Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: IreneZolea    16/08/2012    3 recensioni
Vicino Oriente Antico, anno 1115 a.C.
Agli albori dell'Età del Ferro, tra sangue e polvere, il racconto si dipana narrando le vite degli uomini in Mesopotamia, la Terra tra i Due Fiumi. Tutto inizia durante il sedicesimo anno di regno del Servo di Aššur, il Sovrano assiro Assûr-rēsh-išhi.
۞ Pagina di FACEBOOK: https://www.facebook.com/pages/Vestita-di-Gemme/167436763392584
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 
 
 
Enlil per benedirci
il capo ci toccò, e ci disse: "Un tempo
Ut-napishtim fu un uomo, ma or non più:
d'ora innanzi sia lui che la consorte
vivranno presso il margine del mondo,
alla bocca dei fiumi, né la morte
potere avrà giammai sopra di loro."
E fu così che ci preser gli dei
e ci posero qui, a viver per sempre,
lontano dai mortali, in capo al mondo,
alla bocca dei fiumi, né la morte
avrà giammai potere su di noi.»

Dal Poema di Gilgameš
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Quinto anno di regno del Re di Karkemiš, Inī-Teshūb II
Secondo giorno del mese di Abū
Il Fiume Pūrattū ha trascinato le carcasse di tre vacche fino in città

 



Una zanzara la punse sul dorso della mano.
Fissava il fastidioso insetto mentre succhiava il suo sangue, riempiendosene il ventre. Aveva bisogno di nutrirsi, ma aveva scelto la donna sbagliata. Alzò l’altra mano e con un colpo secco la uccise.
I pendenti della corona e i monili preziosi intessuti nella veste d'oro tintinnarono per il colpo. Strinse le dita al petto, percependo con i polpastrelli il freddo contatto del metallo.
"Portatemi quegli scellerati! Li voglio qui, ora! Ora!", esclamò il Re, paonazzo dal vino, lanciando il boccale verso i servi. Dopo un frettoloso inchino, corsero lungo il corridoio.
“Ti senti sola?”, mormorò ancora il sovrano, toccandole i capelli intrecciati da fili metallici. "Ora avrai compagnia".
La donna era attorniata dal convito festante della corte di Karkemiš, tra il chiasso dei tamburi e le grida delle cantanti. Sedeva alla destra del Sovrano. Tutto quel trambusto era a causa sua, dopotutto.
La sala era ampia, con un alto soffitto e un severo colonnato affacciato al terrazzo esterno, dove si godeva la vista di uno tra i più grandi imperi che il mondo avesse mai visto. Ma ora giaceva nel silenzio della notte, inerme e smorto. Le fiaccole alle pareti avevano in seno lingue di fuoco che annerivano il soffitto, coperto da pittura vecchia e screpolata.
L'impero ittita era oramai dissolto, caduto così velocemente che le antiche vestigia si erano svuotate di ogni significato. I leoni scolpiti alle porte della città ruggivano solo vento e polvere, e le pietre delle costruzioni fiorivano della sterpaglia radicata nei loro crepacci, germinata in un briciolo di terra secca.
Seduti su alte lettighe, nella sala, stavano i dignitari della città di Karkemiš dal tipico copricapo a punta, i sacerdoti dalle vesti a balze, i cortigiani con anelli d'oro al naso, e ogni abbiente della città di Karkemiš che avesse sufficenti shekěl d'oro per far ingrassare le mogli anche in tempo di carestia.

La donna fissò il sovrano, Inī-Teshūb, un uomo di circa trenta estati con lunghi capelli neri, sormontati da un alto copricapo conico con bordature in oro sbalzato. Gli mancavano numerosi denti, e il volto era butterato da segni profondi.
Mentre un bambino pizzicava le corde di un pregiato salterio, ricomparve in fondo alla sala il gruppo dei servi. Tenevano stretti per le braccia tre giovani uomini e una donna, visibilmente scossi. I loro volti erano graffiati e lividi, e le lunghe barbe era sciolte, senza i lacci che le tenevano raccolte. Indossavano vesti pregiate, logorate dalle percosse.
"Ecco i cani della città di Kaněsh!", sibilò il Re Inī-Teshūb, con un ghigno divertito.
Uno dei prigionieri sputò in sua direzione: "Tagliati la lingua, serpe!"
Un'altro, dai folti ricci neri, incalzò furente: "Hai violato il trattato con la città di Ašhshū′r! E il sole è sorto diciassette volte da quando ci hai legato coi cani e le capre! Chiedo giustizia agli dèi per le tue azioni, Inī-Teshūb!"
"Pietà, potente Signore! Non ascoltateli! - intervenne supplichevole la donna prigioniera, sovrastando con la voce gli altri - Ti abbiamo già dato tutte le stoffe e lo stagno. Non abbiamo nient'altro! Lascia andare i miei fratelli! Quest'anno la carestia ha colpito duramente Kaněsh. Il dio del Sole,Šamaš, ha bruciato i raccolti, e le vie commerciali sono chiuse dal mese di Du'ūzu. Eravamo pronti con gli asini per prendere l'oro e l'argento dal Lago al nord. Dateci un altro mese, e vi consegneremo il doppio dello stagno! Non guadagnerete nulla dalla nostra morte, potente Signore! Solo sciagure e l'ira del nostro Re, potente Signore della Terra di Aššur!"
La donna si gettò ai piedi di Inī-Teshūb, baciandogli i sandali con le lacrime. Ripeteva: "Pietà, Signore!"
"Ăllāt! Stupida donna!", sibilò tra i denti uno degli uomini legati, il più anziano, alzando gli occhi colmi d'ira verso il Re: "Noi non siamo tuoi, Inī-Teshūb. Apparteniamo al servo di Aššur, l'amato dagli dèi, il Sovrano Assûr-rēsh-išhi, Padrone dei Quattro Angoli del Mondo. Strappaci la carne, bevi il nostro sangue, disperdi i beni dei nostri figli nel fiume e nel fuoco. Sii tu maledetto davanti agli dèi! Alza gli occhi, Inī-Teshūb, e guarda chi è testimone delle tue colpe. Šin, dio della luna, ha l'Occhio puntato su di te dall'alto del cielo! Non c'è giustizia nelle tue azioni, e te ne sarà chiesto conto dagli dèi!"
Inī-Teshūb era irritato, ma l'ubriachezza lo rendeva lento e subì i loro improperi senza fiatare.
"Hai ragione", mormorò infine verso l'uomo, alzando lo sguardo verso il terrazzo dove la luna era visibile, rossa come il sangue, sorta da poco. "Non posso uccidervi davanti al dio. Meglio nei sotterranei."
Ai funzionari disse: "Mandate le loro teste al loro Re assiro, Assûr-rēsh-išhi. E questo qui -indicò il prigioniero più giovane, che non aveva ancora la peluria sulle braccia- non è forse il fratello della sua ultima concubina? Tagliategli prima la lingua e le mani. Speditegli al suo Re anche quelli, su asine infestate dalle zecche".
Gli uomini, stretti ancora dalla presa dei servi, presero a lanciargli maledizioni. Il più giovane, sbiancò dal terrore. La donna urlava dallo spavento, tirandosi i capelli.
Uno dei dignitari accanto al Re, pallido come un cencio, si chinò all'orecchio di Inī-Teshūb:
"Mio potente Signore, amato dagli dèi! Forse il dio della luna non vedrà le tue azioni nelle cucine, ma è vero quanto dice quel mercante assiro. Assûr-rēsh-išhi, il loro Re, da tempo ha messo gli occhi sulla nostra città di Karkemiš, e tu, mio Sovrano, violando il loro trattato commerciale sul quale hai posto il sigillo, te lo rendi nemico più di quanto già non sia. Lascia andare i mercanti assiri di Kaněsh! Hai già tolto loro ogni bene. Ricordi quando ti vendettero cinquecento misure di orzo per solo centoventuno šiqlu, lo scorso anno?Ti hanno trattato come si tratta un fratello. In nome del dio Ălmaḫasūitta, ascoltami!"
"Ah, quello stupido trattato!" sbottò Inī-Teshūb, allontanando il dignitario con una spinta. "Non sono il servo di nessuno! Io sono il Re di Karkemiš!", urlò, azzittendo la sala ed i convitati.
"Non passerà questa luna prima che il tuo sangue si unisca al mio!", replicò uno dei prigionieri, fissando il sovrano negli occhi: "Sii tu maledetto, Inī-Teshūb, da tutti gli dèi della terra di Aššur!"
"Basta! Via, via questi cani di Kaněsh! Uccideteli tutti! Tutti!", esclamò il Re di Karkemiš, lanciando il suo sandalo sulla testa dell'uomo.
"Riempitemi il boccale! Danzate! Danzate tutti! E' un ordine!", gridò ancora con l'alito che già puzzava di vino, mentre un giovanetto inclinava una pesante brocca per versare altro liquido fermentato al Sovrano.

I prigionieri furono trascinati, urlanti, fuori dalla sala. Dopo poco tempo le loro grida non riecheggiarono più, né nei corridoi, né per le scale che portavano al piano inferiore. La donna ingioiellata che stava dall'inizio della serata seduta accanto ad Inī-Teshūb, rabbrividì. Erano già tutti morti? Così presto?
La giovane si guardò la mano, osservandosi le dita inanellate che tremavano come foglie secche. Aveva paura di Inī-Teshūb. Aveva paura della sua pazzia. Zuppo di vino, aveva appena dichiarato guerra al più potente regno della terra, al cui confronto la sua città era uno sputo informe. Aveva attirato la disgrazia su Karkemiš da diverso tempo. E adesso ordinava di danzare sulla loro fine imminente.
 

 
 
 

"Dì a mia moglie Ărinnā-bât di prepararsi. Andremo versoḪattuša questa notte. Và!", sibilò uno dei nobili a suo cognato, allontanandosi dal Re che tracannava un altro boccale di vino. Si accorse che la giovane rivestita d'oro l'aveva udito. La fissò, ma non le dedicò un attimo di più.
I sacerdoti della dea Kūbaba si allontanarono dalla Sala dopo un frettoloso inchino, sibilando tra i denti un augurio poco sincero di lunga vita al Sovrano. Quanti riuscirono a uscire da quella sala senza contrariare il Re, lo fecero senza attendere oltre.

La donna ingioiellata li osservava andar via, uno ad uno. Inī-Teshūb era troppo intento a tracannare il vino della città di Ḫalāp, le cui viti erano coltivate all'ombra del Tempio di Adād, Signore di ogni tempesta. Forse era l'influsso del dio ad annebbiargli la mente.
Distolse lo sguardo dal Re. Lei non sarebbe scappata. Che la minaccia attirata dal Sovrano ubriaco portasse il nome di assiri, elamiti, amorrei, moabiti, non gliene importava nulla. Sarebbe stata liberata da quel giogo d'oro e tanto le bastava. Avrebbe atteso giorni, forse settimane, in attesa che le temibili lance assire puntassero verso Inī-Teshūb e la sua corte.
Le donne venivano risparmiate, deportate nelle case dei nobili assiri per tessere la lana e impastare il pane. Ebbe timore che la sua altezza fuori dal comune potesse costituire un problema per la sua salvezza. Fino a quel momento, le aveva attirato solo sorti cattive. Aveva anche udito atrocità inenarrabili, di pelli strappate alle carni per chi aveva contrariato i potenti signori dell'Assiria. Doveva essere cauta come un aspide.
Prendevano le città una a una, radendole al suolo. Assûr-rēsh-išhi, servo del dio Aššur, rivendicava il dominio su ogni suolo toccato dal sole. Tra i suoi titoli si fregiava di essere Signore di ogni terra, anche di quelle che non aveva visto o che non esistevano affatto. Quanti stavano nelle campagne intorno ai suoi confini dovevano divenire tributari. Se fossero venuti meno ai patti, Assûr-rēsh-išhi avrebbe ampliato il suo già vasto regno, massacrando e prendendo con sé le città ribelli.
Karkemiš era divenuta, da quasi un anno, rifugio per gli scampati all'eccidio assiro. Gli esuli avevano piaghe aperte, con le mosche che ronzavano sulla carne esposta. I più fortunati morivano in pochi giorni.

La giovane ingioiellata si sentì tirare i capelli. Si voltò, e vide Inī-Teshūb che aveva preso una delle sue ciocche per respirarne il profumo di mirra e aloè.
“Fai bene a non parlare, femmina. Aprirai bocca solo quando giungerà l'ora in cui il popolo degli Ḫatti si riunirà sotto la mia ala”, mormorò, allungando la mano e facendola voltare senza cortesie.
Il Sovrano di Karkemiš era rilucente delle vesti purpuree della terra di Kināhhu, con gli oli che rendevano lucida la barba, e un segno d’ebano che circondava i suoi occhi neri, scuri come la notte che avvolgeva la terra d’Anatolia. Era frutto delle viscere di una donna andata in sposa al proprio fratello, e i quattro figli che sopravvissero crebbero deformi o folli. Inī-Teshūb II era sia l'uno che l'altro, costretto a farsi portare a braccia dai servi per via delle sue gambe storpie e del suo peso notevole. Dall'età di dieci anni la sua altezza non aumentò.
“Io non ho il potere di porti sul Trono dei Leoni, mio Re”, rispose lei.
“Questa litania l’ho udita abbastanza, donna!”, gettò nervoso la ciocca dei capelli dalle dita. Seccato, continuò: “Per Ălmaḫasūitta! Ora tornerai a torturarmi con la stessa storiella? Ne ho sentite di migliori! Dall'acqua che diventa pietra alle montagne che sputano fiamme! Io sono il discendente diretto di Sûppiliulūma, l'ultimo re degli Ḫatti! Il compito che ti hanno dato gli dèi è di portarmi sul Trono dei Leoni ad Ḫattuša. Attieniti, e sta' zitta!” 
La donna non si turbò: “Mio Signore, gli Assiri verranno. Hai attirato la loro ira, imprigionando e uccidendo i loro mercanti, violando il trattato. Io non ho alcun potere sul loro potente esercito, e non ho con me alcun messaggio del dio Ălmaḫasūitta. Lasciami andare, ti prego!”
Il Sovrano non trattenne più l’ira, dandole uno schiaffo e strappandole per il colpo l'orecchino, che rotolò tintinnando al suolo. I pochi cortigiani rimasti fedeli finsero di essere troppo presi dal canto chiassoso di un giovanetto nudo per notare i due. Mai contrariare Inī-Teshūb, soprattutto se ebbro di vino.
“Sei una spia assira? No, uno spirito maligno inviato da Aššur! Ecco chi sei! Quando apri quel becco escono solo disgrazie! Ne ho abbastanza!”, esclamò il sovrano.

La giovane poggiò la testa sulla spalla per nascondere l’orecchio insanguinato. Reclinando il viso, attraverso il colonnato del terrazzo, si accorse che una parte del cielo si era colorata di scarlatto acceso. Un colore vivido e innaturale.
“L’aurora...”, sussurrò titubante tra sé. Era troppo presto.
Fu spinta via dall’uomo, che fissò la luce con gli occhi sbarrati.
Inī-Teshūb, Re dell'ultima briciola dell'impero degli Ḫatti, fino a quel momento rosso per il vino come un papavero di campo, impallidì.
“Ci attaccano”, sibilò, senza fiato. Come se gli avessero scoccato una freccia in pieno petto.
 

 
 
 

"Ci attaccano! Attaccano! Via! Via!" urlò il Re, agitando le grasse mani sui capelli.
La striscia rossa all’orizzonte non era ad est lì dove il sole è naturale che sorga, ma a nord.
Il rumore assordante delle stoviglie gettate al suolo fecero cessare le risate del banchetto, mentre gli eunuchi cercarono di sollevare dai cuscini lo zoppo Sovrano di Karkemiš. Nella Sala si era scatenato il caos più totale.
Come era possibile che gli Assiri fossero già giunti in città?
Le truppe di Karkemiš salirono sui carri per organizzare le difese, mentre altri soldati, disperando, si diedero alla fuga portando via tutto ciò che di valore riuscirono a trovare. Alcuni danzatori e musicisti avevano rotto i bellissimi leoni d’oro alla base del trono del Re, trafugandone le schegge e ingoiando i pezzi più piccoli.
La giovane si allontanò con quanta fretta le fu possibile, appesantita dai numerosi gioielli che indossava come una veste.
"Prendetela! Prendete la donna del dio Ălmaḫasūitta!", gridò il Re Inī-Teshūb, mentre lo portavano via a braccia.
Lei non voleva fuggire. Era giunta l'ora della sua liberazione, la disfatta dei suoi aguzzini. Perchè scappare?
Due uomini, all'ordine del Sovrano, si precipitarono su di lei. La afferrarono per le braccia. Le strattonavano la collana per strapparla, mentre l'altro le strinse la mano per sfilarle gli anelli con violenza. La giovane si agitava, soffocando per la stretta dei gioielli sul collo. Aveva la bocca spalancata, ma non poteva respirare. La fecero cadere al suolo, trattenendola col loro peso. Nessuno corse a difenderla. In quell'ora terribile ciascuno doveva badare solo a se stesso. Era sola, in balìa di due uomini robusti.
"Stai ferma, cagna!", le sibilò uno dei due, digrignando i denti.
La giovane aveva dalla sua parte l'altezza considerevole, misurando quasi il doppio degli uomini che le erano addosso. Si fece forza. Stesa sul pavimento, fece uno sforzo immane per rialzare la testa facendo forza con i muscoli del ventre e delle gambe. Riuscì, con un impeto di volontà, a mordere la mano che la tirava per la collana, affondando i canini nella carne. L'uomo ferito urlò, tirandosi indietro. L'altro, colto di sorpresa, non riuscì a evitare una violenta gomitata in volto da parte della donna. Continuando a scalciare, riuscì a divincolarsi completamente.
Incredula, corse per la Sala di mattoni. L'unica via di fuga era bloccata dal flusso disordinato dei dignitari e cortigiani, dinanzi a una porta troppo stretta per così tanta gente. Gridando, la folla confusa invocava i loro dèi.
Il Re era scomparso.
Alle sue spalle, i due uomini che l'avevano assalita stavano per raggiungerla. Avevano uno sguardo colmo d'ira, e pronunciarono terribili minacce in sua direzione.
La donna non ebbe tempo di pensare. Vide alla sua destra il parapetto del terrazzo. Non aveva scampo. Prese fiato e si gettò all'esterno con un grido, precipitando nel buio.

Cadde sul ginocchio. Un dolore lancinante le risalì per la gamba, martellandole le tempie.
Era saltata dal primo piano del Palazzo, e il terreno sabbioso aveva in parte attutito la caduta. Si rialzò a stento. Non poteva camminare in alcun modo. Il dolore era tale che stava per perdere i sensi. Doveva cercare un nascondiglio, un qualunque buco che l'avrebbe occultata e protetta dalla tempesta imminente. La luce scarlatta vista a nord era adesso più vicina e illuminava terribilmente il cielo. Si poteva persino udire l'eco delle spade di bronzo che cozzavano.
Alla sua destra c'era il basso ingresso delle cucine, apparentemente abbandonate. Trascinandosi, si portò dinanzi alle fiamme ancora accese sotto cocci colmi di liquami. L'aria era impregnata dell'odore del sangue, pungente e nauseabondo. Cercò di non chiedersi se era di quei prigionieri o qualche animale macellato. Animali macellati. Spalancò gli occhi.
Zoppicando, cercò il magazzino dove erano tenuti quelli già smembrati. Superò la testa di una capra sgozzata dagli occhi vitrei, riversa sui mattoni del pavimento. Seguì la linea di sangue finchè non trovò il resto del corpo.
Era una stanza dal soffitto basso e dall'odore vomitevole. Budella e intestini di animali macellati erano appesi al soffito, gocciolanti.
I sandali d'oro le si bagnarono di sangue, denso e scuro. In un angolo giaceva il resto del corpo della capra, con la lama che non aveva terminato di staccarle la coscia, conficcata in un tendine. Un grosso animale, un bovino, era invece già eviscerato. C'era il feto di un piccolo steso sul tavolo, probabilmente strappato al suo ventre.  Era noto che il Re Inī-Teshūb desiderasse i vitelli non ancora nati, ottimi per la sua dentatura malandata.
Al tatto, la carne conservava ancora il calore della vita. Tremando, e con il dolore al ginocchio che le annebbiava la mente, la giovane si rannicchiò all'interno della carcassa della madre, aderendo con la schiena alle costole. Si bagnò col sangue sulla veste d'oro e sulla pelle, così da nascondere la lucentezza del metallo prezioso. Nel grembo dell'animale si rannicchiò, stringendo al petto le ginocchia.
"Rinasco nel ventre di una bestia. Sangue e Carne", sibilò, prima di stringere i lembi di pelle tagliati e coprirsi con questi.
Sentiva il sangue colarle caldo e lento lungo la schiena. Sopra di lei, nella Sala principale del Palazzo, riecheggiavano urla e rumori terrificanti.
Non riuscì a trattenere le lacrime, mentre, lentamente, l'unica fiaccola presente nella stanza, moriva.

Buio.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: IreneZolea