Di una cosa fu certa Grace, quando uscì con Elizabeth il martedì
successivo: doveva fare qualcosa per sapere cosa diamine passava per la mente
di quell’idiota di Jeremy Pherson.
Mentre si preparava per incontrare la sua amica, le venne da ridere
nel ripensare alla faccia che aveva fatto Denise quando lei e Jane le avevano
consegnato il famoso libro che tanto desiderava. La festeggiata aveva
spalancato occhi e bocca e aveva stretto il volumetto tra le mani, continuando
a ripetere che le due erano pazze, che non avrebbero dovuto spendere dei soldi
per lei e altre baggianate che lei e Jane avevano deliberatamente ignorato,
felici di averle potuto fare un bel regalo. La giornata era trascorsa
tranquillamente, Grace era stata invitata a mangiare la torta da loro e avevano
fatto un sacco di foto sceme in cui compariva anche il fidanzato di Denise.
Così Grace sorrise, mentre decideva che maglia indossare per
uscire. Infine optò per una t-shirt nera dei Manowar che una sua cara amica le
aveva dipinto, scrivendo sul davanti il nome della band, mentre nella parte
posteriore spiccava il titolo di una loro canzone, ossia ‘Loki God of Fire’.
Legò i capelli in una coda di cavallo, si passò i palmi delle mani
sui pantaloni in cotone nero, indosso un paio di infradito nere, lavò i denti
e, proprio in quel momento, il campanello suonò.
Corse ad aprire e si ritrovò di fronte un’Elizabeth sorridente,
vestita completamente di nero.
“Pronta?” le chiese l’amica.
Grace rispose: “Sì. Prendo la borsa.”
Intanto in casa – grazie al padre della ragazza – si diffondevano
le note di qualche canzone dei Dire Straits e Grace, mentre usciva,
canticchiava a bocca chiusa, sotto lo sguardo divertito della sua amica.
“Papà, io esco! Ciao!”
E le due si avviarono.
“Lizzie, devo assolutamente fare qualcosa!” sbottò Grace, cercando
di non gridare.
“Mmh?” disse l’altra, mentre sembrava essere appena caduta dalle
nuvole. Infatti, non era granché attenta al discorso della sua amica, impegnata
com’era ad infilarsi un orecchino. “Non ho fatto in tempo a metterli prima di
uscire, era tardi” spiegò, dopo aver finito.
“Tu sei pazza!” Grace rise. “Dicevo…”
“Ah, cos’è che vuoi fare?”
“Ecco. Devo assolutamente fare qualcosa. Jeremy Pherson non deve
passarla liscia!” grugnì.
“Sei fissata secondo me” osservò Elizabeth, sistemandosi la sua
borsetta Guess sulla spalla.
“Sì, certo, come no! Ti ricordo che venerdì, mentre tu eri impalata
a fissare i gelati, lui mi ha deliberatamente preso per i fondelli insieme ai
suoi amichetti!” gridò Grace, toccandosi istintivamente l’ematoma che pian
piano stava guarendo al centro della sua fronte.
“Ma fregatene.”
“Ah, Lizzie. Vedrai cosa gli faccio!” Detto questo, la ragazza
ghignò sadicamente e seguì l’amica verso il parco.
Prima di oltrepassare il cancello, Elizabeth si bloccò di botto e
si inchinò. “Ho trovato cinquanta centesimi, yeah!” esultò, sventolando la
monetina per aria.
Grace le scoppiò a ridere in faccia. “Sempre la solita fortunata!
Io di certo non ne posso trovare” borbottò, incrociando le braccia sul petto.
“Dai, andiamo!” incitò l’altra, trascinandola in direzione del
solito chiosco.
Grace si riscosse e si ricordò quello che aveva in mente di fare
con Jeremy Pherson.
Una volta in prossimità del bar, la ragazza notò una figura alta
dai capelli scuri che torreggiava vicino al bancone.
Era lui, doveva essere lui.
“Grace, cosa…” sibilò Elizabeth, vedendo la sua amica camminare a
passo spedito in direzione di quel ragazzo, imbufalita e colma di
determinazione. “Oh, no!” aggiunse, battendosi una mano sulla fronte.
“Ehilà!” disse Grace, fermandosi alle spalle di Jeremy.
Lui si voltò e sorrise. “Guarda un po’ chi si rivede. Ciao Gracie”
disse, scatenando la furia della ragazza. Gracie. L’aveva chiamata Gracie,
proprio come era solito fare quando erano piccoli. Eppure, se a quei tempi
prendeva con filosofia il fatto di essere appellata in quel modo orribile, ora
stava ribollendo di rabbia nel sentire la risata divertita di quel ragazzo,
mentre continuava a guardarla dall’alto del suo mentro e ottantacinque.
“Grace, si può sapere cosa ti pa…”
“Zitta!”
Elizabeth, che l’aveva raggiunta poco prima con l’intenzione di
calmarla, ammutolì sentendo il tono pressoché isterico di Grace.
“Jeremy, stammi bene a sentire! Non sopporto le persone come te,
quelle che ridono delle disgrazie altrui. Capito?” La voce della ragazza, mentre
pronunciava quelle semplici parole, si venò di una nota di disperazione, come
se ciò che aveva appena esternato fosse questione di vita o di morte.
E forse era proprio così.
Il ragazzo la guardò con un’espressione strana e indecifrabile, poi
rise. “No, sul serio, non sei cambiata di una virgola. Sempre la solita
permalosa!”
“Permalosa io? Sei tu che sei ambiguo, proprio com’eri anni fa!”
Grace era fuori di sé e non le importava minimamente che qualcuno potesse
sentirla mentre sbraitava.
“Ah, Gracie! Datti una calmata, su. Te la prendi per niente.”
“Non me la sto prendendo per niente, Jeremy! Ho per caso scelto io
di non vedere quel dannatissimo palo?” Mentra parlava, calde lacrime avevano
preso a scenderle lungo le guance. In quel momento si rese conto che era stato
il fatto che lui l’avesse derisa ad averla ferita, non l’‘incidente’ in sé.
“Grace, calmati!” le disse Elizabeth, afferrandola per un braccio.
Jeremy si fece improvvisamente serio e rimase immobile a fissare
Grace.
La ragazza si passò le mani sulle guance e si asciugò le lacrime,
mentre nella sua mente fece capolino il pensiero che quel pianto le avesse
sporcato gli occhiali; poi sollevò nuovamente il viso. Fissò il ragazzo di
fronte a lei ma non gli parlò. Infatti, si rivolse alla sua amica. “Andiamo a
comprarci un gelato, Lizzie. Ti va?” E si voltò per sorriderle. O almeno ci
provò, poiché il risultato fu un debole piegamento degli angoli della bocca
all’insù.
Elizabeth spostò il suo sguardo da Grace a Jeremy, come se stesse
cercando di capire se tutto quel disastro fosse accaduto sul serio o se fosse
il caso che visitasse uno specialista a causa delle allucinazioni.
“Lizzie?”
“Eh? Ah, sì, ehm…” La ragazza parve cadere ancora una volta dalle
nuvole. Quel giorno sembrava avere la testa da un’altra parte.
“Andiamo?” ripeté Grace, spazientita. Voleva andarsene il prima
possibile, lasciarsi Jeremy Pherson alle spalle, così come ciò che era appena
accaduto tra loro. Come poteva aver permesso a se stessa di commettere un
simile errore? Come poteva essersi lasciata andare alle lacrime proprio in
mezzo a tutte le persone che popolavano il parco?
Be’, non le importava. Voleva soltanto affogarsi con un gelato
enorme e sperare che un giorno avrebbe riso di tutta quell’intricata faccenda.
“Sì, sì! Allora, cosa prendi?”
Grace si avvicinò al bancone, superando deliberatamente il ragazzo
che fino a poco prima aveva fissato con odio. “Salve. Vorrei un cono maxi al
cioccolato” ordinò alla donna che aveva assistito inebetita al suo breve
scambio di battute con Jeremy.
“Perfetto” si riscosse la barista. “Altro?”
“Sì, per me una granita al limone” intervenne Elizabeth, frugando
nella Guess, per poi estrarre il borsellino.
Le due ragazze ricevettero le ordinazioni e se ne andarono,
lasciando Jeremy Pherson impalato e senza più niente da dire.
Si andarono a sedere al solito tavolino di plastica e presero a
consumare il loro ‘pasto’.
“Attenta Grace, ti sgo…”
Elizabeth non fece in tempo a finire di parlare, che un’enorme
goccia di cioccolato si schiantò contro la superfice rossastra del tavolo.
“Ops!” esclamò Grace, sorridendo all’idea che non si fosse
sporcata. “Lo sapevo, non avrei dovuto prendere il gelato sfuso” borbottò,
cercando di tirar fuori dalla borsa qualcosa che potesse assorbire la macchia
di gelato. “Mi aiuti?” domandò, rivolgendo un’occhiata ad Elizabeth.
“Sì, certo.” L’amica estrasse una confezione di salviette
umidificate e ne utilizzò una per ripulire il tavolo. “Ecco fatto!”
“Grazie.”
Tra le due ripiombò il silenzio.
“Ma come si è permesso di chiamarmi Gracie?”
Elizabeth sobbalzò sulla sedia, tossicchiando mentre la granita le
andava di traverso.
“Sì, Lizzie! Mi spieghi come ha potuto comportarsi così con me? E’
un emerito idiota!” proseguì Grace. Aveva appena finito di mangiare e si stava
occupando di passarsi una salvietta sulle mani e sul muso.
“Ma che ne so!” fece l’altra, tra un sussulto e l’altro.
“Che ti prende?”
“Mi è andata di traverso questa roba!” esclamò, indicando il
bicchiere di plastica in cui era contenuto il suo ghiaccio all’aroma di limone.
Grace rise e sprofondò sulla sedia. Aveva così tanta voglia di
uccidere Jeremy Pherson che quasi riusciva a percepire un formicolio sui
polpastrelli, proprio come accadeva quando la voglia di scrivere e buttar giù i
suoi pensieri e le sue idee prendeva il soppravvento.
Deveva resistere.
Non poteva permettersi di dargli alcuna soddisfazione, non ora che
lui l’aveva vista piangere e umiliarsi a quel modo. Alle volte aveva
l’impressione di essere aliena in quel mondo dove tutti credevano di sapere
cosa significasse essere limitati come lei, anche se in genere non se ne faceva
un problema. Eppure, si rese conto che era stato inevitabile far notare a quel
ragazzo che non aveva sbattuto sul palo perché era masochista, ma proprio
perché non lo aveva visto e non poteva farci proprio niente.
Grace si sistemò gli occhiali sul naso e notò che Elizabeth aveva
appena finito di bere la sua granita.
“Andiamo a passeggiare?” chiese Grace, controllando che tutti i
suoi averi fossero all’interno della borsa.
“Andiamo” acconsentì l’altra, alzandosi.
Le due si avviarono all’uscita del parco, mentre l’oscurità
cominciava ad avanzare e a rubare il posto della luce.
Poco prima che le due potessero oltrepassare il cancello di ferro
nero, Jeremy Pherson si parò di fronte a Grace.
“Ah!” gridò lei, balzando all’indietro. “Ti sei fumato il
cervello?”
Elizabeth rimase immobile ad elaborare la scena, con un’espressione
sorpresa dipinta sul viso rotondetto.
“No. Volevo soltanto parlare con te.”
“Ci siamo già detti tutto. Spostati, io e Lizzie dobbiamo andare.”
Grace avanzò, sperando vivamente di non inciampare.
“Ascolta, Gracie…”
“Non mi chiamare Gracie! E levati dalle palle, grazie.” Detto
questo, la ragazza lo oltrepassò e se ne andò.
Elizabeth la seguì a ruota, intimandole di aspettarla.
“Non posso aspettare, quel mentecatto ha oltrepassato ogni limite!”
“Sì ma calmati! Oggi non fai altro che sbraitare! Se ci pensi quel
ragazzo non ha fatto niente di male. Sei tu che ne stai facendo un affare di
stato, lasciatelo dire.”
Grace piantò i piedi a terra e si voltò. “Cosa? No! Insomma,
capisci che mi ha ferito il suo comportamento? Che bisogno aveva di prendermi
per il culo?”
Elizabeth si guardò intorno, allarmata. “Abbassa la voce, Grace,
per favore. E comunque sai che è fatto così, cosa vuoi farci? Sembra che la tua
vita dipenda da questa stronzata adesso!”
L’altra ragazza sospirò. “Non hai capito un cazzo.”
“Ah, no? A me pare che sia tu quella dura di comprendonio. Suvvia,
non c’è bisogno di scaldarsi tanto per qualche battutina” minimizzò Elizabeth,
esasperata.
“Senti, sono stanca di essere trattata come una menomata soltanto
perché ho un problema agli occhi! Sono così, e allora? Il mio cervello
funziona, pensa, elabora, ragiona, crea. Possibile che sia soltanto io ad
accorgermene? A questo punto mi chiedo se stia peccando di modestia.”
“No, Grace, anche io lo penso. Ma è proprio perché ti ritengo una
persona intelligente che ti dico che dovresti essere superiore a queste
provocazioni. Non parlo soltanto di Jeremy Pherson, ma in generale. Se avrai
ancora questo temperamento, guadagnerai poco e niente nel corso della tua vita.
Pensaci.” Elizabeth sbuffò. “Adesso andiamo, si sta facendo tardi.”
Le due ripresero a camminare.
Grace si era ammutolita, mentre il suo cervello snocciolava ogni
singola parola pronunciata dalla sua amica. Elizabeth aveva ragione. Non
avrebbe mai dovuto rispondere malamente a Jeremy, era certa che sarebbe bastato
ignorarlo o semplicemente lanciargli qualche frecciatina sarcastica per
rimetterlo al suo posto.
Eppure non ci aveva pensato, era stata così accecata dalla rabbia,
dalla frustrazione e dalla delusione, che aveva agito d’impulso,
infischiandosene di qualsiasi conseguenza annessa e connessa.
Il suo stomaco si contorse a causa di tutto il nervosismo che si
portava dentro.
Mentre salutava Elizabeth, che l’aveva accompagnata fino a casa
come al solito, si ritrovò a pensare che la aspettava una nottata difficile a
dialogare con il wc e i suoi sensi di colpa.