Hello people!
Tecnicamente questa storia non ha un grande background da raccontare.
Vi dico
solo che l’ho scritta quasi tutta sul cellulare, ispirata da
un frammento di
una meravigliosa fanfiction in inglese di cui purtroppo non ricordo il
nome ma
che cercherò assolutamente, questo per dirvi quanto la
scrittura sia una mia
gigantesca fissazione.
Spero davvero di non aver
fatto troppo male!
Buona lettura!
S.
Storie di
Armadi Infestati e Tesori nascosti
*
"Non c'e' alcun
mostro nell'armadio, Martin" disse dolcemente il dottore al bambino
rannicchiato tra le coperte. La voce di John, calma e tranquilla, non
sembrò però
sortire l'effetto desiderato.
"Non è vero. Io
l'ho
visto di sfuggita, prima. Ha fatto in tempo a nascondersi ma so per
certo che è
lì!" il bambino squittì con una vocina tremula.
John sospirò e gli passò
una mano tra i capelli, ravvivando con fare rassicurante la chioma
fulva del
piccoletto.
"Ora sei grande
Martin. Cosa direbbe Ben se ti vedesse adesso, tutto spaventato?"
domandò
ancora il dottore, provando anche quella strada.
Il ragazzino
sbuffò,
affondando ancora di più nel calore confortante delle
coperte, come se fossero
il suo impenetrabile fortino anti mostri.
"Ben sarà anche il
maggiore, ma dovresti vederlo come corre, dopo aver spento la luce in
bagno. E guarda
caso l'armadio in stanza ce l'ho io".
John rimase muto, senza
nulla di abbastanza brillante da dire, in risposta. Sherlock ci stava
mettendo
decisamente troppo con la sua indagine e il dottore stava lentamente
esaurendo
le rassicurazioni di sorta per il suo piccolo amico.
"E' sempre lì,
tutte
le notti. Si infila nell'armadio mentre faccio i compiti e poi muove la
porta
per spaventarmi. E' cattivo".
John sorrise. Da un lato
gli ricordava se stesso di tanti anni prima, tormentato da Harry, che
aveva
fatto dello spaventare John in ogni maniera possibile, il suo hobby
preferito.
"E' certamente solo
il vento, Martin. A Londra ci sono state tempeste fortissime negli
scorsi
giorni e magari un soffio di vento ha smosso gli abiti dentro il tuo
armadio. E
magari ha anche fatto cigolare le porticine" esclamò John
con un sorriso
dolce, confortante, accarezzandogli la pancia paffuta. Martin lo
osservò
pensoso, come se stesse valutando le varie possibilità.
Alla fine, ovviamente,
optò
per la sua verità.
"No. Ti dico che è
un
mostro. Uno vero. Ha cinque braccia e due teste. Anzi tre. E... " ci
pensò
su un secondo. "... e un naso gigantesco".
John ridacchiò al
bislacco
identikit fornitogli dal suo piccolo amico. Chissà, magari
negli archivi di Scotland
Yard avevano un reparto dedicato ai mostri spaventa-bambini.
Avrebbe dovuto mandare un
appunto a Lestrade, dopo.
"Mi sembrava di
ricordare che le braccia fossero tre" lo prese in giro John ricordando
un'accurata
descrizione di nemmeno mezz'ora prima.
Martin s'immusonì'.
"Avevo visto
male".
"O forse l'hai solo
immaginato, piccolo".
"Non l'ho immaginato,
zio John" il tono di voce del marmocchio crebbe, nonostante la sua
vocina
infantile rendesse tutto più comico che serio. "Era un
mostro. Un mostro vero
e proprio".
Prima che John potesse
replicare, una voce troncò la risposta sul nascere.
"Mi era sembrato di
sentire uno strano sovraddosaggio di cellule
mostrifere nell'atmosfera di questa casa. Provengono da qui,
dunque?"
Sherlock si appoggiò allo stipite della porta, osservando
John e Martin con
profondo interesse. Il dottore sollevò un sopracciglio.
"Cellule... che?"
ripeté, confuso, cercando di
interpretare le parole del detective.
"Ovvio John. Quelle
che indicano la presenza di un mostro in un determinato luogo. E questa
casa ne
è piena" si mosse dalla porta e si guardò
intorno, con fare sospettoso.
"Soprattutto questa stanza".
Martin saltò fuori
dal suo
rifugio, euforico, guardando John con espressione grave e Sherlock con
una
sorta di profonda ammirazione.
"Visto John? Sherlock
ha capito! E lui è un consultivo
investigante e quindi ha ragione!".
Sherlock riuscì a
malapena
a reprimere un brivido freddo nel sentirsi chiamare a quel modo, ma
ebbe il
buon senso di rimanere in silenzio.
"Ovviamente ho ragione"
sbottò Sherlock, come se provasse fastidio a dover ripetere
l'ovvio. "Ho
sempre ragione".
John non sapeva, non aveva
la minima idea di dove Sherlock volesse andare a parare. Che la noia
fosse
arrivata ad un punto tale da spingerlo a prendersi gioco di povere
creaturine
spaventate?
"Senti, Sherlock, sei
certo di sapere cosa... cosa stai dicendo?" cercò di essere
il più
delicato possibile. L’esatta frase che avrebbe voluto
pronunciare non sarebbe
stata propriamente adatta alle orecchie di un seienne.
Sherlock sbuffò,
sistemandosi il bavero del cappotto.
"John, eppure
dovresti sapere certe cose. Insomma, fai parte anche tu della nostra...
"
lo guardò con fare solenne. "... Agenzia".
Martin sembrava non
riuscire a rimanere fermo. Evidentemente non gli capitava molto spesso
di avere
un adulto dalla sua parte, che lo assecondasse invece di rassicurarlo
con le
solite manfrine trite e ritrite.
John strabuzzò gli
occhi.
"Agenzia?".
"Agenzia John!"
Sherlock agitò le mani, eccitato. "L'Agenzia per la Bonifica
di Armadi
Infestati!" disse, come fosse la cosa più ovvia del mondo.
John represse a stento una
risata, mettendo giusto in tempo una mano davanti alla bocca, appena
comprese
le intenzioni di Sherlock.
Se voleva assecondare il
racconto del detective, sarebbe dovuto apparire il più
professionale possibile.
"Oh, ma è vero!
Quasi
dimenticavo!” si batté una mano sulla fronte,
fingendosi sorpreso dalla sua
sbadataggine. “sono rimasti così pochi mostri
dell’armadio a questo mondo che quasi avevo
dimenticato l'esistenza della
nostra Agenzia!" esclamò, con voce squillante.
Martin aveva gli occhi che
brillavano di puro e sincero sollievo.
"Oh ma è
fantastico!
Allora puoi cacciarlo via per sempre?" domandò, raggiante, a
Sherlock. Il
detective annuì.
"Ovviamente. Nessun
mostro è mai ritornato dopo il nostro speciale trattamento"
annunciò, con
sguardo fiero. "Men che meno un comunissimo Nasone Cinquebraccia".
John sorrise, con una
sensazione di estremo calore nel cuore. Era la prima volta che vedeva
Sherlock...
così... umano. E per
quanto strano,
gli piaceva terribilmente.
"Sono facili da
cacciar via?" chiese ancora Martin, curioso, stringendo il suo t-rex di
peluche fra le braccia.
"Oh di una facilità
estrema. L'ultimo con cui mi sono scontrato è scappato via
in un lampo. Si
chiamava Anderson".
Il bambino sembrò
sorpreso.
"Il mostro aveva un
nome?".
John rischio di soffocare
dal ridere e Sherlock, invece, assunse la sua migliore espressione
contrita.
"Certa gente tende ad
affezionarcisi. Non è certo il tuo caso, piccoletto".
Martin annuì
energicamente, a bocca aperta, come se la sola idea di convivere con
quel
mostriciattolo e dargli addirittura un nome, fosse l'ultimo dei suoi
desideri.
"Ma dove li tengono?
Nascosti?".
Sherlock ci pensò
un
secondo.
"Il più delle
volte.
Oppure li assumono in polizia".
John affondò la
testa nel
cuscino e le sopracciglia di Martin si inarcarono, con un cipiglio
confuso.
Decise di non indagare ulteriormente.
"Io voglio solo che
vada via. Puoi farlo ora?" chiese il bambino, con un sorriso.
Sherlock, tossì,
dandosi
un’aria importante.
"Ovviamente.
Procederemo immediatamente con la...con la... " sembrò
pensarci su un
attimo.
"Procedura
Standard" venne in suo soccorso John. Sherlock s'illuminò.
"Non avrei saputo
dirlo meglio. Porta una coperta, John. Meglio che Martin non veda".
Il bambino sembrò
più che
felice di non essere parte attiva della cosa e prese una coperta pulita
dal suo
cassettone, lanciandola a John.
"Tieni John. Fate
attenzione!" li esortò, prudente.
Sherlock si
avvicinò
all'armadio e sbirciò al suo interno, facendo finta di
essere assorto nella
contemplazione di qualcosa di assolutamente sbalorditivo. John
aprì la coperta
e la incastrò tra le due ante aperte creando una sorta di
ambiente separato dal
resto della stanza. John sorrise a Sherlock che aveva preso a battere
con le
nocche sull'anta di legno.
"Mai visto un
esemplare così in vita mia! Tu John?" gridò
Sherlock ad alta voce, così
che anche Martin ascoltasse.
“Neppure io,
Sherlock! E’
incredibile! Ed io che pensavo non esistesse!”
gridò il dottore di rimando,
facendo un po’ di scena e scuotendo leggermente il lenzuolo,
come se si stesse
agitando in preda ad un forte nervosismo.
“Passami
l’attrezzatura,
John, presto! Prima che esca fuori completamente!” Sherlock
disse ancora, smuovendo
l’anta velocemente. “Nella mia giacca!”.
“Presto
John!” lo
incoraggiò anche il bambino seduto sul letto, che adesso
stava stritolando il
suo dinosauro tanto da strappargli quasi la testolina di stoffa.
John rise, silenzioso, e
aprì la giacca di Sherlock, così che Martin
potesse vedere di sfuggita la
giacca dal poco spazio visivo che gli era concesso. Sherlock
afferrò il suo
cellulare dalla tasca della giacca e accese la torcia impostandola alla
massima
luminosità, così che il bambino potesse
intravederla anche attraverso la trama
fitta della coperta.
“Con questa lo
annienteremo sicuramente John! Ha i minuti contati ormai”
disse Sherlock
eccitato. John rise, eccitato, fingendo un’incredibile
scontro all’ultimo
sangue con un maglioncino appeso su una delle stampelle
nell’armadio.
“E’ un
osso duro!” sbottò
poi il dottore, scalciando un po’, forse un po’
troppo platealmente.
Sentirono Martin
trattenere il respiro, dall’altro lato del rifugio
improvvisato.
“Attenti! Venite via
se
prova ad aggredirvi!” gridò loro, preoccupato.
“Tranquillo Martin!
Sherlock è un professionista!” lo
rassicurò John, cercando di sembrare serio,
almeno quanto bastava per rendere la cosa credibile. Il ragazzino non
replicò,
il che fece ben sperare i due.
“Ecco John, ce
l’abbiamo
quasi fatta!”.
“Ancora un
po’! Passami il
frustino, John!” gli chiese Sherlock, e John
obbedì, domandandosi perché
diavolo si fosse portato dietro quel dannato affare. Decise che
preferiva non
saperlo.
Un paio di sferzate a
vuoto contro i poveri abiti appesi nell’armadio fecero da
degna conclusione a
quello scontro all’ultimo sangue, seguite da un terribilmente
convincente verso
vittorioso da parte di Sherlock e una risata allegra di John come
perfetta
colonna sonora. Con un gesto della mano, la coperta cadde davanti a
loro.
“Missione
compiuta!”
annunciò Sherlock, sistemandosi il cappotto, come se si
fosse davvero appena
accapigliato con un mostro a cinque braccia. Martin lo
guardò come se avesse
appena visto Babbo Natale in persona con tanto di slitta e renne
volanti. Ed
elfo aiutante, ovviamente.
“Non
tornerà più? Mai
più?” domandò, esitante, sporgendosi
appena dal letto e osservando le ante
spalancate dell’armadio pieno di innocui vestiti.
Sherlock sembrò offeso.
“Metti in dubbio le
nostre
capacità, ragazzino? Certo che non torneranno!”
ribadì, come se quella domanda
non fosse nemmeno degna di una risposta.
Martin
prese a saltellare allegramente sul letto.
"Grazie! Grazie mille Sherlock!" applaudì Martin, euforico,
sventolando il povero dinosauro in aria, come uno strano pon pon.
"Finalmente potrò dormire tranquillo. Erano secoli che non
ci
riuscivo!".
John si sentì
sciogliere. Accarezzo il visetto
paffuto del bambino con una mano, mentre Sherlock si esibiva in un
elegante
inchino.
"E' un dovere aiutare piccoli mocciosi spaventati" disse Sherlock,
guardando in aria. "Ora possiamo anche andare, John"
annunciò.
"Aspettate! Devo pagarvi!" esordì il piccoletto, atterrando
sul
tappeto accanto al letto dopo un salto abbastanza arzigogolato dal
materasso.
Prese a rovistare nel cassetto del comodino come se cercasse
disperatamente
qualcosa.
John s'intenerì.
"Oh Martin, tranquillo, il nostro servizio è... gratis"
spiegò John
ma il bambino non gli prestò la minima attenzione.
Sherlock lanciò un'occhiataccia al dottore.
"E' giusto che il nostro piccolo cliente desideri ricompensarci.
Dopotutto
lo abbiamo liberato di un problema decisamente ostico"
ribadì il
detective, cercando l'appoggio del ragazzino che annuì
energicamente.
"Ossico, si" disse, continuando a rovistare e
lanciando
oggettini e giocattoli vari sul letto, incurante del disordine.
"Ma Sherlock, non è il caso... " John disse tra i denti,
stritolando
un braccio di Sherlock con una presa salda delle mani, senza farsi
vedere.
"Non è necessario, ci abbiamo messo sì e no
cinque minuti".
"E' necessario invece. Non fai altro che rimproverarmi di accettare
casi
senza pretendere una parcella" lo redarguì, cercando di
liberarsi dalla
morsa. "Sei incoerente, John Watson".
La risposta velenosa di John fu interrotta da un gridolino eccitato da
parte di
Martin, che adesso sventolava tra le mani un dischetto di metallo tutto
storto,
che nella sua vita passata era sicuramente stato una moneta da due
sterline.
"Questa è preziosissima!" squillò Martin,
spiegando diligentemente.
"L'ho trovata al parco, un mese fa! Papà dice che
è un tesoro, visto che
era sotterrata sotto un albero".
Sherlock prese
la moneta dalla manina del bambino e la osservò con
sufficienza, cosa che gli
costò una nuova stretta stritolante al braccio da parte di
John.
Improvvisamente la sua espressione divenne assolutamente interessata.
“Oh ma
è
meravigliosa! Grazie mille, Martin!” lo ringraziò
il detective, con una voce
fintamente allegra e soddisfatta. Fortuna che il bambino non conoscesse
Sherlock tanto da accorgersi di quella perfetta pantomima.
“E’
antichissima! Magari era di qualche pirata! C’erano pirati in
Inghilterra, lo
sai?” chiese a Sherlock, vantandosi della sua conoscenza.
Sherlock lo
guardò affabilmente, fingendo estrema sorpresa.
“Sicuramente è molto antica! Dopotutto
c’è stampata sopra…Elisabetta seconda” lanciò in
aria la moneta un
paio di volte, riafferrandola con maestria in un veloce gioco di dita.
Martin
sorrise.
“Beh,
la
regina è vecchissima”
disse, con voce
piena di infantile sincerità. “Lo avrà
pure conosciuto un pirata, no?”.
John rise,
prossimo quasi a sciogliersi per la troppa tenerezza. Se solo non
avesse dovuto
combattere contro il cinismo sempre pronto all’agguato del
suo coinquilino, si
sarebbe goduto quel simpatico scambio di battute molto di
più. Sherlock lo
imitò.
“Oh
dovrebbe
sentirti mio fratello” disse Sherlock, a voce bassa.
“Tuo
fratello
conosce la Regina?” Martin domandò curioso.
“Oh,
molto
bene” rispose Sherlock, sarcastico. “Da bambino
diceva a tutti che l’avrebbe
sposata”.
Sul visetto di
Martin comparve una strana espressione atterrita.
“Tuo
fratello
deve avere qualche rotella fuori posto” fu il suo giudizio.
Sherlock lo
guardò negli occhi e poi rivolse lo sguardo a John,
scoppiando a ridere.
“Questo
bambino comincia seriamente a piacermi” disse a John, che
adesso guardava verso
il muro per evitare di piegarsi in due anche lui.
Sherlock
scosse la testa.
“Comunque,
il
mio lavoro qui è finito. Arrivederci, Martin”
ancora ridendo, porse una mano al
bambino, sventolandola all’altezza dei suoi occhietti azzurri
e Martin la
strinse, con entusiasmo.
“Oh,
ciao
ciao!” squittì, a voce alta, lasciando la mano di
Sherlock e passando ad
abbracciare John in una stretta affettuosa, che l’uomo
ricambiò con piacere,
strofinando la mano sulla schiena del piccolo.
“Buonanotte
mostriciattolo” gli disse il dottore, rimboccandogli poi le
coperte e uscendo
dalla stanza, con un cenno di saluto.
“E
grazie!” lo
sentirono dire ancora, da dietro la porta.
Sherlock non
disse nulla mentre scendeva di corsa al piano di sotto, verso Mike che
lo aspettava
alla base delle scale. John li osservò affacciato al
parapetto, li guardò
parlare di qualcosa che non riuscì a sentire, e alla fine
Mike annuì,
stringendo la mano di Sherlock e tornando nell’altra stanza.
John lo
raggiunse subito dopo, chiudendosi il giubbotto.
“Allora?”
chiese, curioso.
“Allora
torneremo fra qualche giorno. Devo analizzare alcuni indizi che ho
trovato
nella stanza da letto”.
John
annuì.
“Capisco”.
Rimasero in
silenzio mentre s’incamminavano verso la porta
d’ingresso, un silenzio che fu
interrotto soltanto dall’impossibilità di John di
tacere ancora sull’argomento.
Su quella cosa assolutamente fuori dal
normale, almeno per Sherlock, accaduta nella stanza al piano
di sopra.
“Sei
stato…
carino, con Martin” disse, diplomatico. Meglio non essere
subito troppo
accomodanti. Troppi bei complimenti avrebbero potuto sconvolgerlo.
“Molto
carino, in verità” si sbilanciò.
Sherlock lo
guardò, di sfuggita.
“Quella
era
l’idea”.
“E’
stato…bello da parte tua. Un bel gesto. Non me lo sarei
aspettato da te”
affermò, sinceramente.
Sherlock
sbuffò, con un ghigno sul viso.
“Hai
sempre
così poca fiducia in me, John” fece come per
rimproverarlo, dirigendosi verso
la porta, lungo il corridoio. “E comunque frena i
sentimentalismi. L’ho fatto
per il semplice motivo che le sue ciance stavano intralciando le mie
indagini,
John. Mike avrebbe dovuto dirci che sarebbero stati presenti i bambini
durante
il sopralluogo”.
John
aggrottò
le sopracciglia, sorridendo.
“Quei
bambini
vivono qui, Sherlock. Sei tu l’intruso, fino a prova
contraria”.
Sherlock lo
fulminò con lo sguardo.
“E
allora Mike
dovrebbe aumentare le misure di sicurezza per la sua casa,
così da evitare
furti di gioielli e di conseguenza la mia presenza qui.
Ti appigli sempre a queste sottigliezze, John” lo
rimbrottò
Sherlock, sbuffando.
John lo
spintonò, ma senza fargli troppo male e poi sorrise, quando
gli sovvenne alla
mente un particolare della giustificazione di Sherlock che decisamente
non
quadrava.
“Tu
sei venuto
nella stanza di Martin a indagine conclusa” disse, sicuro.
“Anche ammettendo
che ti avesse…disturbato, ormai avevi finito. Non
c’era bisogno di tutta quella
scena”.
Sherlock
sembrò rimanere senza parole, a
quell’affermazione. Un lieve rossore comparve
sulle sue guance e prese a mordersi il labbro, nervosamente.
“Ero
in piena
elaborazione dati, John. Non nella parte pratica
dell’indagine ma in quella intellettuale, la più
importante! E tutto quel
ciarlare non era affatto d’aiuto”.
John rise,
guardando il detective arrampicarsi sugli specchi e crogiolandosi in
una sorta
di perfido piacere. Doveva immaginare che Sherlock sarebbe stato il
tipo da
vergognarsi di quei rari momenti d’umanità.
Perfettamente in character, alla
fine.
“Oh
sicuramente. Perdonami per aver insinuato di aver deliberatamente
reso felice un bambino”.
Sherlock
sembrò gradire la particolare scelta delle parole.
“Ti
perdono,
John” gli concesse e John scosse la testa, infilandosi le
mani nelle tasche, e
continuando a camminare accanto a Sherlock.
“Oh
grazie
Sherlock” finse di ringraziarlo, con espressione piena di
gratitudine. “Allora,
cosa pensi di fare della tua…ricompensa?” gli
domandò, sinceramente curioso,
cambiando argomento.
Il detective
scrollò le spalle, con un cenno del capo che voleva indicare
indifferenza che
però non risultò, stranamente, molto convincente.
“E’
solo un
pezzo di ferro consumato” disse, ancora con quello strano
tono di voce. “Lo
lascerò in salotto e fingerò di averlo
perso”.
John
mugolò
deluso, guardando il detective con le sopracciglia corrugate in uno
sguardo di
disapprovazione.
“Sherlock…”.
“Se
vuole
liberarsi delle sue inutile chincaglierie farebbe meglio a gettarle via
invece
che darle a me. Sono cose che s’imparano da bambini,
John”.
“Ma
per lui
era importante davvero, Sherlock…”
provò John, in extremis.
“Ne
troverà
un’altra”.
“Sì
ma…”.
“Niente
‘ma’”
sbottò il detective, allungando il passo.
Sbuffò
e si
avvicinò ad un vecchio mobile elegante
nell’anticamera dell’ingresso, posando
la moneta dietro una vecchia cornice d’argento, attento che
nessuno lo vedesse.
John scosse la testa, a braccia incrociate, e Sherlock gettò
gli occhi al
cielo.
“Insomma
John,
togliti quell’espressione dalla faccia” lo
rimproverò, portando le mani al
bavero del cappotto e accorgendosi improvvisamente di qualcosa.
“Che
c’è
adesso?” chiese John, con tono acido.
“Ho
dimenticato la sciarpa. Tu va avanti, aspettami fuori”
esclamò, tornando
indietro verso il salotto a larghe falcate.
John
però non
si mosse.
Rimase fermo
ad aspettarlo, nonostante il chiaro invito di Sherlock a non farlo e
nonostante
il comportamento del suo coinquilino non lo rendesse meritevole di
nessuna
carineria o cortesia. Oltretutto, dentro di sé, John sentiva
di dover rimanere
lì. Si nascose ben bene dietro una delle nicchie del muro,
facendo in modo che
lui potesse vedere Sherlock ma che quest’ultimo non potesse
scorgere lui.
Vide il
detective armeggiare con la sciarpa blu, legandosela al collo con
nonchalance e
poi, del tutto inaspettatamente, vide Sherlock guardarsi intorno, come
per
assicurarsi di non essere spiato e lo guardò afferrare la
moneta che aveva
nascosto poco prima, riponendola con cura nella tasca interna del
cappotto,
quella riservata agli oggetti di estrema
importanza.
John
ridacchiò, attento a non rendersi visibile agli occhi di
Sherlock, e uscì di
soppiatto dalla porta chiudendola dietro di lui senza il minimo rumore,
fermandosi davanti al cancello del giardino per lasciar credere al
detective di
essere rimasto lì fuori ad aspettarlo.
Quando il
detective ricomparve, John lo guardò toccare insistentemente
la taschina del
cappotto, come se si stesse assicurando che il suo contenuto fosse
ancora al
suo interno.
Arrivato
davanti a John, il detective sorrise.
“Possiamo
andare”.
“Molto
bene”
asserì John, felice. Sherlock era sempre un continuum di
sorprese, esasperanti per di
più, ma certe volte
anche inaspettate, spontanee, come
quella piacevole scoperta appena fatta. E la loro rarità le
rendeva cento, mille volte
più belle.
John
aprì il
cancello e lasciò che Sherlock lo precedesse, incamminandosi
verso la strada
principale, alla ricerca di un taxi. Quando si fermarono
sull’ampio
marciapiede, in attesa, Sherlock non trattenne una risata. John lo
guardò,
curioso.
“Cosa
c’è?”.
“Sei
un
bambino, John”.
Il dottore lo
guardò, confuso.
“Che
diavolo
ho fatto adesso, Sherlock?” gli domandò,
interdetto. Quella sì che era bella.
“La
mamma non
ti ha detto che non si spia la gente nascosti dietro i muri?”.
Gli
servì un
secondo per assimilare quella frase e il suo sottinteso ma poi John
scoppiò a
ridere, divertito e per nulla stupito che Sherlock sapesse, dopotutto nulla gli si poteva nascondere
completamente, e si strinse nelle spalle, come a dirgli che non poteva
farci
nulla.
“Ho
avuto un’infanzia
difficile, Sherlock”.
Sherlock si
finse intristito. Mise le mani nelle tasche e guardò John
con un musetto
avvilito.
“Oh,
poverino”
disse, con tono fintamente consolatorio. “Mi
dispiace”.
John
annuì,
mesto, stando al gioco.
“Piena
di
mostri dentro l’armadio, sai”.
Lo sguardo di
Sherlock s’illuminò e si strinse nel suo cappotto.
“Oh
diamine.
Se solo ci fossimo conosciuti prima, avrei potuto aiutarti”.
John gli diede
uno schiaffetto scherzoso sulla schiena.
“Terribile
tempismo, è vero” asserì. “Ma
potrei portarti a casa a conoscerlo. Penso che
continui a tormentare i miei genitori. Sai, gli manco”.
Sherlock
represse una risata, lanciandogli occhiatine divertite.
“Muoio
dalla
voglia” esclamò. “In effetti, sei uno di
cui si sente la mancanza, quando non
ci sei”.
John
strabuzzò
gli occhi, sorpreso ma incredibilmente lusingato da quelle parole, in
fondo in
fondo.
“Sono
commosso” lo ringraziò. “Non ho vecchie
monete con cui pagarti, però”.
Sherlock si
morse il labbro inferiore, immerso in un’assorta
concentrazione, come se stesse
mentalmente stillando una lista delle possibilità con cui
risolvere quel
piccolo contrattempo.
“Ci
sono due o
tre cose con cui potremmo ovviare al problema. Troveremo una soluzione,
tranquillo” esclamò, eloquente. “Una
volta a casa, potrei farti un elenco delle
mie proposte”.
John
scoppiò a
ridere, ricambiando l’occhiatina furba di Sherlock, mentre
osservava un taxi
avvicinarsi.
Strinse una mano
di Sherlock nella sua, nel calore confortante della tasca del cappotto
dell’altro.
“Oh
Sherlock,
ne sarò estremamente
felice” disse,
malizioso. “Cosa farei senza di te?”.
*