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Autore: Pwhore    17/08/2012    3 recensioni
Quando Gerard aveva diciassette anni successe una cosa che gli cambiò la vita e gli sottrasse il ragazzo che amava più al mondo. Ora, a distanza di anni, decide di tornare indietro e scoprire cos'è successo effettivamente al ragazzo che tanto amava, scomparso in circostanze misteriose e dato per morto da tutta la comunità.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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combattere contro il passato (cap 10) Quella mattina mi svegliai presto, verso le otto e mezza circa, a causa della luce che filtrava insistentemente dalla tapparella sopra la scrivania, che il mio nuovo amico si era dimenticato di chiudere per bene.
Rimasi immobile con gli occhi chiusi, ancora lievemente intorpidito dal sonno e dai pensieri della nottata precedente, e mi godetti il silenzio, cosa che a casa mia mancava quasi sempre; schiusi le labbra in un sospiro rilassato e tranquillo e mi accinsi a sistemarmi le braccia dietro la testa, quando sfiorai con le mani un qualcosa di caldo affianco a me. Ancora istupidito dall'ora, sentii i muscoli paralizzarmisi, indurendosi fino a farmi male, e il mio respiro fermarsi per una manciata di secondi, prima che la razionalità avesse la meglio sulla sorpresa e mi costringesse a voltarmi verso quell'intruso, per capire almeno di chi o cosa si trattasse. Con mio grande stupore e compiacimento, Fin era rotolato giù dal suo letto ed era entrato nel mio, probabilmente senza neanche accorgersene, e ora giaceva addormentato a pochi centimetri dal mio volto, la bocca semiaperta e le sopracciglia scombinate, con un'aria che definire da angelo era dir poco. Lì per lì rimasi un attimo spiazzato dalla sua presenza - mi ero quasi dimenticato dove mi trovassi e perché, quindi ritrovarmelo accanto fu un vero shock - e dovetti spremermi le meningi per ricordarmi tutti i particolari del perché mi trovassi lì a quell'ora del mattino, ma alla fine ogni tassello trovò il giusto posto nella mia mente e mi rilassai, tornando a concentrarmi sul ragazzo. A dire il vero, il fatto che mi stesse dormendo accanto mi mandava parecchio su di giri ed ero a dir poco esagitato, ma in un modo o nell'altro riuscii a mantenere il controllo e comportarmi come se niente fosse, sistemandomi meglio sulla schiena e osservandolo come se in realtà fossi interessato a un particolare nascosto dietro di lui. Sembrava avvolto da un sonno profondo e rilassato, tipico di chi non ha niente da nascondere o di cui preoccuparsi, e non potei evitare di sentirmi un po' più sollevato, appuntandomi mentalmente la cosa e sperando che bastasse a portarlo a un passo più lontano dalla mia rosa dei sospettati. Il suo petto si alzava ed abbassava con una regolarità affascinante, così sincronizzai il ritmo del mio respiro con il suo e respirammo in contemporanea per una decina di secondi, mentre io, compiaciuto, sfoggiavo il gran sorriso ebete degli innamorati ancora pieni di speranze e tempo, convinti che niente di male possa capitar loro quando sono con il loro amore. Sospirai flebilmente e mi riempii gli occhi con la vista del suo volto, dai lineamenti dolci e tranquilli come quelli di un bambino che non ha alcuna intenzione di passare la vita a preoccuparsi per qualcosa 'da grandi', circondato dalla penombra e ringiovanito dalla calma che aleggiava nella stanza; e mi chiesi se qualcuno gli avesse già fatto notare quanto fosse bello mentre dormiva. Da sotto le palpebre, fini e rosee, riuscivo a scorgere i movimenti frenetici delle pupille, tipici di chiunque sogni, e per un attimo accarezzai l'idea che forse, molto forse, stava sognando me, e sorrisi, costringendomi poi a tornare alla realtà e realizzare che si trattava di un'ipotesi molto, ma molto remota, calcolando che ci eravamo conosciuti la sera prima.
«E che c'entra, tu ti sei innamorato di lui appena l'hai visto» chiosai tra me e me, zittendo la ragione per qualche tempo, pur sapendo che avevo, come al solito, torto, e che mi sarei presto pentito della mia scelta. Tornai a guardarlo e fui tentato dal passare una mano tra i suoi capelli, lunghi più o meno due centimetri e scuri come la pece, ma mi trattenni per paura di svegliarlo e mettermi nei guai. Tuttavia, l'idea del pizzicorìo che mi avrebbero provocato sul palmo della mano mi tornava in mente spesso, mentre immaginavo di poter sfiorare liberamente quella pelle candida e delicata, e tutte le volte mi trovavo a rabbrividire - non tanto perché la simulazione del mio corpo era fin troppo reale, ma perché toccare i capelli a qualcun altro era una cosa che facevano di solito i fidanzati, e la sola idea che un giorno avrei potuto stringerlo e baciarlo senza problemi... Be', siamo onesti, mi mandava completamente in un brodo di giuggiole. Così lo guardavo e lo riguardavo, senza stancarmi mai, e sospiravo tra me e me, ripetendomi le classiche cose da innamorati  rincretiniti da un'improvvisa sbandata, e mi divertivo a figurarmi la sua espressione quando si sarebbe svegliato. Già, perché doveva svegliarsi prima o poi.. Rabbrividii nel rendermi conto della cosa e tirai le lenzuola un po' più su, come a nascondere il mio cuore troppo agitato, e tornai a osservare l'altro con la coda dell'occhio, un po' più guardingo. Aspettai un'altra decina di minuti senza fare alcuna mossa, ma visto che il silenzio e la calma persistevano, presi possesso di tutto il mio coraggio e mi avvicinai ulteriormente a lui, mantenendo gli occhi chiusi e serrati in caso si fosse svegliato, e mi fermai quand'ero ormai in grado di sentire il soffio flebile del suo respiro che s'infrangeva contro le sue mani, accoccolate accanto al suo volto, riempiendomi la testa d'immagini e flash che erano una vera pugnalata alla schiena, calcolando la nostra vicinanza. Ma, come ci si può ben immaginare, l'unico bisogno che riuscivo a sentire e che potevo soddisfare senza espormi troppo e senza rischiare di mandare a monte l'intera operazione era stargli il più vicino possibile, ad ammirare la sua fine bellezza e contemplare le sue labbra perfettamente disegnate, così ben proporzionate rispetto al naso e al resto del viso. Nel suo piccolo, lo si poteva considerare come un'opera d'arte squisitamente lavorata, dove ogni minimo dettaglio era curato con pignoleria e ogni particolare era amplificato fino all'esasperazione, sempre dolce e piacevole, del suo aspetto fisico, così magro e pronto a scattare, dai muscoli normali e appena accennati; e ogni tassello del suo corpo sembrava esser stato posizionato con una minuziosità certosina, talmente pareva angelico il tutto che veniva a crearsi. Insomma, non si poteva certo dire che il ragazzo passasse inosservato davanti agli occhi della gente, e io, come ci si poteva ben immaginare, non facevo minimamente eccezione.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato da quando ero rotolato accanto al suo corpo, così non osavo muovermi o accennare al minimo spostamento di un singolo muscolo, terrorizzato dall'idea che potesse svegliarsi improvvisamente e privarmi di quel tanto piacevole spettacolo, così mi limitavo ad aspettare, in silenzio, che stendesse un braccio e mugolasse qualcosa, dando il buongiorno al mondo. Ci volle un po' prima che avvenisse, e in quella mezz'ora scarsa che prevenne l'evento ebbi tutto il tempo di riempirmi la testa di film mentali e avvenimenti altamente improbabili, nei quali non riuscivo però a smettere di sperare.
Si svegliò con un mormorio soddisfatto e uno stiracchiamento appena accennato, visto che dopo poche decine di centimetri il suo braccio si scontrò con il mio. Recitai la mia parte e mugolai qualcosa con fare leggermente seccato, tenendo sempre gli occhi chiusi e senza spostarmi minimamente, e aspettai di sentire la sua reazione. Sussultò e sgranò gli occhi, ma non si allontanò da me. Rimase immobile, a soppesare ogni azione possibile, si tirò il lenzuolo fino a metà guancia e si sistemò meglio sul fianco destro, senza fiatare o provare a spostarsi; al che intuii che neanche a lui dispiaceva tanto la mia presenza e mi rallegrai, intuendo che forse qualche speranza l'avevo eccome e che sarei riuscito a districarmi da quella situazione in maniera quasi decente se lui non si fosse rivelato colpevole o comunque coinvolto. Sorrisi tra me e me nel sentire il suo respiro sulla pelle, crogiolandomi in tutta quella positività, e accennai un movimento del braccio, a cui seguì poi uno sbadiglio. Aprii gli occhi e finsi che lo sguardo mi cadesse per puro caso verso di lui, che intanto mi guardava e mi sorrideva, pretendendo di essere ancora un po' intontito dal sonno, e sbattei lentamente le palpebre, ostentando la calma più completa e credibile che avessi, come se non avessi neanche capito bene la situazione. Lui non si preoccupò.
«Buongiorno» sussurrò, praticamente sulle mie labbra.
«Buongiorno» ribattei, energicamente e senza malizia. «Dormito bene?»
Annuì, leggermente imbarazzato, pensando che gli avessi appena lanciato una frecciatina sulla sua presenza nel mio letto, e si grattò il collo. «Scusa, tendo a muovermi parecchio di notte. Spero di non averti dato fastidio».
Solo allora mi resi conto della mia gaffe e mi lasciai arrossire.
«Nono, figurati, nessun fastidio» mi sbrigai a chiarire, «Non volevo fartelo pesare, anzi».
Non sembrò particolarmente convinto, ma sorrise. «Figura di merda» sillabò quindi a poca distanza da me, ridendo sotto i baffi. Sbuffai energicamente e mi sbattei una mano sulla faccia, affondando la nuca nel cuscino e sorridendo da sotto la mano. Lui si avvicinò più a me, sorreggendosi coi gomiti e sporgendosi ulteriormente verso il mio viso.
«Tu invece? Come hai dormito?» mi domandò, sorridendo divertito mentre spostavo la mano.
«Alla grande» risposi, alzando allegramente le sopracciglia.
«All'inizio avevo freddo, ma poi ci hai pensato tu» lo sfottei, sfidando il suo sguardo.
«Oh beh, non mi sembra che tu ti sia lamentato» ribatté lui, lasciandosi cadere verso il suo posto.
«Non mi sembra di aver detto che mi sia dispiaciuto» replicai, fingendomi improvvisamente noncurante e indifferente. Mi stavo spingendo oltre, ma anche lui non scherzava. Rimase in silenzio, con un sorriso compiaciuto appena accennato sulle labbra, ma mi sentii terribilmente come fuori posto e mi tolsi di dosso le lenzuola, tirandomi quindi a sedere. Mi guardò, parzialmente stupito, e aggrottò la fronte, cercando d'intuire le mie intenzioni.
«Fossimo in un film staremmo già scopando» dissi, alzandomi in piedi e stiracchiandomi sonoramente e tranquilla lentezza.
«Ma visto che sono una donnetta frigida, andrò a fare colazione» conclusi. Fin rise, tirandosi a sedere a sua volta, e si scrocchiò le ossa del collo, socchiudendo gli occhi e serrando la mascella.
«Credi di poter aspettare due minuti, donnetta?» mi punzecchiò con un'alzata di sopracciglia, alzandosi e recuperando una maglietta pulita dal cassetto più vicino a lui.
«Se vado di là profumando di te, Alicia ci sfotterà a vita» commentò, arricciando le labbra in un sorriso divertito. Si cambiò velocemente davanti ai miei occhi distanti, mentre rimanevo appoggiato con le spalle alla porta cercando di avvertire i passi della ragazza da qualche parte, e avvicinò spaventosamente il suo volto al mio, guardandomi negli occhi.
«Ai tuoi pantaloni ci pensiamo dopo, adesso andiamo» sussurrò, indicando il corridoio col capo.
Non colsi malizia nella sua voce, così appoggiai tranquillamente la mano sulla maniglia, girandola e uscendo dalla stanza, e mi ritrovai di fronte a un quadro enorme raffigurante un qualche antenato di notevole importanza, vestito in pieno stile vittoriano. Fin non ci fece neanche caso e proseguì dritto verso la cucina, così lo seguii e mi lasciai alle spalle quell'austera e inquietante finestra sul passato, dimenticandomene.

«'Giorno!» esordì, spalancando con forza la porta ed entrando in cucina con aria allegra.
«Ciao, ragazzi» ci salutò Alicia alzando gli occhi dal suo giornale, per poi afferrare una tazza di caffè.
«Dormito bene? Fin russa che è una meraviglia, avrei dovuto dirtelo» si scusò la ragazza unendo le spalle, sfottendolo pacatamente.
«Non ha russato per niente» sorrisi, «E comunque sarei andato a dormire nella vasca da bagno».
Mi beccai una spinta da parte del moro ma la ragazza sorrise, ridacchiando.
«Effettivamente non hai tutti i torti» ammise, scuotendo leggermente il capo e dando una lunga sorsata alla sua bibita nera, posando quindi la tazza sul bancone. «Probabilmente l'avrei fatto anch'io, se fossi stata nei tuoi panni» aggiunse, guardando allegramente Fin.
«Ma che vi siete alleati contro di me?» sbottò lui, fingendo di offendersi.
«Siete dei brutti calunniatori» ci accusò, scuotendo la testa con aria come di pietà.
Soppressi una risata e lo seguii verso la credenza, guardandomi attorno in quella stanza enorme e grondante di piccoli particolari. «La tazza di Buzz Lightyear è mia, poi fa pure come vuoi» mi avvertì lui, appropriandosi della sua amata tazza azzurra e andando ad aprire il frigorifero. Agguantai la prima tazza che mi passò davanti agli occhi e gli trotterellai nuovamente dietro, prendendo il latte che mi tendeva e rimanendo immobile ad aspettare ordini di qualunque tipo, spaesato.
«Mettilo a tavola, a fare il caffè ci penso io» disse lui, avvertendo il mio imbarazzo e sorridendone; accendendo il fuoco e tirando fuori del macinato. Mi diressi verso la mora e avvicinai una sedia al tavolo per il cuoco, poi ne presi una per me e mi ci sedetti su.
«Allora?» chiese quindi Alicia, dopo aver posato il giornale davanti a sé, incrociando le dita e posandoci sopra il mento con aria interessata, inclinando leggermente il capo.
«Allora cosa?» ribattei, inclinando anch'io la testa per vederla meglio. Lei rise.
«Com'è andata stanotte?» mi domandò. Scrollai le spalle, sorridendo.
«Bho, bene direi. Ho dormito bene, il materasso era comodo. E Fin si è addormentato subito».
«Giust'appunto» ribatté lei, come se lui non facesse altro.
«Si addormenta sempre prestissimo» mi spiegò, «oppure nei momenti più inopportuni».
Ripensai alla sua confessione della sera prima. «Effettivamente» ammisi, sorridendo.
«Secondo me lo fa apposta, sappilo» mi confidò sottovoce, guardandolo con la coda dell'occhio.
«È uno stronzo» rise. Si sentiva che lo diceva con affetto.
«Non trattarmelo troppo male, comunque» si raccomandò poi, riprendendo in mano la sua tazza di caffè e tornando a leggere il giornale. Non ebbi il coraggio o il tempo di chiederle meglio cosa intendeva, lui arrivò pochi secondi dopo. Bene o male, comunque, pensai di aver recepito il messaggio. Ed effettivamente non ci voleva molto.


«Columbia... Columbia...» la chiamò Ray, scuotendole dolcemente la spalla.
«Andiamo, è ora di alzarsi» insistette, percependo un guizzo insolito sotto le palpebre della ragazza.
«Mmh... ancora cinque minuti...» mugolò lei, portandosi una mano sulla fronte, gli occhi chiusi.
«Sai che non dipende da me» le ricordò il riccio, sedendosi meglio accanto a lei, sbadigliando.
«Hmm, vero. Ora mi alzo, dai» brontolò la ragazza, sbadigliando e tirandosi faticosamente a sedere, per poi strofinarsi i pugni contro gli occhi arrossati dal sonno e rivolgere tutte le sue attenzioni all'amico riccioluto, accoccolato davanti a lei.
«Successo qualcosa d'importante?» domandò. Ray scosse la testa con una smorfia di disappunto.
«Gerard ha lasciato le cuffie in camera ed è andato a fare colazione».
«Allora potevo dormire altri cinque minuti!» protestò lei, incrociando le braccia sul petto. Ray rise.
«No, non potevi. Le mie quattro ore di turno sono passate, ora tocca a te» ribatté, afferrando un cuscino e tastandolo con aria divertita, mentre la ragazza si alzava e si stiracchiava, cedendogli il posto controvoglia e con un grugnito.
«Non puoi restare un po' a farmi compagnia?» piagnucolò, facendo sporgere il labbro inferiore.
«Lo farei, credimi, ma sto leggermente morendo» si tirò fuori lui con un sorriso, le palpebre che ormai gli si chiudevano da sole. Columbia sospirò e lasciò perdere, prendendo posto alla sua postazione e abbassando un po' la luce del monitor per garantire all'amico un sonno più tranquillo e rilassato, e s'infilò le cuffie, rassegnata a ciò che l'aspettava. Quando si era proposta per il primo turno aveva avuto fortuna e aveva assistito alla cena, quando l'atmosfera era più allegra e sciolta, ma in quel momento tutto sembrava tacere e comunicarle un gran senso di pesantezza e monotonia, e la ragazza non ebbe problemi a immaginarsi perché l'amico avesse un'aria così profondamente estasiata quand'era venuto a svegliarla. Sembrava, anzi, che la fine del turno fosse la cosa più bella che gli fosse capitata negli ultimi tempi, talmente noioso si era rivelato stare appiccicato a uno schermo buio, dove tutto ciò che si vedeva era immobile e avvolto da una coperta di silenzio opprimente, e la riccia si trovò a deglutire, quando i primi dieci minuti furono passati. La stanza era piatta e sempre uguale, se non fosse stato per la luce che cominciava a farsi strada tra la persiana e il vetro, arrivando ad accarezzare la scrivania e, venti minuti dopo, i piedi del letto. La riccia si chiese che ore dovessero essere in quel momento e a che ora il sole sarebbe stato abbastanza luminoso da permetterle di distinguere le forme di tutti gli altri oggetti, ma dovette accantonare la domanda con una scrollata di spalle. In effetti, non aveva la minima idea di quando si levasse il sole o di quando tramontasse, quindi non poteva trovare neanche una risposta pienamente appagante, e girarci attorno non avrebbe fatto passare il tempo più in fretta.
Si trovò a desiderare che uno dei ragazzi si svegliasse e le portasse una tazza di caffè, nonostante sentisse benissimo la cadenza regolare con cui i due respiravano, e sospirò, annoiata, posando il mento sul dorso della mano con aria scocciata; e fu tentata per un attimo di prendere l'ipod e spararsi qualcosa di forte nelle orecchie, giusto per svegliarsi un altro po' e non rischiare di riaddormentarsi prima del tempo. Purtroppo, però, sapeva benissimo che limitarsi a osservare la scena senza l'audio equivaleva a non guardarla per niente, visto che metà delle informazioni andava persa, e non poteva permettersi il minimo sbaglio, specialmente uno così sciocco. Sospirò di nuovo, più sonoramente, e giocherellò un po' con il mouse, accarezzando con la freccetta i contorni dei vari mobili, e si sforzò d'immaginarsi qualcosa che non fosse la più completa e monotona oscurità, capace solo d'ispirarle una gran voglia di coricarsi e mandare a fanculo tutto, ma non ci riuscì così bene. Gerard non aveva inquadrato il letto, probabilmente apposta, e lei non era stata lì per sentire cosa si era detto con l'altro, sempre che si fossero parlati, quindi non aveva neanche qualcosa su cui rimuginare mentre aspettava il loro ritorno in camera. Sbuffò ancora. La missione procedeva molto più a rilento di quanto avesse previsto.


«Gerard» mi chiamò Fin, facendomi cenno di raggiungerlo con la mano. «Vieni un po' qua».
Rabbrividendo, mentre l'aria fresca mi accarezzava le gambe nude, trotterellai fino a lui e mi sedetti a poca distanza dalla sua postazione, socchiudendo gli occhi. Riaprendoli, notai che il paesaggio che si stagliava oltre la balaustra era spettacolare, per quanto consueto e familiare, e non potei evitare di sorridere, mentre il mio sguardo correva da un pino all'altro.
«È bello, vero?» mi domandò con aria sognante e inorgoglita, le gambe incrociate e le mani aggrappate al bordo del muretto di pietra. Annuii, rilassato.
«Non pensavo che il bosco fosse così grande» ammisi. Lui si voltò e mi sorrise premurosamente.
«Ora capisci perché non ti abbiamo lasciato andare?» chiese, distogliendo lo sguardo dal mio. Annuii di nuovo. Anche se l'idea di andarmene seriamente a zonzo nel cuore della notte non mi aveva mai davvero sfiorato la mente, avventurarmi in mezzo a tutta quella natura sarebbe stata una decisione davvero cretina, anche per un genio del mio calibro. 
«Sono felice di non essere andato ad ammazzarmi» convenni, arcuando le labbra.
«Anch'io» ribatté il moro, sovrappensiero. Mi voltai verso di lui e sorrisi dolcemente, senza arrossire.
«Beh, grazie» mormorai, e lui avvampò. Non si era reso conto di averlo detto fuori dalla sua testa.
«P-prego» biascicò imbarazzato, sforzandosi di non staccare lo sguardo dall'orizzonte.
«Dov'è casa tua?» mi chiese quindi, osservando la mia cittadina e cercando di capirlo da solo.
«È quella lì col tetto nerastro» dissi, mettendogli un braccio attorno alle spalle e indicandogliela col dito, portando il viso accanto al suo per avere la sua stessa visuale ed essere sicuro di non sbagliarmi un'altra volta. Lui strizzò gli occhi per vederci meglio e annuì.
«È lontana» osservò, mentre mi spostavo da lui.
«Vero» convenni, «Infatti devo partire tra poco se voglio arrivare prima di sera».
Mi guardò un po' deluso. «Immagino tu abbia ragione» commentò. Abbassò lo sguardo, rabbuiandosi un po', e mi sentii improvvisamente in colpa.
«Ci sei mai stato, giù in città?» domandai, cercando di cambiare discorso e farlo sorridere.
«No, mai» scosse la testa. Annuii e colsi la palla al balzo, allegro.
«Ti andrebbe di vederla con me?» gli chiesi. Lui sgranò un attimo gli occhi, girandosi verso di me, poi qualcosa gli tornò in mente e si rabbuiò di nuovo, mordendosi il labbro.
«Purtroppo non posso» sospirò.
«Non puoi? Come mai?» domandai, stupito.
«Ecco, diciamo che sono tipo in punizione» rispose, respirando a fondo.
«Oh. Beh, sarà per la prossima volta, allora» commentai. Lui non replicò e rimase in silenzio.
«Tutto bene?» chiesi, posandogli una mano sulla spalla.
«Sì sì, non ti preoccupare. Ho solo mangiato un po' troppo» sorrise, inumidendosi le labbra.
«È un bel posto, questo» mormorai, a disagio.
«Già... se non ci sei prigioniero» borbottò lui in un filo di voce, abbracciandosi le ginocchia.
«Come hai detto, scusa?» ripetei, aggrottando le sopracciglia e guardandolo.
«No, niente di che, tranquillo» sminuì il moro: «parlavo da solo».
Tacqui, osservandolo. Forse avevo capito male io.
«È da molto che vi siete trasferiti qui?» buttai lì, incapace di pensare ad altro.
«Due settimane, forse tre. Ramsey dice che abitavamo qui, prima di trasferirci a Newark». Tacque.
«Francamente, non me lo ricordo proprio» aggiunse, storcendo la bocca.
«Forse eri molto piccolo» supposi. Scrollò le spalle, come se non gli interessasse particolarmente.
«Bho, probabile. Tu abitavi qui, quand'eri un bambino?» domandò.
«Sì, andavo a scuola in quel grande edificio accanto alla chiesa». Gli indicai la struttura e lui si sporse in avanti per seguire la traiettoria del mio dito, appoggiandosi a me e socchiudendo gli occhi.
«Sembra bella» mormorò, facendo vacillare lo sguardo dalla chiesa alla scuola, pensieroso.
«Non particolarmente» scrollai le spalle. «Non è niente di speciale».
«Io non mi ricordo dove sono andato a scuola» mi confidò lui, staccandosi da me e abbracciandosi le ginocchia con aria malinconica, appoggiandovi sopra la testa con rassegnazione.
«Alicia dice che è perché evidentemente ho studiato a casa, ma non mi ricordo neanche quello. C'è un sacco di buio nella mia testa, e anche nella sua. Evidentemente abbiamo qualcosa che non funziona nel cervello, perché non è normale».
Lo guardai e mi rividi in lui, deglutendo, ma non dissi nulla.
«È strano come la mente umana faccia errori di questo tipo ma ci consenta di fare miliardi di cose assolutamente e categoricamente inutili, no? Poi uno ci si abitua, ovvio, ma non è carino non saper dire niente del proprio passato quando gli altri ti raccontano per filo e per segno della prima volta che hanno fatto qualsiasi cosa. Ti senti un po', come dire... diverso. E non sempre diverso è bello».
Sospirò, mordendosi le labbra, e socchiuse gli occhi.  «Per una volta vorrei essere uguale agli altri».
Mi sporsi in avanti e lo abbracciai con delicatezza, affondando il volto nella sua schiena. Sembrò vacillare per un attimo, poi riprese.
«A volte mi sembra che tutti si muovano per pietà. Non è una cosa bella da pensare o da provare, perché perdi fiducia in chiunque ti circondi, cominci a pensare che non c'è davvero qualcuno che ti ami con sincerità e che tutti i meccanismi attorno a te ruotino intorno al fatto che sei un povero ragazzino con un handicap alle spalle che non gli permette di vivere normalmente. Voglio dire, chi mai assumerebbe qualcuno che non ha memoria, qualcuno che non sa neanche se ha mai lavorato o commesso un delitto prima di compiere diciannove anni, qualcuno che sul piano scolastico-manuale sembra nato ieri? Non ho futuro, nessuna università mi accetterebbe mai e ci metterei troppo a rifare tutti gli anni del liceo e gli esami necessari, quindi non avrebbe neanche senso provare a ricominciare. Io... vorrei solo essere normale. Tutto qui».
Sbuffò mestamente, gli occhi ancora serrati, e lasciò che lo circondassi con le braccia in un abbraccio più solidale possibile, mentre i nostri muscoli s'irrigidivano e rilassavano in continuazione.
Avrei voluto dirgli che sapevo come si sentiva, che ci stavo passando anch'io, che mi trovavo nella sua stessa situazione e che non sapevo cosa fare, ma mantenni un briciolo di serietà e tacqui, pensando all'esito della missione prima che a un ulteriore avvicinamento tra me e il mio innamorato, e mantenni un po' di distacco. Mi limitai ad abbracciarlo forte, accarezzandogli i capelli, e a baciarlo sulla fronte.
«Andrà tutto bene, vedrai» gli sussurrai, passandogli una mano lungo la guancia, delicatamente.
«Alla fine si sistema sempre tutto, e sarà così anche per te».
«Cosa te lo fa pensare?» domandò, alzando gli occhi verso di me con aria affranta.
«Il fatto che non sei più solo a combattere. Ora ci sono anch'io, e ci sarò per sempre» lo tranquillizzai, guardandolo dritto nelle iridi color carbone. Sorrisi e anche lui abbozzò un sorriso.
«Io... Grazie, Gerard» si addolcì. Gli arruffai i capelli e scrollai le spalle con un 'di niente'.
«Devi proprio andartene?» mi chiese poi, malinconico. Sospirai.
«Sarebbe meglio di sì, mio padre potrebbe cominciare a preoccuparsi e quando torno a casa rischio di trovarmelo davanti alla porta, mezzo brillo e pronto a fare il diavolo a quattro immedesimandosi in un qualsiasi agente di polizia. Allora, boom, giù botte e addio uscite per mesi».
«E non puoi chiamarlo?» domandò, con una candidezza che non mi risparmiò un sorriso.
«Va bene, vuol dire che lo farò» annuii, addolcito dalla sua premura.
«Ma non ti obbligo mica, eh! Se vuoi partire parti pure» si affrettò a aggiungere lui, arrossendo e muovendo freneticamene le mani davanti al viso, formando una buffa croce. Non poteva certo immaginare che sua 'sorella' e i suoi occhi l'avessero già tradito da tempo. Sorrisi sotto i baffi e
scossi il capo, intenerito.
«Sta' tranquillo, non avevo comunque molta voglia di andarmene. Non prima di aver fatto una certa cosa, almeno» ribattei, tastandomi le cosce alla ricerca delle sigarette, abbandonate nella tasca dei vecchi jeans, ora abbandonati chissà dove.
«Che cosa?» domandò, cercando di non sembrare troppo incuriosito.
«Infilarmi un paio di pantaloni, innanzitutto» risposi, saltando giù dal muretto e aspettando che il moro seguisse il mio esempio, raggiungendomi davanti alla porta del terrazzo. «Poi si vedrà».

«Ehi Fin, non è che hai visto il mio cellulare?» domandai, frugando tra la mia roba e piegandomi in avanti per controllare se per caso fosse andato a cacciarsi sotto il letto, ma scoprendo che, per mia sfortuna, purtroppo non era lì. Mi rialzai, sbuffando, e mi grattai la testa.
«Eppure sono sicuro di averlo avuto in tasca quando sono arrivato» mi scervellai, confuso.
«Forse ti è caduto in bagno» propose il moro, alzandosi dal suo letto e andando a controllare. Attesi speranzoso, continuando a cercare nella sua camera, ma purtroppo dovetti arrendermi al fatto che non era da nessuna parte e che doveva essermi caduto da qualche altra parte.
«Niente» mi annunciò il ragazzo, rientrando nella stanza a mani vuote con una smorfia dispiaciuta.
«Prendi il mio e chiamati» tentò quindi, aprendo un cassetto e tirando fuori il suo, passandomelo. Lo ringraziai e composi velocemente il mio numero, portandomi il cellulare all'orecchio e aspettando che cominciasse a suonare, ma la segreteria telefonica mi avvisò che il mio apparecchio non era al momento raggiungibile e che avrei dovuto riprovare più tardi. Aggrottai la fronte.
«Allora?» domandò Fin, dondolando le gambe dalla brandina e guardandomi dal basso in alto.
«Ci sono punti in cui non prende, qui?» chiesi a mia volta, ridandogli il cellulare. Sembrò sorpreso.
«No, non penso. Alicia lo sa di sicuro, comunque, andiamo a chiamarla» disse, saltando giù dal letto e uscendo dalla stanza, aprendo tutte le porte che incontrammo sulla nostra strada. Mi parve di udire uno scalpiccio e aprii di colpo una porta, ma tutto ciò che trovai fu una stanza vuota e una finestra aperta, dalla quale mi sporsi senza vedere nulla.
«Qualcosa che non va?» domandò Fin, tornando sui suoi passi per raggiungermi.
«No, pensavo di aver sentito dei passi ma evidentemente me li sono immaginati» risposi, chiudendo la finestra e serrandola col fermo, per poi voltarmi verso il moro con un gran sorriso.
«Oh. Sì, effettivamente questa casa è parecchio strana. Ogni tanto si sentono cose che non ci sono». Sorrise. «È abbastanza inquietante, se ci pensi; ma per il resto va benone». Annuii e ci sorridemmo a vicenda, poi lui uscì in corridoio e io lo seguii. Improvvisamente mi sembrò tutto un po' più cupo, così cercai di stare più vicino al ragazzo, a cui la cosa non parve dispiacere poi così tanto, e aprii gli occhi il più possibile, sistemandomi meglio la cuffietta. Finalmente avevo potuto rivestirmi e far ripartire il piano, dopo aver passato un'ora circa a non pensare ad altro, e dovetti ammettere che sapendo che i miei amici stavano vegliando su di me mi sentivo decisamente più al sicuro, tanto da staccarmi un po' dal moro e rimanere leggermente indietro rispetto a lui.
I grandi quadri attaccati ai muri sembravano lanciarmi sguardi di austera minaccia da dietro degli occhietti piccoli e socchiusi, man mano che rallentavo il passo per osservare meglio ciò che mi circondava, e la cosa mi faceva accapponare la pelle di tanto in tanto; costringendomi a trotterellare di nuovo dietro al mio amico. Ogni volta che mi fermavo, sentivo posarsi su di me degli occhi che seguivano con insistenza ogni mio movimento e ogni mia mossa, quasi dovessero controllare che non mettessi niente a soqquadro, e fui più volte tentato dal chiedere al moro di fermarsi solo per poter curiosare in giro senza sentirmi un cacciatore di souvenir sulla scena di un delitto, ma per mia fortuna avevo ancora un po' di pudore, così tacqui e feci finta di niente. L'immaginazione può creare e poi dar vita alle peggiori paure, ed ero più che certo che quella sensazione di malessere fosse causata solo dalle parole di Fin e dalla mia eccessiva mania di persecuzione, quindi non c'era nulla di cui allarmarmi o spaventarmi: nel peggiore dei casi mi sarebbe caduto un ragno in testa o una falena avrebbe cominciato a ronzarmi attorno. Insomma, viva la paranoia.
«Gerard? Ehi?». Scossi la testa con un sobbalzo e mi voltai verso destra, trovando il moro che mi guardava con aria preoccupata. «Tutto okay?» domandò, avvicinandomisi aggrottando la fronte.
«Sì sì, stavo guardando questo.. questo.. coso» guardai meglio il coso, imbarazzato per la mia definizione, e lo presi in mano, tastandolo coi polpastrelli con aria interessata. Era fatto di ceramica bianca e sembrava piuttosto antico, ricoperto com'era di decorazioni in rosa, verde chiaro e azzurro, ma non riuscivo a capire cosa potesse essere. La sua forma ricordava quella di una zuccheriera d'altri tempi, ma se così fosse, che diavolo ci faceva su un tavolino a metà del corridoio?
«Oh, quello. Ci siamo sempre chiesti cosa significasse» disse Fin con noncuranza e sporgendo il labbro inferiore in avanti, alzando ed abbassando le spalle, osservandomi mentre lo posavo.
«La casa era già arredata quando siamo arrivati noi. Alicia la trova inquietantissima, ma non ci è permesso spostare i mobili» m'informò, mentre ci rimettevamo in cammino e lanciavamo qualche occhiata alla miriade di oggetti e oggettini stipati sulle mensole o su piccoli tavolini di pesco, posti ai lati del grande corridoio dal pavimento marmoreo. Effettivamente, era inquietante.
«L'uomo che hai menzionato prima, Ramsey, è quello che... insomma...» provai a dire, imbarazzato.
«Che ci ha adottato? Sì, sì è lui; ed è anche quello che ha ereditato la casa. Cioè, credo che l'abbia ereditata. Lo spero per lui: se non fosse, avrebbe dei gusti davvero, davvero strani» storse la bocca con distacco, soppesando in mano una statuetta raffigurante un angelo che danzava spensierato.
«Capisco» mormorai, mentre lui rimetteva l'oggetto a posto.
«Andiamo avanti?» disse, indicando la fine della strada con un cenno del capo. «Mi pare di aver sentito un rumore da quella parte, probabilmente è la volta buona» cinguettò, improvvisamente allegro. Annuii e lo seguii di buon grado, senza più fermarmi, finché non raggiungemmo una grande porta di un legno chiaro e lavorato, dove il moro bussò. Aspettammo un paio di secondi e la ragazza venne ad aprire, con in mano una scopa e una paletta piena di polvere.
«Oh, ciao» ci salutò, posando gli attrezzi contro il muro. «Vi serve qualcosa?»
«Sai se ci sono punti in casa in cui il cellulare non prende?» domandò il moro, frettolosamente.
Alicia ci pensò su, mettendosi una mano davanti alla bocca, poi il suo volto s'illuminò di un'idea.
«Sì, vicino alla cantina non prende per niente» rispose. «Come mai lo chiedete? Non avete campo?»
Le spiegammo rapidamente che non trovavo più il mio telefono e che non riuscivamo a chiamarlo, e lei parve sinceramente stupita. Aggrottò la fronte e ci guardò, come se non capisse un punto.
«Ma scusate, non siamo mica stati in cantina ieri» ci fece notare.
Ci guardammo negli occhi e Fin sbiancò leggermente. «Dici che è tornato?»
«Tornato chi?» ribattei, senza capire. Alicia rimuginò un attimo e scrollò le spalle, arrendendosi.
«Potrebbe anche essere, non ne ho idea» si limitò a rispondere, ignorando la mia domanda.
«Se così fosse non dovreste proprio scendere in cantina» ci ricordò, riprendendo in mano paletta e scopa e tornando al suo lavoro, fischiettando un motivo molto più teso di quello di prima. Guardai il moro e lui ricambiò il mio sguardo, abbozzando un sorriso imbarazzato.
«Andiamo a fare un giro in giardino?» propose, scusandosi con gli occhi. Annuii, senza capirci nulla, e lo seguii ciecamente mentre lui attraversava di nuovo quel lungo e grottesco corridoio e si spicciava a raggiungere l'uscita, come se ci fosse qualcosa a corrergli alle spalle. Sbucammo in giardino dopo tre minuti circa e fummo accolti da un'inaspettata folata d'aria fresca, che accolsi con un gran senso di sollievo e un sorriso. Mi voltai a guardare il moro e lui abbassò lo sguardo, come se si sentisse colpevole di qualcosa di molto grave, e si morse il labbro, inquieto.
«Immagino che ti debba delle spiegazioni» mormorò con un sospiro, sedendosi sul muretto di pietra. «Vedi, devi sapere che non siamo soli in questa casa. Non lo siamo mai stati».




Nel frattempo, alla base i ragazzi cominciavano a svegliarsi e si preparavano a dare il cambio alla riccia, che ormai aveva smesso di annoiarsi a morte, e tiravano a sorte per chi sarebbe andato a comprare la colazione agli altri due, sacrificandosi.
«Ho capito, ho capito, ci vado io» sbuffò Ray, alzando le braccia in aria a mo' di sconfitta.
«Già che ci sono compro anche il pranzo» annunciò poi, frugando nello zaino alla ricerca del portafoglio e facendo una colletta tra i presenti per racimolare i soldi necessari, annotandosi gli ordini su un foglietto di carta e risalendo la scaletta ferruginosa fino al portellone.
«Sarò di ritorno fra un'oretta o giù di lì, state attente» si raccomandò, ricevendo come risposta un mucchio di 'lo sappiamo, lo sappiamo' e 'vedi di sbrigarti, sto morendo di fame', dopodiché tirò fuori le chiavi, aprì lo sportello di cemento e sgattaiolò fuori, richiudendoselo alle spalle. Columbia si alzò dalla sedia e andò a chiudere a chiave dall'interno, per essere sicura che nessuno avrebbe potuto sollevare il portellone, e tornò dall'amica, un po' più rilassata, lasciandosi cadere accanto a lei.
«Successo qualcosa d'interessante?» domandò la bionda, girandosi verso la riccia.
«Niente di che durante la prima ora e mezza, ma ora il roscio si è finalmente rimesso le cuffiette, quindi possiamo vedere qualcosa che non sia il buio e racimolare un po' più informazioni».
Si avvicinò allo schermo e indicò un punto nero col dito, voltando il viso verso l'altra, attenta.
«Qui non si vede niente perché la cuffia è rotta o sporca - non saprei quale delle due con certezza - ma puoi benissimo immaginarti cosa succede grazie alle altre parti» la informò, ritraendo il dito. Si rimise sulla sedia e unì le dita delle mani, intrecciandole fra loro con un sospiro appena accennato, e alzò lo sguardo al soffitto, pensierosa.
«Cosa ne pensi di questi due?» domandò, tornando a incrociare lo sguardo dell'amica.
«Non sembrano coinvolti, ma spesso l'apparenza inganna» commentò lei, storcendo la bocca.
«Il ragazzo, Fin, è innamorato perso di Gerard e sembra essere ricambiato, ma potrebbe benissimo star fingendo per attaccarlo alle spalle quando meno se lo aspetta. La ragazza, invece, non sembra particolarmente interessata al suo ospite da quando il 'fratello' ci ha messo gli occhi sopra, e passa poco tempo insieme ai due, ma non possiamo escludere che stia comunque tramando qualcosa contro di lui in gran segreto. Insomma, è ancora presto per dire qualsiasi cosa» aggiunse.
«Per ora non mi sbilancerei troppo, ma c'è qualcosa che mi puzza. Non ho mai visto questi due in giro, tantomeno camion dei traslochi o macchine non appartenenti alla cittadinanza parcheggiate vicino al bosco; e a meno che non abbiano amici giù in paese mi sembra assurdo. Anzi, anche se li avessero rimarrebbe comunque assurdo il fatto che nessuno li ha mai visti anche solo andare al supermercato a comprare qualcosa da mangiare, figuriamoci passeggiare tranquillamente per le vie. No, c'è qualcosa di troppo surreale in tutto questo per essere vero» ragionò, pensierosa.
«Neanche noi ci facciamo vedere parecchio, in paese» osservò la riccia.
«Vero, ma quando scendiamo non cerchiamo di non farci notare e ci fermiamo sempre a fare due chiacchiere con qualcuno. Senza contare che abbiamo sempre fatto di tutto per non farli insospettire di niente, che compriamo le nostre provviste al supermarket vicino al municipio e che ci capita di frequentare spesso i pub o i caffé, durante il pomeriggio, e che quindi non siamo immuni alla vita sociale e ai pettegolezzi della nostra città. Siamo figure non dico costanti, ma comunque presenti, non fantasmi che nessuno ha mai davvero notato in giro» ribatté la bionda.
«Un altro punto a nostro favore è il fatto che quando arriva qualcuno di nuovo in città non si parla d'altro per giorni, a volte anche per settimane, e di loro non ha parlato assolutamente nessuno. Mia madre è una pettegola di prima categoria, quindi sono sempre al corrente di quello che accade in città, e visto che muore dalla voglia di accasarmi con qualcuno dubito che si sarebbe lasciata sfuggire la possibilità di presentarmi al nuovo arrivato, che non sbandiera da tutte le parti di essere gay e che comunque non lo sembra per niente, quindi siamo a ben due stranezze. È tanto, se ci pensi, considerando che non abbiamo neanche passato tanto tempo ad ascoltarli e che non sappiamo quasi nulla di loro. Mi chiedo chi gli fornisca il cibo e come facciano con la spazzatura, con i vestiti, con le materie prime in generale e comunque con la claustrofobia, visto che ogni tanto tutti sentono il bisogno di fare una passeggiatina e uscire da casa. Eppure non mi sembra di averli mai visti in mezzo ai boschi, neanche per sbaglio, quindi se escono rimangono sempre vicino alle telecamere e alla recinzione, cosa che a lungo andare è un'altra stranezza. Quando si è appena arrivati è normale aver paura di perdersi, ma dopo un po' che si abita in un posto si possono benissimo comprare delle cartine o fare un'escursione, calcolando che qui il segnale c'è anche quasi ovunque e che non c'è neanche il rischio di rimanere isolati in una situazione di pericolo. Continuo a pensare che ci sia qualcosa che puzza in tutto questo, ma è meglio aspettare ancora un po' prima di confermare qualsiasi impressione e accusarli di aver attaccato James. Chissà, magari sono solo dei tipi un po' eccentrici che hanno paura della gente e si vergognano di scendere in paese perché sanno già che gli altri li sommergeranno di domande indiscrete». Scrollò le spalle e storse la bocca, senza staccare gli occhi dallo schermo, e sentì l'amica annuire, dopo aver sospirato.
«Speriamo bene» si limitò a commentare, scuotendo il capo.
«Aspetta!» la bloccò la bionda, acchiappandola per la manica della felpa.
«L'hai visto anche tu?» esclamò con foga, indicando col dito un punto sullo schermo. Columbia strizzò gli occhi per cercare di distinguere qualcosa, ma si arrese e scosse le spalle, rassegnata.
«A me sembra solo un brutto quadro» ammise, scoraggiando la bionda.
«Eppure potrei giurare di aver visto un guizzo nei suoi occhi...» s'insospettì quella, cercando d'ingrandire l'immagine e trovare un particolare che le provasse che non era pazza, ma gli occhi del dipinto erano perfettamente incollati dov'erano e non sembravano aver voglia di guardare qualcosa che non fosse un vecchio muro che osservavano da ormai parecchie generazioni. Lindsey sospirò.
«Probabilmente me lo sono immaginata» concluse, reingrandendo la visuale, che ora inquadrava di nuovo quella ragazzina magra, stavolta intenta a fare le pulizie, che tanto incuriosiva la bionda. Le stavano chiedendo se ci fosse un punto in cui il cellulare non prendesse o era lei che aveva sentito male? Tese le orecchie e aguzzò la vista, alzando il volume del video, e ricominciò a capire qualcosa grazie alla breve spiegazione che rivolsero alla mora, prima che lei li avvertisse che qualcuno era tornato e probabilmente si trovava in cantina, e che quindi dovevano starne alla larga. Si chiese perché ma nessuno dei due padroni di casa sembrò intenzionato a svelare il mistero, così si rassegnò e li seguì con lo sguardo lungo quell'inquietante corridoio di marmo, in cui i loro passi faticavano a non riecheggiare per tutta la villa, e si trovò a tirare pure lei un sospiro di sollievo quando i due sbucarono in un giardino a metà tra il curato e il selvatico. Il ragazzino sembrava teso e, sebbene ci si sforzasse, il roscio non faceva che inquadrare lui e il suo volto pallido, rendendo la tensione ancora più palpabile. Lindsey si sistemò meglio sulla sedia, alzò ancora un po' l'audio e inclinò leggermente il monitor, in modo da permettere anche all'amica di assistere, e fece correre lo sguardo da un volto all'altro, concentrandosi su ogni minimo scatto delle mani o ingrossamento delle vene del collo, segni naturali d'ansia, e cercò d'indovinare cosa c'era all'interno della mente del moro, visibilmente spaventato da qualcosa che lei e il roscio ignoravano. Fece per mettere la riccia al corrente di un'idea che le era venuta in mente ma fu preceduta dal ragazzo, che si sedette su un muretto di pietra a poca distanza dal roscio, cinse le mani, accarezzandosele, e abbassò gli occhi, prima di rialzarli e piazzarli, tremanti, sul viso del cameraman. Lindsey aggrottò la fronte e fece cenno a Columbia di avvicinarsi ancora, strizzando gli occhi, e rimase in silenzio finché lui non aprì nuovamente la bocca, intenzionato a spiegare qualcosa sulla misteriosa presenza in casa sua.
«Bingo» sussurrò la seconda ragazza, appoggiando una mano allo schienale della sedia con aria di vittoria, sporgendosi poi in avanti per ampliarsi la visuale. Lindsey collegò il monitor al lenzuolo accanto a loro e l'immagine venne prontamente proiettata anche lì, così la riccia poté staccarsi e trovarsi una sistemazione più comoda, con suo grande apprezzamento.
Il ragazzo aprì la bocca e la richiuse, serrando la mascella, e si portò una mano vicino all'orecchio, come se avesse tagliato da poco i capelli e non si fosse ancora liberato dal tic di portali lontano dal viso con un gesto secco, e deglutì, teso. Gerard non staccava gli occhi da lui.
«Vedi, devi sapere che non siamo soli in questa casa. Non lo siamo mai stati» cominciò, torturandosi le mani ed esitando prima di continuare, come se quell'argomento lo spaventasse più del normale.
«C-che intendi dire?» domandò il roscio, vacillando. Lindsey riusciva a sentire i battiti del suo cuore.
«Intendo dire che Ramsey è qui con noi
. O meglio, un altro Ramsey, uno cattivo, facilmente irritabile, uno molto più violento e secco, che non ha problemi a far male a qualcuno o a ferirlo verbalmente e che per qualche strano motivo è avverso a gran parte della popolazione del tuo paesino. Per questo non posso andarci, mi ucciderebbe di botte» sputò fuori, spaventato.
«Ma se tu sarai discreto lo sarà pure lui e non ci saranno problemi» si sbrigò ad aggiungere.
«Vedi, lui non è una persona cattiva, ha solo avuto un passato difficile e ha un modo tutto suo di conviverci e non venir sommerso dal dolore» disse poi a mo' di giustificazione, e il roscio deglutì.
«Se non ti spiace, vorrei andare a casa» mormorò in un sussurro strozzato. Fin sbatté le palpebre e incassò il colpo, assumendo un'espressione profondamente ferita.
«N-no, ti prego, ti giuro che non ti farà niente. Te lo giuro sul mio corpo, su Alicia, su mia madre, su qualunque cosa tu voglia, ma ti prego, non andare. Ti prego.. ti prego» lo supplicò con gli occhi, velati da una sottile patina di lacrime, e il roscio esitò, colto alla sprovvista.
Lindsey si voltò a guardare l'amica, gli occhi sgranati e le pupille dilatate dalla sorpresa.
«Prendi le pagine bianche, svelta» ordinò freneticamente, tornando ad occuparsi del video con il cuore a palla. Quel nome non le era nuovo, ma non riusciva a ricordarsi di chi si trattasse.
«Raltz, Ramgrhy, Ramprew, Ramset... Ramsey! Ecco, trovato» esclamò l'altra posandole il libro davanti agli occhi, sbattendolo con più forza di quanto volesse contro la scrivania e facendo sussultare la bionda, che lo consultò e sgranò gli occhi, impallidendo.
«Oddio, vuoi vedere che...» mormorò, saltando in piedi e correndo verso l'archivio. Spalancò il primo e il secondo cassetto e ci frugò dentro con fretta finché non trovò ciò che cercava, ritornando quindi al suo posto per mostrarlo alla riccia, soddisfatta. Lo lasciò cadere davanti al suo naso attonito.
«Guarda qui» cominciò, togliendo la polvere dal plico e aprendolo.
«L'annuario scolastico dei primi anni del liceo» si compiacque, facendo scorrere i polpastrelli lungo la prima pagina ingiallita e fermandoli alla fine della pagina, prima di cominciare a sfogliarle.
«Questa no, questa no, questa no, questa... questa sì, finalmente» gioì, fermandosi a contemplare una foto di media grandezza che riempiva forse metà dello spazio disponibile nella pagina, in cui qualche studente camminava lungo un corridoio lindo e immacolato e si fermava ad osservare un grande orologio nero, posto sopra l'aula 204. Doveva essere ora di lezione, perché il corridoio, di solito gremito di alunni di ogni età e nazionalità, era paurosamente vuoto e abbandonato a se stesso, se non fosse stato per la presenza di quei tre ragazzi e di un uomo dal mento aguzzo, che sembrava leggermente irritato dal loro ciondolare senza meta.
«Bingo» esultò la ragazza soddisfatta, battendo il dito contro la figura solitaria del bidello.
«Abbiamo il nostro uomo» annunciò all'amica, godendosi la sua aria stupita e compiaciuta.
«E abbiamo anche un movente per l'assassinio» aggiunse, lasciando la riccia completamente sbalordita. Sorrise fra se, segretamente fiera della sua intelligenza, e ritornò a sfogliare il fascicolo con attenzione, mentre l'altra, visibilmente spiazzata, cercava di concentrarsi sul video.
Ma diavolo, avevano finalmente un vero sospettato, e con pure un movente!
Columbia si fermò, togliendo le mani dalla tastiera. Doveva assolutamente avvertire Ray.



Angolo dell'autrice: So che questo capitolo non ha svelato molte cose e che non è neanche particolarmente accattivante, ma non so mai quando scrivo troppo e quando troppo poco, quindi è un po' un casino per me regolarmi. Scusate cwc
   
 
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