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Autore: Mannu    11/08/2012    1 recensioni
La libertà di ciascuno termina dove inizia quella altrui. Ma quando due persone decidono di stare insieme le cose si complicano. Aggiungiamo che una delle due persone è Miki, inquieta, incerta, perennemente insoddisfatta di se stessa e che ancora non sa esattamente cosa vuole dalla vita...
Tutto inizia con un capriccio, ma stavolta uno davvero pericoloso. Sfidare il mortale abbraccio di Giove!
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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GIOVE CONTRO
2.


Sentiva un peso alla bocca dello stomaco. Paura? Aveva cercato di convincersi che non era così ma dovette arrendersi. Si trovava nella zona del porto, nel primo settore. Qui la criminalità sfiorava il settanta per cento; ogni giorno venivano esplosi una media di cinquantuno colpi d'arma da fuoco; sorprendente che la media dei morti accertati non superasse il valore di tre ogni ventiquattro ore. Non c'era sosta, mai. Sì: era paura.
Non credeva che entrare in quel locale, il cui ingresso contendeva spazio a cumuli di rifiuti e perfino qualche rottame, avrebbe migliorato la situazione. Fuori c'erano facce poco raccomandabili e loschi figuri che la squadrarono mentre lei cercava di ignorarli. Badando a non fissare nessuno, a non guardare due volte nessuno, varcò l'ingresso.
Chissà che postaccio malfamato si era immaginata. Era tutto fin troppo tranquillo: niente musica a tutto volume, niente risse in corso, niente clienti particolarmente esotici, ubriachi o altra fauna strana. Astronauti, quelli sì: di tutti i tipi. Uomini e donne, giovani e vecchi. Ce n'erano perfino un paio che indossavano come lei la divisa azzurra da motorista, ma con mostrine incomprensibili. Ognuno sembrava intento agli affari propri, calmo e tranquillo. Sembrava quasi un bar come tanti altri, solo un po' più buio e un po' più sporco. Ma nessuno sembrava farci caso. Perfino il suo ingresso passò inosservato, apparentemente.
Si diresse verso il bancone ignorando i tavolini che facevano capolino da delle nicchie alla sua destra. A metà strada colse molto movimento con la coda dell'occhio proprio alla sua destra. Ogni nicchia che ospitava un tavolino rotondo e sedie fissate al pavimento aveva la parete di fondo trasparente. Attraverso questa si poteva vedere un piccolo ambiente chiuso: uno ospitava una ragazza che ballava mezza nuda, in un altro era in corso uno spogliarello maschile, nell'ultimo che riuscì a vedere una coppia faceva sesso in modo un po' brusco. Tutto era avvolto in una fastidiosa luce blu, tutto sotto gli occhi degli avventori che occupavano i tavolini. No, non è un bar come tanti altri, giudicò sforzandosi di distogliere lo sguardo. Una tapparella discese a occultare la ballerina nuda e i due che occupavano quella nicchia si affrettarono a toccare lo schermo integrato nel tavolino, usato per ordinare e pagare le consumazioni. La barriera si risollevò immediatamente e lo spettacolo riprese.
Frugò con gli occhi tra gli avventori appoggiati al lungo bancone finché li ritrovò. Non erano difficili da individuare: erano come l'astronave da cui li aveva visti sbarcare. Tozza, essenziale, maltrattata dall'uso e molto, molto robusta. Due donne e un uomo intenti a bere e a parlare tra di loro sommessamente. Tese i muscoli del ventre per cercare di fermare il tremolio del suo stomaco ma non ottenne risultati apprezzabili. Non riusciva a convincere il proprio corpo che non c'era motivo alcuno di avere paura. Eppure le sue budella insistevano nel mandarle preoccupanti segnali che la spingevano a cercare un bagno, in fretta, mentre le sue ginocchia tremanti minacciavano di cedere a ogni passo. Senza nemmeno volerlo cercò tutte le scuse per non avvicinarsi: ma no, non sembravano armati, non sembravano pericolosi, c'era spazio in abbondanza per avvicinarsi a loro e stare lì a fianco. Così fece, dandosi continuamente della stupida. Voleva parlargli anche se ogni fibra del suo corpo le stava suggerendo che avrebbe fatto molto meglio a stare a bordo del Coyote quella sera.
- Ciao, ragazzi! Posso offrirvi da bere?
Si voltarono tutti e tre verso di lei. L'uomo fece subito un cenno al barista che portò bicchieri colmi per tutti. Anche per lei. Preoccupata, si chiese cosa diavolo fosse quel liquido dall'aspetto incolore e innocuo.
- Non sei del locale, vero?
A prima vista poteva sembrare quasi un insulto. La divisa che indossava, con le mostrine di stellapilota e la toppa ricamata del Coyote sulla spalla, non era sufficiente a distinguerla da quelle povere disgraziate che a pagamento si contorcevano nude dietro una finestrella? Si sentì avvampare e distolse subito lo sguardo, sforzandosi di sorridere. Non voleva che la donna la vedesse arrossire.
- No, affatto.
Si rese conto d'un tratto che non sapeva portare avanti quella conversazione. La donna che le aveva rivolto la parola sembrava scolpita nel ferro. Era più bassa di lei ma non si sentiva certo a disagio per quello. Aveva la pelle scura, la testa completamente rasata, gli occhi castani scuri e profondi segnati da rughe agli angoli. Anche la bocca era chiusa tra due parentesi scavate nel viso ma la pelle sugli zigomi era tesa e liscia. Sopra una maglia nera indossava una giacca marrone senza maniche che aveva visto tempi migliori, per quel che poteva capire. Quando si portò alle labbra il bicchiere, senza distogliere lo sguardo da lei, poté notare come i bicipiti tatuati di quella fossero più grossi di quanto sembrava a prima vista.
- Quindi? A cosa dobbiamo la tua generosità? Cosa vuoi da noi?
La voce insolitamente profonda di quella donna sembrava giungere dal centro del torace. La faceva sentire a disagio. Cercò rifugio osservando solo per un istante anche gli altri due. Lui era giovane: la pelle bianca butterata e rovinata rendeva ancor più sgradevole il suo viso arrogante e squadrato. Era tatuato sul collo e gli spessi segni scuri scendevano in ghirigori astratti sotto l'orlo una maglia grigia. L'altra donna la costrinse a rivedere la sua personale scala di valutazione della bellezza femminile. Lei sapeva di non essere certo una bella ragazza, ma quella che aveva di fronte poteva recriminare molto di più. Sottolineato dai capelli biondi tagliati a spazzola come il suo compagno, il suo viso era privo di qualunque armonia e delicatezza. Sgraziato e spigoloso, perfino un poco asimmetrico, ostentava una brutta cicatrice che divideva in due parti disuguali il labbro inferiore. Piercing di cattivo gusto e sopracciglia sostituite da tatuaggi a mezzaluna completavano quella maschera dalla smorfia storta. Notò che anche gli altri due erano più bassi di lei.
- Siete j-diver, giusto?
La donna dalla pelle scura le mostrò i denti, ma non era precisamente un sorriso.
- No, carina... siamo i tre porcellini!
Risero tutti e tre, precipitandola nel ridicolo. Stavolta avvampò violentemente sentendo la vergogna infiammarle la pelle fino alla radice dei capelli. Non poté evitare di cercare un po' di contegno dandosi una grattatina, ottenendo solo di peggiorare il prurito.
- Tagliamo corto... cosa vuoi? Compri o vendi?
Sorrise: la conversazione non era ancora finita ma quella doveva essere la sua ultima possibilità. Offrire da bere era stata una buona mossa per guadagnare la loro attenzione, non poteva tergiversare a lungo. Scosse la testa in un cenno di diniego.
- Avete bisogno di personale?
I tre si guardarono in faccia volgendo l'uno all'altro un'espressione indecifrabile. L'uomo modulò un sommesso fischio attraverso le labbra: forse era ammirazione, forse semplice stupore; la donna dai capelli biondi a spazzola non trovò di meglio che bestemmiare per esprimere la sua sorpresa.
- Sei sicura? Ma tu sai cosa facciamo, vero?
Lo sapeva. C'erano diverse stazioni spaziali intorno a Giove: strutture massicce, resistenti al campo magnetico del gigante gassoso, con potenti motori in grado di tenerle fuori dalle grinfie della sua terribile forza di attrazione gravitazionale. Da queste stazioni venivano lasciate “cadere” navette speciali: enormi serbatoi dotati di un modulo di comando monoposto e un singolo, mostruoso motore a fusione nucleare. Potente, ma pericoloso e tecnologicamente arretrato. Queste navette affondavano nell'atmosfera di Giove e con una bottiglia magnetica cominciavano a pompare l'idrogeno molecolare all'interno dei capienti serbatoi. L'abilità dei piloti di queste navette, noti con l'antico nome di j-diver, stava tutta nel riportare indietro il serbatoio pieno senza che la navetta subisse danni irreparabili a causa della forza di gravità gioviana, delle violente correnti, delle temperature estreme. Sintetizzando, l'abilità stava nel tornare indietro: Giove non perdonava un solo errore.
- Certo che lo so. Sembra strano, ma sono stellapilota. Ho anche una nave che...
- Non ti servirà a niente essere stellapilota né avere un'astronave cazzuta, bella bimba – la interruppe subito la donna coi capelli biondi ritti a spazzola – Solo le nostre cimici possono farcela. Bisogna saperle usare.
“Cimici” era il nome delle navette speciali pilotate dai j-diver. Era dovuto alla loro forma: un insetto senza zampe o, per meglio dire, con tre o quattro zampe disposte a raggiera a una estremità, formate dai getti vettoriali del motore a fusione. Si era documentata anche su quelle e aveva perfino trovato un simulatore software che riproduceva tutti gli strumenti di bordo.
- Lo so, lo so – rispose lei, forte delle ore trascorse a simulare cadute verso Giove e ritorno – Mettetemi alla prova.
Incrociò le braccia sul petto per nascondere il tremito delle mani. L'aveva detto: voleva andare con loro. Voleva salire su una cimice e tuffarsi verso Giove. Se le avessero detto di sì avrebbe dovuto farlo davvero. Il solo pensiero la terrorizzava, ma voleva farlo. Cercò di confortarsi col pensiero che, se quei tre erano lì a quel bar a bere superalcolici e a mostrare i loro tatuaggi, farsi un giro su una cimice di Giove non doveva essere poi così tanto pericoloso.
- Una tipa tosta eh? - la donna dalla pelle scura si era rivolta verso i suoi due compagni e da essi raccolse commenti colmi d'ironia. Non gradì molto ma tacque.
- Senti bella: noi siamo al completo. Però se proprio hai deciso di morire possiamo darti una mano lo stesso. Se ti va ti presentiamo a Mahmet... lui cerca sempre gente.
Accennò prontamente con la testa: non si sentiva in grado di mantenere salda la voce.
- Però preparati a fare un viaggio a vuoto: non è facile lavorare con lui.
Non capì quello che la donna stava cercando di dirle. Pensò a quel pervertito di Morgan: non era stato facile lavorare con lui. Aveva passato parecchio tempo anche al fianco di Ilah, hacker permalosa e piena di sé: nemmeno lei era un tipetto facile da digerire. Per non parlare del Navigatore: una IA di astrogazione trasformata in un carro armato da un involontario trapianto dentro un droide di sorveglianza armato fino all'inverosimile. Ma in parte era colpa sua. Si strinse nelle spalle: che cosa avrebbe mai potuto avere di sbagliato questo Mahmet?
- Allora beviamo e poi andiamo a cercarci qualcuno che abbia un terminale decente. Sei pronta a pagare un collegamento fino al grande Giove, morettina?
Alzò il bicchiere, dichiarandosi pronta. Temeva di non essere all'altezza di diventare una j-diver, di tornare indietro con una cimice piena di idrogeno liquido, nemmeno di bere quel liquore che teneva tra le mani incerte. Ma se non avesse mai tentato, non l'avrebbe mai saputo. Quindi sorseggiò con cautela. Se l'era immaginato: un liquore secco e ruvido, molto alcolico, dal sapore ferroso. Le aggredì la gola e la fece tossire, i tre che la stavano osservando ridacchiarono.
- Salute! - disse la donna dalla pelle scura tracannando il suo liquore con una velocità sorprendente. I suoi compagni la imitarono mostrando altrettanta disinvoltura.


Non ci misero molto a trovare una stazione di comunicazione a pagamento di quelle abilitate all'uso della rete subspaziale. La donna dalla pelle nera, che aveva tutta l'aria di essere abituata da sempre a comandare, in pochi minuti stabilì una connessione con la stazione di quel misterioso Mahmet. Non le avevano voluto rivelare perché costui era costantemente a corto di personale, ma quando lo vide sullo schermo cominciò a farsi una sua idea. Appariva come un vecchio dalla lunga e cespugliosa barba bianca, totalmente incolta. Sulla pelle grinzosa si vedevano evidenti i segni di un'età indefinibile. Gli occhi erano affondati dentro orbite livide nel cranio spelacchiato, ma erano lucidi e mobili, molto vispi. Se la vecchiaia fosse stata un incubo lui ne era l'incarnazione.
- Alina... ho detto che non te le do quelle cinquecento ton. Se sei indietro con l'estrazione sono tutti cazzi tuoi. E chiamarmi da Apollo non mi impressiona: se hai soldi da buttare beviteli o paga un uomo, così ti sfoghi.
Aveva gracchiato quelle parole in fretta, senza preamboli, senza nemmeno salutare. Le parve evidente che i due non solo si conoscevano bene, ma si frequentassero da tempo.
- Mahmet, non ti chiamo per questo. Non ti interessa un po' di carne?
- Sono quasi al completo. Gli ultimi arrivati oltre alla carne hanno dimostrato di avere anche i coglioni. Dov'è?
Alina, la donna dalla pelle nera e dalla testa rasata, si voltò verso di lei senza un'espressione decifrabile sul viso e si fece da parte. Con un passo avanti lei entrò nel campo della telecamera del terminale.
- Salve. Sono Michaela Patris.
Il vecchio reagì inarcando un sopracciglio folto e ispido. Le sue rughe si ridisposero a formare un'espressione stupita. Dalle spalle di Miki si sollevò un mormorio.
- Hey, tu sei quella che ha portato le armi su Mastodonte! - esclamò il vecchio.
- Oh, un'altra coi coglioni duri... – la voce di Alina.
Miki digrignò i denti. Non era andata esattamente così ma non aveva voglia di mettersi a raccontare. Quel collegamento le costava un occhio della testa.
- Mi assume o no? - sbottò subito.
- Come j-diver, immagino. Va bene, ti aspetto – rispose il vecchio. Chiuse la comunicazione immediatamente dopo quelle parole.
- Michaela, devi raccontarci tutto! Torna al bar con noi: voglio proprio sapere com'è andata! - Alina le circondò le spalle con un robusto braccio, tirandola a sé. Aveva un odore inconsueto ma buono. Nonostante la tuta la sentì calda come se la sua pelle scottasse di febbre.
- Chiamatemi Miki – rispose con un sorriso sulle labbra.
   
 
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