenuto la sua immagine.
Non era il caso di darsi troppa pena. Che ridicoli erano, tutti quei patetici Tributi che gli si affaccendavano attorno, intenti a carpire tecniche che richiedevano anni e anni di allenamento e non certo giorni oppure ore. E poi erano così... così... poco disposti a farsi ammirare! Sembrava quasi che dessero più importanza alla sostanza, più che all'apparenza.
Illusi.
Una vita intera fatta di apparenza e niente sostanza gli aveva aperto gli occhi. Uccidere non serviva a nulla, non se fuori c'erano migliaia di voci che scandivano il suo nome.
Sporcarsi le mani sarebbe stato terribilmente sconveniente.
Quello che stava facendo era più che abbastanza.
Non pensava, Chaz, al sangue che imbrattava i vetri delle telecamere, alle ferite che tutti gli altri già contavano sulle proprie braccia.
Non ricordava le facce stravolte dei Tributi, i demoni nei loro occhi, gli strappi nei loro vestiti, il dolore dei volti dei loro parenti.
Non faceva caso alla violenza che anima i Giochi, che erano sostanza, più che apparenza.
Non gli era venuta in mente l'idea che le donne che tanto smaniavano per lui fossero più impazienti di struggersi davanti al suo cadavere mutilato che ad esultare per il suo trionfo.
Lui, nella sua testa, aveva già vinto.

 

Il dolore non l'avrebbe fermata. Questo era certo.
Alysha non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da una cosa banale come una ferita al braccio, un livido sulla gamba, i muscoli doloranti, persino la morte di un amico.
Non ne aveva nemmeno uno, lì, in quel posto. I suoi amici, i suoi parenti, i suoi affetti erano tutti a casa e non sapeva chi ringraziare, per quello.
Nessun conflitto interiore era arrivato a straziarla, in quei giorni, indecisa se dare ascolto all'istinto di sopravvivenza o a ciò che le diceva il suo cuore. Che espressione melodrammatica.
Il cuore non parlava, il cuore batteva, ed era l'unica cosa che riusciva a rassicurarla, per il momento. Il suo cuore batteva. Era ancora viva.
Forse le sarebbe piaciuto riuscire a stringere un'Alleanza con qualcuno, per avere almeno un po' di sicurezza. Ma era un suo problema da sempre, non riusciva a stare vicina a gente di cui non si fidava e nessuno lì le ispirava fiducia.
La ragazza strinse i denti osservando le sue unghie, rotte come non lo erano mai state. Stava lavorando più duramente di chiunque. Corpo a corpo, armi, tecniche di sopravvivenza. Provava tutto. E più la sfida era difficile, più la appassionava. Kaleb era la sua sfida preferita. Non perché lui le piacesse, chiaro, ma era il più forte, lì dentro. Avevano combattuto parecchie volte, ormai. Soprattutto a mani nude. E per quante sconfitte avesse ricevuto c'era quel lungo graffio che solcava la guancia del ragazzo e che la riempiva di soddisfazione ogni volta che la fissava. Stava guarendo, il segno della sua unica vittoria, il che voleva dire che avrebbe fatto meglio a procurargliene un'altra. Anche a costo di ridursi le mani come l'ultima volta. Distrutte come lo erano anche in quel momento.
Lui le aveva chiesto di unirsi a lui e agli altri quattro, quello che una volta equivaleva al gruppo dei Favoriti, ma lei aveva rifiutato, piuttosto seccamente, a dire il vero.
Non gli era piaciuto, a quanto pareva non era abituato a sentirsi dire di no.
“In questo caso guardati le spalle, quando sarai nell'Arena.”
Era la sua unica paura, quella frase. Loro erano in cinque, lei era sola. Non ce l'avrebbe mai fatta, ma non le importava.
Morire senza combattere era una umiliazione, ma morire lottando con unghie e denti sarebbe stato meno doloroso.
Lei non poteva contare su una bellezza angelica come quella della maggior parte delle altre ragazze, non era un mostro di forza, di certo non doveva essere tra le più quotate per quella edizione, ma non le importava.
Lei credeva in se stessa.
Il suo cuore batteva, forte come un tamburo.
Era ancora viva.

 

Non c'era la luna, quella notte. Il cielo era coperto di nuvole e nemmeno il chiarore delle stelle riusciva a far capolino fra quella massa scura. Jonathan fissava la città, sotto di lui, piena di vita, ignara di ciò che succedeva in quel palazzone. Era in piedi, le braccia appoggiate alla ringhiera della piccola terrazza della camera. Il viso gli faceva ancora male, dopo quella seconda giornata di allenamento. Anche se a bruciare di più era l'orgoglio. Kaleb l'aveva umiliato proprio davanti a Leena. Proprio davanti a lei, fra tutti. Lei che l'aveva lasciato solo, che l'aveva abbandonato.
Non sopportava più di starle lontano, di vederla ridere con qualcuno che non era lui, accidenti.
“Non mi piace vederti così, Jonathan.”
La voce di Sophia lo infastidì, per una volta, ma lei era sua sorella e non voleva trattarla male.
“E a me non piace essere così, Sophia. Ma non posso farci niente.”
“Ti ha fatto parecchio male, eh?” Parlava di Leena, ovvio. Non di Kaleb.
“Perché a te no?” l'espressione sul viso della bambina diceva tutto. Sì, aveva fatto male anche a lei, tutta quella freddezza.
“Sai, vorrei tanto che si rendesse conto di quanto la ami.”
“Io no.”
Sophia lo fissava sorpresa, quasi non credesse alle sue parole.
“Ma sei scemo?”
“No. Non mi serve che lei capisca se poi non ricambia i miei sentimenti.”
“Ah... beh, ha un senso.”
“Certo che lo ha.”
Sophia gli andò incontro, alla ricerca di un abbraccio. Jonathan non sapeva se avesse bisogno di conforto o se cercasse di darne a lui, ma la strinse con forza al petto.
“Ce la faremo, Sophia.”
“No, Jonathan. Uno di noi ce la può fare. Ma nient'altro.”
Il ragazzo sospirò, sconfortato da quella mancanza di fiducia, più che giustificata, della sorella.
“Mi dispiace, vorrei poterti assicurare di più.”
“È già tanto che tu sia qui.”
Era già tanto che entrambi fossero ancora in vita dopo la rivolta, ma oramai non era più sicuro del fatto che fosse una cosa positiva.
Sapeva che avrebbe passato un'altra notte insonne, guardando il viso sereno di Sophia, a chiedersi come facesse a dormire con tutti i pensieri che agitavano la sua mente. Sarebbe rimasto sveglio a pensare ad un modo certo per salvarla, anche se non c'era.
Doveva provarci.
Leena l'aveva lasciato, non avrebbe permesso alla sorella di fare lo stesso. Perché da qual viaggio non ci sarebbe mai stato ritorno.

 

Leena era seduta sul tappeto a pensare, a ripercorrere la sua disastrosa giornata di Allenamento. Ferite, lividi a non finire e una penosissima sconfitta quando si era battuta con Regan.
Si era ritrovata un coltello puntato al collo e, ansimante, non era riuscita a fare altro che rimanere inebetita a fissare l'avversaria.
E ora lì, con i piedi nudi che affondavano nei morbidi fili, continuava a sentire la pressione della lama sulla sua pelle e aveva quasi l'impressione di essere investita da un forte odore di rosmarino.
Neanche a dirlo non era Regan la protagonista dei suoi pensieri, ma la prima volta che il freddo di una lama aveva sfregiato la perfezione della sua gola...
Odore di rosmarino...

La strada era deserta, ma non era strano. Era una viuzza secondaria, non molto larga, senza entrate di negozi, case o altro che potessero attirare qualcuno. Era per quello che le piaceva tanto, perché, almeno quando era lì, il caos cittadino non la sfiorava, la lasciava vivere. Ci avrebbe passato intere ore, in quel pezzo di strada, respirando l'aria umida e fissando l'acqua piovana che stagnava in piccole pozzanghere dalla superficie perfettamente immobile, ma non poteva. Doveva andare a casa di Jonathan, per una di quelle giornate che erano soliti organizzare ogni tanto: giochi stupidi che continuavano a fare anche se ormai erano entrambi cresciuti, cibo spazzatura, compiti, passeggiate, chiacchiere più o meno futili... No, non aveva troppa fretta, ma al suo migliore amico ci teneva e di certo non voleva deluderlo.
I passi riecheggiavano lungo il viale e sarebbe stato impossibile passare inosservati, ma nonostante ciò Leena non lo sentì arrivare e non fece nemmeno in tempo a rendersi conto di ciò che stava accadendo.
Un attimo prima stava calciando un ciottolo grigio pallido, piatto, per salvarlo da una sicura morte per annegamento, un attimo dopo era spalle al muro, un coltello premuto sotto il mento e con braccia forti e nervose che le impedivano di fuggire. Non ci provò nemmeno, la voce bloccata dalla sorpresa le impedì persino di urlare. Rimase immobile, solo il petto scosso da respiri ansimanti che si mescolavano a quelli più calmi dell'uomo che la sovrastava, pronto a zittirla se avesse emesso un solo suono molesto.
Non riusciva a vedere il viso del suo aggressore, immerso com'era nell'ombra. La luce che proveniva dall'imboccatura era scarsa, e non bastava a metterlo in evidenza.
L'unica cosa che percepiva era quell'intenso odore di rosmarino che le invadeva il naso e che le ricordava tanto il suo angolo preferito di giardino, uno dei pochi pezzi di terra liberi da quelle maledette rose bianche.
Sembrava che l'uomo fosse in attesa di qualche cosa, una parola, una frase, che però sembrava non arrivare.

Che cosa vuoi?” si decise infine a sussurrare, non appena i suoi polmoni glielo permisero.
Vide l'ombra di un sorriso alzare i suoi zigomi e sentì il divertimento riflettersi nella sua voce, giovane, più di quanto si aspettasse.

Credevo che la prima domanda che sorgesse spontanea in chiunque fosse: chi sei?
Era strano provare irritazione in una condizione come quella, ma era evidente che quel tizio la stava provocando e lei non era mai stata in grado di non rispondere alle provocazioni.

Beh, so che non ti conosco ma ho un coltello alla gola. Capirai quindi che la mia priorità non è sapere se lavori all'uncinetto nel tempo libero, ma come liberarmi da questa...brutta situazione.”
La risata risuonò nella sua testa e le braccia si allentarono, lasciandole più libertà di movimento. Non abbastanza, però.

Beh... è stato più facile di quanto credessi. Grazie, chiunque tu sia.”
Il nervosismo trapelava da ogni suo muscolo, ogni sua espressione, ogni suo respiro ancora agitato. Essere sfrontata era l'unico modo che aveva per non farsi prendere dal panico, per non pensare a ciò che quel tizio poteva volere da lei, dalla nipote di Snow.

Tu sei Leena Snow.”
Ecco, appunto. Nessun punto interrogativo, nella frase. Nessun dubbio.

Sì... e tu sei?”
Pensavo ti interessasse sapere cosa voglio da te, non chi sono o cosa faccio nel mio tempo libero.”
Beh, lei ci aveva provato.

Touché. Ma in realtà una domanda vale l'altra. Sono le risposte che contano.”
Punti di vista. C'è chi la pensa diversamente.”
Sì, ma sono solo quelli a cui piacciono le frasi d'effetto perfettamente inutili. Avere un sacco di questioni di cui nessuna risolta... beh, è piuttosto frustrante.”
Un'altra risata, una di quelle che la facevano rilassare, anche se non poteva permetterselo.

E dimmi, Leena, tu sei frustrata, in questo momento?”
Non sai quanto. Anche se forse me la sto facendo addosso dalla paura, più che avere voglia di tirarti un cazzotto.” La sincerità era sempre la strada migliore, dopotutto.
Lui annuì, continuando a sorridere.

Se ti mollo mi colpisci o tenti di scappare?”
Sì.”
Le spalle del ragazzo si stavano muovendo su e giù, segno che probabilmente era scosso da un'altra risata, questa volta silenziosa.

Sei la prima persona che risponde così sinceramente.”
Leena non ribatté, troppo concentrata a cercare un senso a quella conversazione. Perché non la rapiva, non la uccideva, non faceva qualcosa che avesse un minimo di senso?

Va bene, vorrà dire che rimarremo così... non mi dispiace.”
Ricevette solo un'occhiata corrucciata dalla ragazza.

Vedi, Leena... io sono un ribelle.”
Se lo aspettava, in effetti. Rimase in attesa di sapere di più.

Sono giorni e giorni che osservo te e la tua famiglia per conto della Resistenza.”
Bene... spero che almeno tu sia stato discreto.”
Borbottò lei, cercando di nascondere l'imbarazzo che quell'informazione le aveva provocato.

Per niente. Ma vedi il punto è un altro...” commentò lui con un sorriso che diceva tutto e niente.
E cioè...”
Il mio compito è di colpire Snow. Non per forza direttamente, ma di eliminare qualcosa a lui caro.”
Dalla padella alla brace, insomma.”
Già, credo tu l'abbia capito, vero, Leena? Io dovrei ucciderti.”

 

Commenti pazzi di una pazza:

*Clara si nasconde per evitare i sassi*
Sì, lo so... sono un essere inetto e deprecabile! Mi sono accorta l'altro giorno che era quasi un mese che non aggiornavo e che il capitolo era appena impostato. Così mi sono messa al lavoro e in meno tempo possibile ho creato questa... questa... schifezza, ecco.
Diciamo che non è stato un periodo dei migliori, ma questo non giustifica l'obbrobrio che è venuto fuori... mi dispiace.
E' un capitolo di passaggio, fatto semplicemente di punti di vista che non dicono nulla, a parte il flashback di Leena.
Un capitolo schifoso su cui ho un sacco di cose da dire.
Primo: adoro Rica! Semplicemente. È il mio personaggio preferito in assoluto (e guarda un po', mi assomiglia parecchio... io sono un mix fra Quin, Rica e Rodge... capirete in seguito)
Secondo: detesto Chaz. Ecco a voi il classico ragazzo di Capitol. Non so che altro dire su di lui, è perfetto e io lo odio. Punto.
Terzo: il flashback di Leena... molte di voi diranno che la reazione di Leena a qualcuno che le punta un coltello alla gola è assurda. Il punto è: io quando qualcuno mi aggredisce reagisco così. Lo piglio per il culo. È assurdo, incosciente, dite quello che volete, ma io faccio così... il brutto è che non conosco altri modi per reagire. Certo, li so a grandi linee (piagnucolii etcetera), ma quando li descrivo a parole... sono un vero schifo. Non riesco a raccontare qualcosa che non conosco. Quindi Leena reagisce come me.
Quarto: il ribelle... nel flashback non si vede il suo volto, quindi non lo vedete nemmeno voi. Non si conosce il suo nome quindi non lo conoscerete nemmeno voi. Dovrete aspettare il prossimo capitolo sia per la foto che per il nome.
Quinto: Non so quando arriverà il prossimo capitolo. Un casino che non avete idea. Anche perché è l'ora della “esibizione” davanti agli strateghi e io non ho idea di come farla. Quindi... vedete un po'. Anche perché il periodo “no” non si è ancora concluso e io ho un brutto blocco dello scrittore che si nota parecchio anche in questo capitolo.
Seto: di solito mi auto-beto il capitolo. Questo volta non ne ho avuto il tempo perché altrimenti avrei ritardato la pubblicazione di un sacco, sul serio! Quindi sarà pieno zeppo di orrori. Lo correggerò lentamente appena posso.
Settimo: Odio semplicemente il pezzo su Alec e Annice. Troppo sdolcinato, ma l'ho scritto apposta! xD autolesionismo

Ottavo: (notare grassetto, sottolineatura, spaziatura supplementare... insomma, è importante!) Adesso faccio una cosa che non ho mai fatto, ma direi che è abbastanza comprensibile. Spam! (sperando sia legale) Allora... pubblicizzo una long scritta a quattro mani (o meglio due sole mai... io scrivo con i piedi) da me e Wania97... vi sarei grata se magari deste un'occhiata e magari lasciaste una piiiiiiiccola recensione.

La fic si chiama “While your lips are still red.” e questo è il link:

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1195735&i=1

Beene, grazie a tutti quanti per essere riuscit ad arrivare alla fine di questo schifo e farò santi quelle che recensiranno e non sporcheranno il pavimento di liquidi corporei.
A presto (??)

Clara

  
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