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Autore: Lacus Clyne    10/08/2012    3 recensioni
Sono trascorsi sei mesi dalla caccia di Tom Culpeper al branco di Mercy Falls. L'inverno è tornato, e alle porte del Natale, Isabel torna a casa, nel gelido Minnesota. Una voce di lupo totalmente inaspettata e le sue speranze si riaccendono. Sam, Grace, Cole sono tornati? O è solo un miraggio dettato dal desiderio di rivederli?
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera!! *---* Nuovo capitolo, stavolta... ok, è abbastanza lungo!! Scusate l'attesa più lunga del previsto! >_< Spero vi piaccia tanto quanto a me è piaciuto scriverlo, era da una vita che aspettavo di arrivare a questa parte!! *------*<3<3<3 Buona lettura e buona serata!! :D

 

 

 

ISABEL

 

 

C’era una stanza, in casa di Geoffrey Beck, che aveva un significato particolare per me. Avevo trascorso tre giorni seduta su una poltroncina ai piedi del letto, immersa nell’aria putrescente di malattia. Era una bella stanza dalle pareti gialle, allegre, calde, quella in cui era morto mio fratello. Ed era lì che mi ero seduta, di nuovo, in attesa di qualcosa. Cole era là fuori, a combattere contro il lupo al quale stavo per consegnare la mia vita. Avrebbe vinto? O forse quella bestia feroce sarebbe stata troppo forte anche per lui? Avrebbe realizzato ancora una volta l’impossibile? Il problema era che qualunque cosa facesse, lui otteneva sempre quello che voleva. A costo di autodistruggersi. Sottovalutava, o forse calcolava fin troppo bene per quanto i comuni mortali potessero comprendere, i rischi da correre. Non so quanto tempo rimasi seduta ai piedi del letto a riflettere su quanto megalomane e imprudente fosse quel ragazzo. So solo che quando sentii la porta aprirsi era buio. Mi alzai e uscii dalla stanza, raggiungendo l’ingresso. Era lì, di fronte a me, con il muso ancora sporco di sangue. Dalla porta aperta arrivò una folata di vento gelido, che a contatto con l’aria calda della casa lo fece sussultare. E da lì, cominciò la trasformazione. Avevo già assistito a quella scena, ma quella volta con me c’era Sam, e Cole era in preda alle convulsioni dopo essersi sparato in vena chissà quali farmaci. Allora non lo sapevo ancora, ma stava lavorando per cercare la cura, usando il suo stesso corpo come cavia. Ed era sconvolgente, qualcosa che andava oltre le leggi stesse di natura. Il corpo del lupo che si inarcava, tendendosi oltre la sua lunghezza naturale, il manto scuro che regrediva, scoprendo la nuova pelle umana, il muso affusolato che riassumeva fattezze umane. Le zanne che diventavano denti, e gli occhi, che nella fase di transizione sembravano incapaci di definire qualunque sensazione stesse provando, tornarono a vedere. Dette un calcio alla porta col piede, sbattendola fino a chiuderla, poi incamerò aria e si sollevò. Solo allora, quando Cole rimase in piedi, nudo davanti a me, mi accorsi delle ferite che aveva riportato. Graffi, soprattutto sul collo e sul petto, ma ciò che mi colpì di più erano le cicatrici sul suo fianco. Segni d’arma da fuoco. Per quanto il suo corpo fosse in grado di rigenerare qualunque tessuto, per quanto gravi le ferite fossero, le cicatrici rimanevano. Fece schioccare le ossa della schiena, stiracchiandosi incurante della mia presenza, e poi toccò a quelle del collo. Si passò le mani tra i capelli, poi mi guardò, rivolgendomi un largo sorriso accondiscendente. Un vizio che non aveva perso. La prova che era tornato umano e in pieno possesso delle sue facoltà mentali.

“Sono di nuovo nudo.” Ammise candidamente, con la stessa naturalezza del dire “Sono di nuovo vestito”.

Lo raggiunsi, fermandomi a un passo da lui. La sua espressione si fece interessata. Sollevai la mano, seguendo con le dita le linee rosse dei graffi che portava sul collo e sul petto.

“Questa può essere considerata molestia sessuale, lo sai?” Domandò provocatoriamente.

Arrivai alla fine del graffio, e affondai l’unghia nella sua pelle. E tanti saluti alla manicure. Sibilò, scostandosi di colpo.

“Ne deduco che lo sai ma non ti importa. Sei incazzata?”

Oh, incazzata. No, Cole non sapeva cosa potevo fare se mi incazzavo davvero. Sorrisi, e gli mollai un ceffone. Uno schiocco secco, la sua mascella si irrigidì. Deglutì, poi portò la mano sulla guancia e mi guardò. Adesso aveva la solita espressione vacua, quella di quando qualcosa gli importava.

“Perché… devi sempre fare di testa tua, stupida bestia egoista?!” Ringhiai.

“Solitamente a questo punto della storia, Cappuccetto Rosso sta mangiando una torta con la nonna e col cacciatore che le ha salvate dal lupo cattivo.”

“Solitamente a questo punto della storia, Cappuccetto Rosso ha preso a schiaffi il lupo stronzo che l’ha salvata dal lupo cattivo senza preoccuparsi delle conseguenze. E spiacente, non c’è nessuna torta. Anzi, per la cronaca il tuo frigorifero è vuoto.”

“Colpo basso. Promossa con lode, Isabel Culpeper.” Nonostante tutto quello scambio di battute era come un piacevole ritorno al passato. Ma allo stesso tempo, continuavano a tornarmi alla mente le parole di mio padre. Le ripetei quasi sovrappensiero.

“Le persone non cambiano quello che sono. Cambiano solo quello che fanno.” 

“E’ per questo che il lupo stronzo non potrà mai mangiare la torta con Cappuccetto Rosso e con la nonna?”

Incrociai il suo sguardo.

“Cappuccetto Rosso muore nella fiaba originale. Quella storia serviva a far capire i pericoli delle cattive frequentazioni. Hanno cambiato il finale per mitigarne l’effetto.”

“Isabel.”

“Credevo di aver sbagliato a tornare qui, Cole. Ma invece, mi è servito. Ho capito qual è il mio posto nella tua vita.”

Mi fissò per un lunghissimo istante, senza che riuscissi a capire cosa gli stesse passando per la testa, poi quando finalmente aprì bocca, fu interrotto dagli squilli del mio cellulare. Ottimo tempismo. Lo presi dalla tasca dei jeans. Aveva la batteria quasi scarica, ed era mio padre. Lo maledissi mentalmente, ma dovevo aver lasciato trapelare qualcosa dalla mia espressione, tanto che Cole se ne rese conto e mi oltrepassò, lasciandomi sola nella stanza. Risposi, sperando che almeno facesse in fretta.

“Papà.”

“Oh, Isabel.” A giudicare dal tono era piuttosto allegro. Dio mio, chissà cos’aveva in mente stavolta.

“Cosa vuoi?” Domandai, voltandomi in direzione di Cole, che era sparito.

“Zucchina, cos’è quel tono seccato? Ho una gran bella notizia per te.”

Primo, era irritante il fatto che mio padre continuasse a chiamarmi zucchina. Secondo, aveva forse trovato un altro branco da sterminare?

“Ah.” Sospirai, andando a sedermi sul divano e osservandomi le dita. Erano ancora sporche del sangue di Cole. E per giunta, da quando ero arrivata, non  avevo nemmeno fatto una doccia.

“Quando parte il volo? Vengo a prenderti all’aeroporto appena sei qui e ce ne andiamo tutti e tre al ristorante.”

“Ed è questa la bella notizia?” Domandai, per inerzia, più che per reale voglia di saperlo.

“No, ma ce ne andiamo in Florida. Ho già prenotato tutto quanto. Il nostro albergo dà direttamente sulla spiaggia, ti piacerà sicuramente. Vedrai, Isabel, sarà un Natale indimenticabile.”

Andare in Florida a Natale… davvero un gran bel progetto. Dal momento che non eravamo più a Mercy Falls e non poteva rapirmi nel bel mezzo delle uscite per portarmi nello schifoso ristorante italiano che adorava, aveva ideato un nuovo metodo per costringermi a fare quello che voleva.

“Spero che ti rimborsino il biglietto, papà, perché non vengo.”

Preso alla sprovvista, mio padre ebbe un attimo di esitazione.

“Il volo è in ritardo?” Domandò con fare indagatore. Per quanto fosse un avvocato che sventrava la gente con l’abilità di un Velociraptor, ficcanasare alla ricerca del punto debole era un modus operandi.

“No, non c’è nessun volo, papà. Rimango qui, a Mercy Falls.”

“Stai scherzando, spero.” Rispose duramente.

“Mai stata più seria.” Continuai, osservandomi le unghie. Lo smalto si era consumato nonostante avessi messo il gel. Certi centri estetici erano davvero una fregatura.

“Isabel Rosemary Culpeper. Esigo che tu torni immediatamente a casa.” Declamò. La condanna era stata emessa. Mi venne da ridere.

“Sono maggiorenne, papà. Faccio quello che mi pare e tu non puoi impormi niente. Ma divertitevi in Florida, tu e la mamma. E se posso darti un consiglio, usate i preservativi. Niente contro, ma non mi va di fare da balia a un moccioso. Puzzano di latte e se ti vomitano addosso addio ai vestiti.”

“Isabel!” Ringhiò furiosamente papà. “E’ opera di quel Samuel Roth, vero?! Non sei con l’agente Koenig, dì la verità!”

Aveva preso informazioni. Dovevo aspettarmelo.

“Se anche fosse non ti devo spiegazioni.”

“Isabel!”

Ero così presa dal fare innervosire mio padre che non mi ero accorta che Cole era tornato. Lo compresi solo quando mi tolse di mano il cellulare. Mi voltai di scatto, si era lavato e rivestito. Indossava dei jeans larghi con le tasche e una t-shirt nera.

“Che stai facendo?” Chiesi, allarmata. Mi intimò di fare silenzio, poi mise il vivavoce.

“Salve, signor Thomas Culpeper.” Salutò divertito con teatrale educazione.

“Samuel Roth?!” La voce di papà risuonava strana col volume alto, ma non per questo aveva perso di furia. Misi una mano in faccia. Che diavolo si era messo in testa quell’idiota?

“Samuel Roth? E chi è? Mi spiace, ma non lo conosco. Al contrario, conosco Isabel.”

Gli scoccai un’occhiataccia assassina, ma non si scompose. Mantenne il tono divertito.

“Senti, figlio di puttana. Non so cosa tu voglia, ma sappi che non sai con chi hai a che fare!” Papà era inviperito.

Cole sorrise. E come se non lo sapeva. D’improvviso la sua espressione si tramutò in sogghigno.

“Se è per questo nemmeno tu sai con chi hai a che fare. Te lo dirò solo una volta. Mi chiamo Cole St. Clair. Sono più che certo che se cerchi il mio nome su Google mi troverai. E ne rimarrai sorpreso.”

Impallidii.

“E giusto per la cronaca. Isabel è perfettamente in grado di badare a se stessa. Dunque lasciala libera di vivere la sua vita come preferisce.” Adesso la sua voce era bassa, autoritaria, determinata.

“Cole…” Mormorai, nello stesso istante in cui mio padre imprecava.

“Ti saluto, Tom. Buon Natale.” Riattaccò, poi mi passò il cellulare.

“Sembra che necessiti di carica.” Mi comunicò.

Presi il cellulare.

“Perché l’hai fatto?”

“Perché morivo dalla voglia di scambiarci quattro chiacchiere.”

Ribadii. “Perché l’hai fatto?”

Mi guardò perplesso, poi mi rivolse il suo largo sorriso accomodante. “Beh, qualcuno doveva pur fargli capire che non può comandare a bacchetta la vita dei propri figli.”

“Cole, perché hai detto chi eri?!” Sbraitai.

Posò le mani sullo schienale del divano e si avvicinò, a pochi palmi dal mio viso. Il suo sorriso si spense, lasciando il posto a un’espressione seria e determinata, che sostenni.

“E’ ora che Cole St. Clair torni a vivere davvero, Isabel.”

“Che vuoi dire?” Affilai lo sguardo.

“La cura funziona. Dovrò perfezionare ancora qualcosa, e per essere certo che non ci saranno effetti collaterali, sarà necessario attendere qualche anno.”

Scossi la testa. “Che significa? Non avevi detto che era incurabile?”

Ricordavo fin troppo bene quando ci eravamo introdotti di nascosto nella clinica di mia madre. Si era tagliato il palmo della mano per analizzare il suo sangue infetto, e osservando il vetrino al microscopio era scoppiato a ridere, dicendo che la tossina agiva come la malaria, e in quanto tale, si potevano soltanto mitigare i sintomi affinchè evitassero di uccidere il malato. Ma non c’era cura.

“Ricordi la storia della rana e dello scienziato?”

“Quella delle conclusioni sbagliate, sì.”

“Esattamente. Da quando sei andata via e ci siamo trasferiti al rifugio Knife, ho continuato a studiare e a sperimentare. I fattori ambientali influenzano la trasformazione, ma non sono quelli ad innescarla. La tossina agisce a livello cellulare, provocando una mutazione a livello sistemico.”

“Grazie, premio Nobel, questo lo sapevo già.”

“Non c’è di che.” Continuò come se nulla fosse. “Quando una malattia colpisce, il sistema immunitario si attiva producendo anticorpi precisi che agiscono sulla causa. Fondamentalmente, la tossina si comporta in modo uguale, dal momento che attacca i sistemi interni. Se fosse trattata come un’infezione, dal momento che la febbre virale la contrasta, cosa sarebbe in grado di bloccarla una volta per tutte?”

Rieccolo entrato in modalità scientifica. Lo guardai, ero esausta anche per pensare. Intuì il mio stato d’animo, poi sollevò la mano e la posò sulla mia testa.

“La parola magica è vaccino.”

“E l’hai letta nella mia testa?”

“No, ma ci sono vicino. E questo è l’altro motivo per cui sono qui, da solo.”

Sbattei le palpebre. Quando l’avevo conosciuto, Cole era già parte del branco. Era una personalità dominante, in grado di imporsi anche solo con lo sguardo e in poco tempo aveva trasformato la casa in una sorta di laboratorio scientifico/palcoscenico dove tutto ciò che gli era attorno non era altro che un corollario rispetto alla sua presenza. Tuttavia, non era da solo. In quel chiasso che era la sua vita qualche mese fa, Cole non era mai stato da solo.

“Stai riflettendo sulla tua megalomania patologica?” Domandai.

Scosse la testa divertito, poi si scostò e mise le mani in tasca, gironzolando intorno ai divani. Nello stesso momento, il mio cellulare cessò di vivere.

“Merda.” Mugolai. Poi una minuscola parte della mia attenzione si focalizzò sul fatto che la chiamata di mio padre l’aveva interrotto proprio mentre stava per parlare.

“Che ne dici di rilassarti un attimo e di raggiungermi nel seminterrato?”

Rimasi lì dov’ero, ma raddrizzai le spalle. Arricciò le labbra. “Fa’ pure con comodo, ma il bagno è off limits. Sai com’è, Sam è geloso della sua vasca. Usa quello di sopra.” Mi fece l’occhiolino, poi si allontanò. Sospirai e obbedii. Cosa avrei dovuto aspettarmi adesso? Ora che mio padre sapeva di Cole, cosa sarebbe accaduto? Avrei dovuto tranquillizzarmi, Cole sembrava sapere davvero cosa fare, ma l’eco di quanto successo quell’estate era ancora troppo vivido in me. Lasciai che l’acqua calda della doccia lavasse via la stanchezza accumulata, e quando finii, osservai il mio riflesso allo specchio appannato. Nonostante gli occhi arrossati non stavo poi così male. Mi diressi nella stanza di Sam, sperando che Grace avesse lasciato dei vestiti. Non avevamo la stessa taglia, né soprattutto gli stessi gusti, ma nell’armadio trovai una vecchia felpa piuttosto larga e in un cassetto la biancheria. A occhio e croce sembrava la felpa roba di Sam, ma non avevo scaricato il trolley dal SUV e uscire mezza nuda non mi sembrava un’ipotesi felice in quel momento, come tantomeno spedire Cole a farlo. Con la faccia tosta che si ritrovava mi avrebbe sfidato a farlo da me. Mi soffermai su uno dei fogli gettati sul letto. Frammenti di parole e note. Mi tornarono alla mente gli sms che Sam mi aveva mandato la sera al Pomodoro. Il suo amore per Grace era così sconfinato che mi ero resa conto che mai nessuno avrebbe provato per me un sentimento così e mai come quella volta mi ero sentita avvilita e impotente. Fu allora che sentii un suono sommesso, simile a un accordo musicale. Prestai orecchio, e seguii stupita la scia di note che si diffondeva per casa. Quando raggiunsi il seminterrato, ebbi per un attimo la sensazione di essere tornata nella mia vecchia abitazione. La stanza era semivuota, fatta eccezione per alcuni scaffali con dei libri e dei divani accatastati accanto ai muri e al centro c’era uno Steinway a mezza coda uguale al mio. Era un particolare stonato nella mia memoria, dal momento che era stato una delle prime cose che papà aveva fatto trasferire in California. E poi Cole, Cole seduto sullo sgabello, con la schiena dritta e le sue dita da musicista che si muovevano veloci sui tasti.

Rimasi a bocca aperta e mossi qualche passo verso di lui. Continuò a suonare, rapito da quell’estasi, una melodia che non avevo mai sentito prima. Diversa dalle canzoni dei NARKOTIKA, diversa persino da quando l’avevo scorto a suonare una melodia inquietante in ottave maggiori col ginocchio appoggiato allo sgabello. Eppure maestosa, in crescendo. Avrei potuto rimanere ore e ore ad ascoltarla, era come se d’improvviso, tutte le preoccupazioni fossero rimaste al di fuori di quella stanza. Mi avvicinai al pianoforte, carezzando la lucida finitura nera, e mi fermai a pochi passi da Cole, ammirando il suo viso concentrato, il modo in cui le sopracciglia si inarcavano seguendo il ritmo e le spalle si sollevavano, portandolo verso mondi sconosciuti, dove musica e persone erano un tutt’uno. Sfiorava i tasti con grazia ed eleganza, e per qualche istante ebbi la sensazione di vedere cosa sarebbe stato, se non fosse diventato la rockstar sprezzante ed egoista che conoscevo. Un geniale ricercatore con la passione per la musica, le auto di lusso e le donne. Concluse l’esibizione con mio rammarico, perché avrei voluto continuare ad ascoltarlo, poi riaprì quei magnetici occhi verdi e sorrise. Dovevo applaudire, ma nonostante tutto, rimasi a osservarlo.

“E’ bellissima, Cole… è la musica più bella che abbia mai sentito…” Mormorai, lui fece un cenno di ringraziamento col capo. O forse trattandosi di Cole, più che di ringraziamento era d’assenso.

“Ho provato anche con la chitarra di Sam. Ma sono nato per il pianoforte, gli altri strumenti non mi piacciono.” Disse.

“Erano tuoi i fogli nella sua stanza?” Domandai, incuriosita. C’erano parole, ma la melodia che aveva suonato non ne aveva.

Si alzò. “Qualcosa del genere.” Rispose, raggiungendomi. “Davvero sexy, ragazza.” Disse senza nascondere la spiccata malizia nel tono, poi, con mia sorpresa, fece un impeccabile inchino. “Ti va di ballare?” Mi chiese.

Gli rivolsi un’occhiata perplessa. “Senza musica? Non ha molto senso.” Ma del resto, cos’aveva senso? Il fatto che fossi lì, assieme a un ragazzo che fino a poco prima era un lupo era già assurdo si suo, ma proprio quel ragazzo, era quello in grado di dare un senso all’impossibile.

“Chiudi gli occhi, Isabel.”

Li tenni aperti, guardinga.

“Dopo tutto questo tempo non ti fidi ancora di me? La prendo come un’offesa personale, signorina Culpeper.” Disse, ma a dispetto della voce seria, i suoi occhi erano giocosi. Sospirai, poi feci come mi aveva detto. Sussultai quando il suo braccio destro mi cinse i fianchi e il sinistro prese il mio. Voleva farlo davvero. “Non c’è musica…” Ripetei. Eppure, qualcosa in quella situazione mi incuriosiva. Sentivo il suo corpo atletico premuto contro il mio, la sua mano calda che stringeva decisamente la mia. Lasciai che mi guidasse, e la mia perplessità fu fugata del tutto e rabbrividii quando sentii la sua voce bassa e musicale sussurrare all’orecchio le parole di quella canzone. Diversa da tutte quelle che avevo sentito fino a quel momento. Ogni canzone dei NARKOTIKA parlava di Cole. Quelle parole parlavano di due anime che si erano incontrate quando il mondo stava finendo. Raccontavano un sentimento nuovo, nato dalla disperazione, quando tutto sembrava aver perso di significato. Due destini che si incrociavano. Non ci sarebbe mai stata salvezza, ma qualunque cosa fosse accaduta, per quanto fossero stati lontani, sarebbero stati per sempre l’uno per l’altra. Posai la guancia contro la sua spalla, mentre una lacrima mi si formò nell’occhio. Cole continuava a cantare, serrandomi a sé. Dentro di me, mi sentivo sicura, appagata e felice, come se quello fosse tutto ciò di cui avevo bisogno. Oh, sì, ricordavo quella sensazione. Quando mi aveva accarezzata, le sue dita dicevano la stessa cosa. “Questo è tutto ciò che voglio”. Sorrisi, e lasciai che le lacrime uscissero. Sentii Cole ridere sommessamente, poi si fermò e mi sollevò gentilmente il viso.

“Era così pessima?” Chiese.

Riaprii gli occhi, scuotendo la testa. “Hai scritto una canzone… su di noi…” Mormorai.

“Sono più bravo con quelle, che con le parole. Si chiama Light in the Darkness (Here with you).

Mi strinse più forte la mano, e in quel momento, non aveva niente della rockstar, niente del genio. Era solo Cole, il mio Cole.

“La risposta alla tua domanda, Isabel…” Continuò. Per qualche istante non capii cosa volesse dire, dal momento che tutto ciò che gli avevo chiesto aveva trovato risposta, in un modo o nell’altro.

“Ho capito molte cose, stando qui. Ho fatto tante di quelle stronzate nella mia vita, che avrei da raccontarne ad almeno due generazioni. Per anni ho vissuto alla ricerca di qualcosa che potesse dare un senso alla mia vita. Non avevo capito cosa fosse finchè non ho incontrato tutti voi.” Sorrise. “Beck mi ha dato una seconda possibilità, indipendentemente da quale fosse il suo progetto nei miei riguardi. Sam, con le sue poesie crucche e la faccia da Beatle perennemente depressa, mi ha mostrato cosa fosse una famiglia. Grace ha avuto fiducia in me, anche quando le iniettavo le tossine per trasformarla in lupo. Victor mi ha ricordato cosa volesse dire avere delle responsabilità verso qualcuno. Tuo padre mi ha mostrato a cosa può arrivare l’uomo quando è in preda alla disperazione...”

Esitai, lui sorrise ancor di più.

“E tu, Isabel Rosemary Culpeper… tu mi hai insegnato che l’amore esiste davvero… anche per uno convinto che fosse una trovata di James Bond per portarsi a letto le ragazze.”

D’improvviso, mi sentii avvampare. Lo guardai incredula. Ricordavo bene quando ne avevamo parlato, quando mi aveva detto che non credeva davvero nell’amore, e quelle parole, in quel momento, erano così consapevoli che quasi mi faceva male ascoltarle. Balbettai qualcosa senza senso, ero di nuovo incapace di parlare. A suo onore, dovevo dire che non fece niente per rovinare quel momento. Era così giusto, così perfetto, che nemmeno nei miei sogni avrei potuto immaginare niente di tutto quello che stava succedendo. La mia famiglia, il fatto che mio padre sapesse di lui, erano improvvisamente cose lontane anni luce. In quel mondo, c’eravamo solo noi due.

“Non so perché tu lo voglia, ma so che vorrei essere io quello a provare ad amarti.”

Annuii soltanto, poi sentii le sue labbra sulle mie. Così dolce, così gentile, così semplicemente naturale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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