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Autore: Black Wolf    26/02/2007    3 recensioni
Questa è la mia storia... non sono umana, e non sono vampiro. Vi chiederete: "allora cosa sei?" Vi basti sapere che io sono quella che ha sterminato un'intera congrega di vampiri, solamente per un'amore perduto e per una vita spezzata... la mia! Il mio nome si è perso nelle profonde pieghe della mia cupa esistenza... ma le mie prede mi chiamano Galatea, il Lupo Nero.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pioveva forte e i tetti delle case erano inondati da veri e propri fiumiciattoli, che correvano tra le tegole e lungo le grondaie, spazzando via foglie e qualche ciuffetto di muschio.
Era una grande cittadina, ma, uscendo da essa a poco, a poco le case andavano diradandosi, fino a che non rimaneva che qualche chilometro di aperta campagna, ove si potevano scorgere le montagne, che si stagliavano con contorni scuri contro la plumbea volta.
Ad un certo punto si stagliava austera una piccola chiesetta, attorniata da uno sparuto manipolo di abitazioni dall'aspetto antico; era un posticino carino, con l'edera che cresceva sui muri delle case, alcuni giardinetti ben curati e il fumo grigiastro, che usciva dai camini color mattone, per poi andarsi a confondere con il bigio colore del cielo.
Alle spalle della cappella vi era un piccolo boschetto di conifere, che stendevano gli scarni rami verso il cielo, e facevano stormire le poche foglie rimaste attaccate, disperatamente, alle piante.
Una sola cosa stonava in quel bel posticino ed era una lunga strada nera, a due corsie per ogni direzione, e le automobili sfrecciavano velocemente avanti e indietro, come grandi insetti simili a scarafaggi.
La radio continuava a dare sempre la stessa canzone, su ogni stazione che veniva cambiata; era una vecchia canzone, che parlava di vecchi ricordi…
Una figura scura, più scura della notte stessa, ma quasi confondibile con l'oscuro grigiore, stava apposta sul campanile, in un equilibrio perfetto, sulla punta della croce di ferro, messa sul torre.
Scrutava incessantemente verso quella città troppo luminosa, ma infinitamente piena di vita e persone; si mosse languidamente lungo la parete dell'edificio, come una lucertola sul muro, e, con un piccolo balzo, atterrò sul terreno umido.
Si sporse, di poco, sotto un vecchio lampione, dalla luce intermittente, e la sua figura venne in parte inondata dalla luce smorta del lume: era un giovane uomo, sui venticinque anni, con lunghissimi capelli, mossi, dalla tonalità simile al mogano, con la pelle d'avorio e grandi occhi neri come l'abisso.
Gli umani lo avrebbero trovato attraente e normale, se non per un piccolo particolare: due grandi ali nere e coriacee, fuoriuscivano dalla schiena, alla stessa altezza delle scapole.
Egli indossava una camicia nera, lacera nel punto dove uscivano le ali, e un paio di pantaloni di pelle nera; i suoi piedi scalzi non sembravano percepire il freddo del terreno e non rabbrividiva al contatto con gli abiti zuppi.
I suoi occhi neri erano grandi e profondi, abissi stellati senza un passato, erano tristi e spaesati, come se non capisse come facesse a trovarsi in quel luogo.
Si guardò attorno nuovamente e spiccò il volo, battendo ritmicamente le ali nere, che producevano un regolare e malinconico fruscio, diretto verso la città luminosa.
Sapeva che stava cercando qualcuno, ma non aveva memoria di chi fosse.
***
Settembre, mese dei colori intensi ma un poco spenti, sinonimo di riapertura delle scuole.
Infatti riapparivano nelle strade cittadine le frotte variopinte e rumorose degli studenti. Con grossi zaini in spalla, era come una migrazione autunnale verso i casermoni scolastici; il traffico mattutino si intensificava fra i pullman e le auto frettolose dei genitori mentre, lungo i viali, grandi cortei di giovani, sfilavano pigramente verso i portoni spalancati degli istituti scolastici.
La scuola era iniziata da pochi mesi e già l'autunno si faceva sentire, piangendo la sua frustrazione addosso agli alunni, che si dirigevano velocemente verso la sede scolastica.
La campanella era suonata da circa dieci minuti e nel cortiletto della scuola non si vedeva più nessuno, e a farla da padrone stavano la pioggia e il suo insistente picchiettare.
Una donna, coperta da un ampio cappotto nero con cappuccio, stava percorrendo con passo spedito il vialetto, le scarpe nere con il mezzo tacco battevano ritmiche sul marciapiede.
Svoltò ad un angolo ed entrò velocemente in una struttura grigia, dall'aria deprimente, percorse un piccolo corridoio, dalla moquette grigio topo e le pareti azzurro ghiaccio, fino ad arrivare davanti ad una guardiola.
Seduto su una poltrona economica, color grigio fumo di Londra, una guardia in uniforme stava guardando un programma comico in una piccola tv portatile; alzò la testa quando la vide passare, squadrandola con occhi annoiati, e la salutò:
"Buongiorno, dottoressa!"
"Con il tempo che fa non direi proprio…" borbottò ella.
Oltrepassò velocemente le doppie porte, con la maniglia anti- panico, e la moquette fu sostituita da spesse e tristi piastrelle grigio chiaro. Nel corridoietto erano ammassati, contro i muri, alcuni lettini dalla copertura verde marcio.
Un'unica porta nera, che contrastava con il monotono grigiore, spuntava sulla sinistra pochi passi oltre la doppia entrata; la donna entrò nella stanza, accese la luce e si chiuse la porta alle spalle.
La donna si tolse il soprabito invernale e lo appese all'interno di uno spoglio armadietto bianco, e traendone fuori un camice lungo e candido.
Lo indossò velocemente, infilò in una tasca un paio di guanti in lattice, incastro una penna a sfera nel taschino sul seno, si fermò i capelli lunghi in una crocchia e inforcò un paio di piccoli occhiali quadrati, dalla montatura viola.
Uscì dalla stanza e percorse il piccolo corridoietto, accompagnata dal ritmico suono dei suoi passi, che rimbalzava contro le pareti; quasi subito il passaggio si aprì in un'enorme stanza fredda e asettica, illuminata da ronzanti neon azzurrini, con alti frigoriferi di acciaio scuro contro le pareti, e alcuni tavoli, dello stesso materiale dei frigoriferi, al centro della stanza.
Appena entrati, qualche metro più avanti, c'era una porta bianca, con un grande vetro opaco, e affianco si alzavano alcuni armadietti, ricolmi di boccette etichettate e lenzuoli bianchi, sterilizzati.
La donna tolse una chiave dalla tasca destra e aprì la porta bianca.
Davanti a lei vi era un piccolo ufficio, con una scrivania e qualche scaffale gremito di fascicoli.
Si accomodò dietro il tavolo, prese un libro da un cassetto e iniziò a leggere, completamente immersa nel silenzio.
Una mezz'oretta dopo qualcuno bussò e lei, dopo un momento di smarrimento, andò ad aprire la porta; davanti ad ella si ergeva un uomo massiccio sulla sessantina, con lunghi baffoni sale e pepe, vestito di una tuta blu elettrico, le sorrise cordialmente.
"Buongiorno, Lye." la salutò amichevolmente l'uomo.
"Ma allora ce l'avete tutti con il buon giorno! Piove a catinelle e fa un freddo da far battere i denti ai pinguini… cosa ci trovate di buono?" sbuffò la donna imbronciata.
Egli rise, con la sua voce baritonale, e asserì:
"Sei sempre così suscettibile?!"
"Mi dispiace, Luigi, ma sono stanca e il capo non mi ha ancora dato le ferie!" si scusò Lye, sistemandosi, imbarazzata, gli occhiali sul naso.
"Non ti preoccupare, Lye! Ti capisco." La rassicurò appoggiandole una grande mano callosa sulla spalla "Oggi, comunque, te ne ho portato solo uno… poverino."
La donna alzò un sopracciglio, stranamente incuriosita; seguì Luigi fino al corridoietto dove si trovava una barella bianca, ricoperta da un panno azzurrino.
"Cosa abbiamo questa volta?" chiese, prendendo in mano il foglio di consegna.
"Non ti voglio rovinare la sorpresa, quindi dovrai aspettare di averlo aperto." Rispose laconico Luigi.
Lye scrollò le spalle e firmò il foglio; lo porse a Luigi che la salutò gentilmente, ed ella spinse la barella fino alla grande stanza, vicino ad un tavolo.
Aprì delicatamente il panno e gli si presentò davanti il corpo di un uomo, giovane e attraente.
"Sei capitato in un brutto posto, tesoro!" gli bisbigliò, accarezzandogli i capelli "Eri così giovane…va be!"
Scomparve, per pochi momenti, dentro l'ufficio.
Quando ritornò spostò il corpo dalla barella bianca al tavolo metallico, e iniziò ad esaminarlo, parlando in un registratore portatile.
"Uomo bianco, sui venticinque anni, altezza uno e ottanta, capelli biondi, corti. Abbiamo vari ematomi sottocutanei e lievi ferite da taglio sugli arti superiori e sull'addome… ma la ferita che lo ha ucciso è una lacerazione sotto la trachea, dimensioni abbastanza estese e profonda, dai bordi slabbrati."
Fermò il registratore e si mise ad esaminarne il viso; sollevo entrambe le palpebre e una cavità oculare era stata privata dell'occhio. Un brivido le corse su per la schiena e richiuse gli occhi.
"Un bulbo oculare è stato estirpato brutalmente. Gli arti hanno ancora la mobilità di una persona in vita, ma la temperatura e il colorito pallido dell'epidermide fanno supporre alla morte avvenuta da circa diciassette ore. Ora dell'analisi 10.30, da parte della Dottoressa Ya Sidahi"
Prese dall'armadietto un lenzuolo nuovo e ne coprì il giovane, dopo averlo riposto all'interno di una cella frigorifera.
Chiuse a chiave l'ufficio, e si cambiò, pronta per tornare a casa.

  
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