«Non
voglio andare in quel postaccio - assentii, contemplando il mio nuovo
taglio di
capelli allo specchietto retrovisore - Io non sono una squilibrata
mentale,
affatto!»
«Già.» annuì distrattamente
papà, picchiettando le dita sul volante a ritmo di
‘We are the champions’ che stavano trasmettendo
alla radio. Sbuffai,
giocherellando coi ciuffi color
cioccolato scappati alla coda di cavallo.
«Jade,
ti potrebbe aiutare a superare la tua timidezza - borbottò
mamma, ficcando in
bocca un biscotto integrale - Ed è tutto gratuito, quindi
perché rifiutare?»
«Perché sto benissimo, e perché quel
tizio non mi piace - mormorai - L’unico
che avrebbe bisogno di una cura è lui, con tutte le sue
fobie e il suo odioso
tic all’occhio!»
«Siamo arrivati!» esclamò con entusiasmo
papà, dopo aver posteggiato la macchina.
Non avrei mai capito il perché di quella visita,
dato che ero una delle
poche teenager che eccelleva a scuola e non teneva le scorte di birra
sotto il
letto per non farsi beccare dai genitori; insomma, una ragazza modello
che non
aveva assolutamente bisogno di stendersi su uno stupido lettino a
raccontare
della sua deprimente vita ad uno sconosciuto con la fobia per i capelli
bianchi
– infatti portava un parrucchino biondo-platino, un obbrobrio
– e per i ricci
di mare.
Mi
strinsi nelle spalle con uno sbuffo, per poi dirigermi insieme ai miei
verso un
portone color fieno, sul quale era affissa una striscia in legno, che
indicava
a caratteri cubitali ‘Studio del
dott.
Styles, psicoterapia’.
«Entriamo»
disse papà, abbassando la maniglia per poi filare dentro lo
studio. Era la
stanza più piccola e disordinata che avessi mai visto: risme
di fogli sparsi
ovunque, libri di Psicologia Infantile sparpagliati sulla scrivania,
quadri
raffiguranti gatti con facce umane appesi dappertutto.
«Mart!»
esclamò l’uomo, tirando una pacca sulla spalla di
papà. Strinse calorosamente
la mano a mamma, poi mi si avvicinò e sciolse le labbra in
un sorriso a
trentadue denti. «Tu devi essere Jade, sei proprio come
immaginavo: alta,
magra e molto carina. Accomodati, prego.» Mi avvicinai
riluttante alla
poltroncina che l’uomo mi stava indicando con discrezione,
per poi fiondarmici
a peso morto, godendo del calduccio proveniente dal camino accanto.
«Allora noi usciamo.» disse papà che,
seguito da mamma, andò via richiudendosi
la porta alle sue spalle.
“Dopo
faremo i conti, non la passerete liscia” mi dissi tra me e
me, fissando con
disgusto un quadro raffigurante un cavallo col viso di Obama.
L’uomo
mi si avvicinò cauto, stringendo il mento tra pollice e
indice, con uno sguardo
vacuo e incerto. Sentii che da un momento all’altro avrebbe
potuto saltarmi
addosso con un pugnale pronto ad uccidermi, ma sentenziai che quello
non era il
momento adatto per farmi dei filmini mentali, così ondeggiai
debolmente la
testa e mordicchiai impaziente il labbro inferiore, in attesa che mi
dicesse
qualcosa.
«Filofobia
- annuì, abbozzando un sorriso - Soffri di filofobia, la
paura inspiegabile di
innamorarsi o amare una persona.»
«Questa l’ha cercata su Google, lo ammetta -
annuii, saltando in piedi e
dirigendomi imperterrita verso l’uscita - La seduta
è finita, grazie tante.»
«Ragazzina, non sto mica scherzando - esclamò,
tornando improvvisamente serio –
L’ho capito dal suo sguardo, noi psicoterapeuti abbiamo
questa inspiegabile dote.
Basta un solo sguardo, un movimento, un modo di fare. Se non crede
nelle mie
capacità, facciamo un gioco: mi risponda a quattro domande.
Se indovinerò,
dovrà ammettere che soffre di Filofobia.»
Mi strinsi nelle spalle, tornando a poltrire sulla poltroncina. Le cose
sarebbero andate così: mi avrebbe fatto quelle domande, gli
avrei dimostrato
che ero sana come un pesce e sarei potuta tornare a casa dalle mie
amatissime
patatine alla paprika.
«Non
ha mai dato il tuo primo bacio, e attualmente non ha un
ragazzo.» iniziò cauto.
«Mh-h.» annuii debolmente. Andiamo, era solo una
domanda, ne rimanevano altre tre,
almeno una l’avrebbe sbagliata, e qui sarebbe cascato
l’asino.
«Odia
il rosa.» asserii, schioccando la lingua sul palato.
Annuii
piano, avvertendo un brivido lungo la schiena. Come diamine faceva a
sapere
tutte queste cose? Più che uno psicoterapeuta, quello pareva
un astuto
praticante di tasseomanzia.
«Non hai mai guardato il Titanic.»
continuò, accendendo un sigaro.
«Certo
che sì..» esclamai, abbozzando orgogliosa un sorriso.
«Non
il cartone.» sbuffò, creando una nuvoletta di fumo
davanti a sé.
Gli lanciai un’occhiataccia: un’ultima domanda,
Jade. Concentrati, non può
indovinare tutto, qualcosa la deve pur sbagliare.
«Indossi sempre e solo jeans.» squittì,
ficcando il mozzicone di sigaretta
dentro il portacenere, alla sua destra. Scosse debolmente il capo, per
poi
continuare a fissarmi sbattendo convulsamente le palpebre.
«Sbagliato.»
mormorai, accennando appena un sorriso. L’uomo
sbuffò, dopodiché
cominciò copiosamente a ridere. Scosse con
veemenza il capo, passando il palmo della mano sulla fronte imperlata
di
sudore, quindi mi rispose.
«Non
dica bugie, la prego - disse solamente, schioccando le dita –
dica la verità,
forza, non la mangio mica.»
«E va bene – ammisi, alzando le mani in segno di
difesa – va bene, ha
indovinato. E adesso, cosa vuole farmi? Vuole rinchiudermi in una casa
famiglia, dovrò condividere la camera con degli psicopatici?
Io non volevo
neppure venirci qui, mi hanno costretto, okay?» dissi tutto
d’un fiato, notando
lo sguardo confuso dell’uomo.
«E’
una semplice terapia che ti aiuterà a risolvere questo
problema, si basa su una
teoria che prevede la memorizzazione di un certo numero di pregi e
difetti di
un essere umano dell’altro sesso. In poche parole, dovrai
segnarti venti pregi
e venti difetti di un ragazzo, ti servirà a risolvere il tuo
problema e a
renderti facile all’amore.»
Feci una smorfia. «Lei è pazzo, non ci penso
nemmeno a fare un giochino del
genere, è una cosa stupida e infantile!»
Scossi con veemenza il capo con uno sbuffo, ripresi la mia borsa e feci
per
avvicinarmi alla porta, quando vidi la maniglia abbassarsi brutalmente.
Ebbi –
fortunatamente - l’impeto di indietreggiare, tuffandomi
nuovamente sulla
poltroncina, perché di colpo la porta si spalancò
ed entrò un ragazzo. Era
molto alto, abbastanza magro, poteva avere massimo una ventina
d’anni. Il viso,
scarno e addolcito da due adorabili fossette, era incorniciato da una
manciata
di riccioli castano cioccolato.
«Lui, è lui!» ripeté
l’uomo, indicando veemente con l’indice il nuovo
arrivato,
che si limitò a fare spallucce e a lanciarmi uno sguardo
interrogativo.
Arrossii. «Chi sarebbe, lui?» chiesi, guardando con
la coda dell’occhio il viso
stralunato e confuso del giovane alla porta. Era
proprio un bel ragazzo, su questo non
c’era dubbio: pelle chiara, occhi acquosi e un sorriso
mozzafiato. Ma avevo un
brutto presentimento.
«La terapia» sorrise il vecchio, facendomi
l’occhiolino. Come immaginavo.
«No,
no, no! - strillai, scuotendo con veemenza il capo – terapia?
Quale terapia? Io
non faccio e né farò mai quello stupido gioco, mai!»
«Non è un gioco, è una teoria studiata
e approvata a pieni voti dai migliori psicoterapeuti
di tutt’America!» sbuffò
l’uomo, corrucciando la fronte.
«Volete spiegarmi che diamine succede qui?»
sbottò il ragazzo.
Ammutolii, voltandomi in contemporanea con lo psicoterapeuta verso il
nuovo
arrivato, trattenendo a stento una risata. Il ragazzo
ricambiò lo sguardo,
sciogliendosi in una smorfia.
«Harry,
tu sei la sua anima gemella!» sbuffò drastico
l’uomo, indicandomi con
freddezza. Quindi il suo nome era Harry.
«Ma noi non ci conosciamo neppure!» urlammo in
coro. Ci scambiammo fugacemente un’occhiataccia,
per poi tornare a fissare increduli l’uomo.
«Provate
a conoscervi, uscite insieme e poi mi ringrazierete»
annuì lui, con un sorriso.
«Okay, ragioniamo un attimo - farfugliai
- quei tirchi dei miei mi hanno
costretto a venire qui solo perché la visita era gratis,
okay? Io sto
benissimo, ho i miei amici ed un papabile ragazzo, non ho assolutamente
bisogno
di uscire con uno stupido sconosciuto – scusami, Harry.. ti
chiamavi così,
vero? – di cui non conosco neppure il cognome. Quindi, adesso
uscirò da questo
posto, tornerò a vivere la mia vita,
dimenticandomi di lei e di Harry, capisce? Perfetto.» dissi,
guardando lo psicoterapeuta
in cagnesco.
«Papà, ha ragione» borbottò
Harry, ammiccando con veemenza.
Papà? Quindi Harry era il figlio di quel pazzo? Dove ero
finita, in una gabbia
di matti?
Agguantai
la borsa e il cappotto, per poi girare sui tacchi e sgattaiolare fuori
dallo
studio, cercando di convincermi che quello era solo uno stupido
incubo, e da lì a poco mi sarei svegliata a casa mia, sul
mio letto.
E magari guarita da
quella stupida malattia chiamata
filofobia.
- - -
Prima fan fiction, spero vi piaccia :)
Vorrei dirvi che Jade ha il viso di Michelle Trachtenberg, Harry già lo sapete (?), e dello psicoterapeuta devo ancora trovarlo. AHAHA
Vi dico comunque che avrà un ruolo importantissimo nella storia ;)
Ah, il bellissimo banner è della bellissima e bravissima Egg____s :)
Se questo Prologo vi è piaciuto, lasciate una recensione..
mi farebbe tantissimo piacere!
-lu (: