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“Anna?”
“Elisa, ti prego!”
“Non ho il coraggio di
farlo.”
“Perché mai? Abbiamo fatto
tutti questi chilometri per niente? Ora siamo qua e tu ti dai una mossa.”
Anna aveva ragione.
Ci trovavamo in Toscana, più
precisamente a Grosseto, la mia città natale. Ebbene sì, dopo una settimana
trascorsa a sentirmi il terzo incomoda a casa della mia migliore amica, mi ero
decisa a tornare nella mia terra a controllare se la casa in cui ero cresciuta
fosse ancora di proprietà della mia famiglia o se fosse stata venduta. Mio
padre sarebbe stato capace di tutto pur di tagliarmi le gambe, tant’era l’odio
che provava nei miei confronti.
Così, mi ritrovavo davanti al
vialetto che tanto avevo odiato ma che adesso speravo tanto che potesse essere
nuovamente mio. Un auto era parcheggiata sul ciglio della strada, ma non sapevo
a chi appartenesse. Sperai che non fosse del nuovo proprietario della casa.
L’unico modo che avevo di
scoprirlo, in quel momento, era suonare quel dannato campanello e scoprire il
mio destino. In caso nessuno avesse risposto, nella mano destra stringevo una
vecchia copia della chiave del portone principale.
Anna mi diede una leggera
spinta, incitandomi a farmi avanti.
Una volta giunta vicino al
campanello, il mio sguardo fu catturato dalla targhetta che una volta arrecava
il cognome di mio padre. Ora, invece, c’era scritto ‘Famiglia Arrighi’.
“Oh, no!” mormorai,
portandomi una mano alla bocca.
“Elisa! Insomma, ti vuoi
decidere? Non è detto che tuo padre l’abbia venduta. Può essere che…”
“Okay, okay! Suono!”
Avvicinai l’indice sinistro
al pulsante del citofono ma, quando stavo per schiacciarlo, fui interrotta da
una voce femminile alle mie spalle.
“Elisa? Sei proprio tu?”
Mi voltai di scatto,
ritrovandomi faccia a faccia con Adelina Giannini, una delle mie ex vicine di
casa. La signora, conosciuta da tutti come Ada, era una vecchia zitella
pettegola che ricordava tanto la nonna di Hansel e Gretel. Rimasi a bocca
aperta, mentre la mia mente elaborava il fatto che la donna facesse ancora
parte di questo mondo. Quando ero partita a Londra, due anni prima, l’avevo
lasciata che vegetava a letto, in seguito ad un infarto che avrebbe ucciso
chiunque. Già, chiunque ma non lei. Si sa, l’erba cattiva non muore mai. L’avevo
sempre conosciuta e odiata, così come detestavo tutto il genere delle pettegole
che esistevano sulla faccia della Terra.
Ebbi l’impulso di risponderle
malamente, o di liquidarla con un sorriso falso come una banconota da due euro,
eppure un’idea mi balenò in mente come un fulmine a ciel sereno.
Mi sciolsi in un sorriso,
compiaciuta dal fatto di avere un cervello pensante.
La donna credette che stessi
rivolgendo quel gesto a lei, così mi si avvicinò e mi travolse in uno dei suoi
famosi abbracci stritolanti, capaci di infastidire la persona più paziente e
tranquilla al mondo.
“Salve, signora Ada. Come
sta? La trovo in splendida forma!” esclamai, dopo essermi gentilmente scostata
da lei.
Anna, intanto, si intromise
nella conversazione, salutando educatamente la donna. “Signora Ada, si ricorda
di me? Sono Anna, giocavo spesso con Elisa quando eravamo piccole.”
“Oh, sì, cara! Ciao!” squittì
Adelina, abbracciando anche la mia amica.
“Cosa fate da queste parti?
So che vi eravate trasferite a Londra e Milano” disse, indicando prima me poi
Anna, mentre pronunciava i nomi delle due metropoli.
Il sangue mi ribollì nelle
vene. Quanto odiavo quel suo ficcanasare in ogni questione! Eppure, dovevo
tenere duro e usufruire di quella fonte che tanto mi irritava per cercare di
scoprire qualcosa sulla casa.
“Sa, è proprio per questo che
sono qua” risposi, cercando di non rivelarle troppi dettagli che lei avrebbe
sicuramente spifferato alle altre reliquie del quartiere, ammesso e non
concesso che fossero ancora vive e vegete.
“Cioè?” I suoi occhi si
accesero di quella curiosità morbosa che conoscevo bene.
“Ecco, vorrei tornare a
vivere a Grosseto, ma non so se la mia casa è ancora disponibile.”
“Non lo sai?” fece,
spalancando sfacciatamente la bocca, come indignata dalla mia ignoranza.
Insomma, era davvero convinta che tutti dovessero essere a sua immagine e
somiglianza? Che razza di presunzione era quella?
“No, non lo so” risposi con
tono inevitabilmente irritato, beccandomi un’occhiataccia da parte di Anna.
“Oh, cara. Allora con tuo
padre le cose non sono migliorate, vero? Mi dispiace tanto. Quell’uomo è
terribile, io l’ho sempre detto!” borbottò, come se stesse parlando più con se
stessa che con me.
Soffocai un’imprecazione,
stendendo un velo pietoso sulla sua indelicatezza.
“Ragazze, su, venite dentro!
Vi offro una tazza di caffè e vi racconto quello che so. Non sono più informata
come una volta, ormai voi giovani siete così riservati! Però forse posso
aiutarvi.” Così dicendo, zampettò velocemente verso la sua dimora. Chi non la
conosceva, non avrebbe mai pensato che quel carro armato di donna fosse uscita
illesa da un infarto.
Io ed Anna la seguimmo e,
prima di entrare, la mia amica mi afferrò per un braccio e mi sussurrò:
“Comportati bene.”
Mi divincolai dalla sua presa
e annuii, per poi sedermi sulla poltrona di pelle nera che la signora Adelina
mi stava indicando.
L’arredamento della sua casa
era sempre nuovo, smagliante, come se nessuno vi abitasse, e forse era proprio
così. Era come se quella donna vegetasse alla maniera di un fantasma.
Poco dopo, tre tazze di caffè
fumante erano posate sul tavolino al centro del salotto e la padrona di casa si
sedette su una poltrona di fronte alla mia, mentre Anna si era accomodata su
una sedia di vimini.
“Il suo caffè è sempre il
migliore del quartiere, immagino” osservai, mescolando lo zucchero. Il mio
complimento, stavolta, fu sincero. La signora Adelina aveva molti difetti, ma
non le si poteva di certo togliere quel primato.
“Lo spero, cara, lo spero!
Assaggia e fammi sapere.”
Dopo aver sorseggiato il
liquido nero, le sorrisi.
Lei ricambiò, scrutandomi con
quei suoi occhi piccoli e stretti, indagatori e attenti com’erano sempre stati,
capaci di mettermi tremendamente in soggezione.
“Allora, Elisa, devi sapere
che la tua casa è in affitto alla deliziosa famiglia Arrighi” disse Ada, per
poi trangugiare il suo caffè.
“In affitto?” Posai la tazza
sulla superficie quadrata e vitrea del tavolino.
“Sì, hai capito bene. A tuo
padre fa comodo incassare un po’ di soldi. Con i tempi che corrono non ha
ritenuto opportuno vendere la casa, sai com’è.”
Evitai di chiederle come
facesse a sapere certe cose. Diamine, nemmeno io ne ero a conoscenza!
“Tuttavia…”
Sollevai lo sguardo. Cosa
stava per dirmi?
“La casa è a nome tuo, questo
dovresti saperlo.”
Rimasi interdetta. Cosa? No,
non ne sapevo niente! Eppure, feci finta di averne sentito parlare.
Annuii. “Ricordo vagamente
qualcosa del genere…”
“Tuo nonno ha voluto
lasciarla a te. Perciò, puoi farne ciò che vuoi.”
Sorrisi. “E’ vero. Che
sciocca, io…”
“Oh, Elisa, non ti
preoccupare” tagliò corto, sorridendo.
Quando io e Anna lasciammo
l’abitazione della signora Adelina Giannini, fui certa che mi sarei ripresa ciò
che era mio. Avevo perso tutto per colpa di mio padre, avevo dovuto rinunciare
ai Faithless perché non ero in grado di compiere scelte mature, ma di una cosa
ero sicura al cento per cento: sebbene mi dispiacesse per la ‘deliziosa
famiglia Arrighi’, sarei tornata a vivere a Grosseto, lottando contro la bestia
che mi aveva rovinato l’esistenza.