Titolo: Meant To Be
Pairing: Kurt/Blaine
Rating: Arancione
Spoiler: (se così si possono più chiamare ormai) fino alla 2x6,
accenni alla 2x8
Disclaimer: I personaggi e i luoghi citati sono di proprietà della
Fox. Quello che c’è di mio è solo la fantasia.
Nota: Un’infinità di scuse per il ritardo! So che avevo stimato di
postare questo capitolo entro luglio, ma ho sopravvalutato me stessa; dopo gli
esami e una settimana in vacanza (:D), credevo che scrivere non sarebbe stato
assolutamente un problema, anche se nel frattempo mi sarei dovuta togliere un
dente del giudizio. Diciamo che non è andata esattamente così… -.-
Un grande grazie va a Yuma_29, perché mi ha spronato a scrivere questo capitolo e postarlo prima che lei parta,
e un grazie va ai Barcelona e alle
loro “Please don’t go” e “Come back when you can”, che sono state di grande
ispirazione per questi due capitoli e credo anche per i prossimi a venire.
Spero che il capitolo vi piaccia e ringrazio ancora tutti quelli che
hanno commentato e quelli che hanno letto ^^
Meant To Be
Capitolo 2: Presentazioni
Quando la macchina di suo padre era diventata indistinguibile
all’orizzonte da ormai qualche minuto, Kurt aveva sospirato e se n’era tornato
in camera – la sua nuova camera – e
si era seduto sul letto. Senza neanche accorgersene, aveva passato ore a
fissare le pareti, memorizzando le increspature della carta da parati, per poi
passare alle venature del parquet e ai motivi del tappeto tra i due letti. Aveva
poi iniziato a girovagare per la stanza, sistemando le pieghe del copriletto,
spostando le foto che aveva sul comodino e riorganizzando le boccette di creme
per il viso e lozioni per il corpo; alla scrivania aveva controllato ancora una
volta se avesse portato tutti i libri e, confermato che sì, c’erano tutti, li
aveva poi sistemati sui ripiani della libreria.
Solo quando si fermò al centro della stanza senza più niente da
risistemare, spostare o riordinare, lasciò andare un lungo sospiro e chiuse gli
occhi.
Non voleva pensare a casa, a suo padre sulla strada per il ritorno, a
quando avrebbe varcato la soglia e Carol l’avrebbe salutato con un leggero
bacio sulla guancia, un “Sto preparando la cena. Che ne dici dei broccoli?” e
gli avrebbe rivolto uno sguardo affettuoso, quando l’unica risposta che Burt le
avrebbe dato sarebbe stato un grugnito.
Già, non voleva pensarci.
Riaprì gli occhi quando un raggio di sole gli scivolò sul viso. La
luce aranciata e tiepida del pomeriggio passava dallo spiraglio tra le tende e
Kurt si mosse per andarle a scostare e ammirare il panorama. C’erano molti
alberi, come aveva già visto dalle finestre al primo piano, ma cercò di non
fissarsi su quel particolare; anche quand’era piccolo non gli era mai piaciuto
andare in campeggio e in generale il contatto con la natura incolta e selvaggia
gli faceva storcere il naso. E, ora come ora, aveva già abbastanza motivi per
non farsi piacere la Dalton, non c’era bisogno di aggiungerne altri.
Così, strizzando gli occhi, osservò meglio il paesaggio, accomodandosi
sulla seduta imbottita della finestra. Notò che nell’angolo a destra riusciva a
scorgere parte del parcheggio per gli studenti che non alloggiavano a scuola e
in quello sinistro un sentiero che portava a un campo da football, forse, ma
non riusciva a vedere nulla oltre agli alti spalti. Sotto la propria finestra,
invece, c’era un giardino curato: il prato di un color verde brillante, l’erba
perfettamente tosata, le aiuole potate, ma non più in fiore. Ecco, questo
andava decisamente meglio: nessun insetto, né vermiciattolo, né foglie umidicce
e rattrappite.
Sospirò.
Tutto in questa scuola aveva un’aria antiquata, rigida e anche un po’
pomposa. Forse erano i pavimenti di marmo, le pareti affrescate – e quando non
lo erano, erano ricoperte da pannelli di legno – o forse i lampadari dorati che
pendevano dai soffitti; sapeva soltanto di sentirsi fuori posto, come se la
Dalton fosse un mondo troppo distante da lui.
Troppo distante da casa, pensò con una stretta bruciante al petto e subito
dopo si rimproverò quel pensiero. Doveva smetterla di essere egoista e pensare
solo a sé: suo padre- la sua famiglia aveva fatto molti sacrifici per
garantirgli un’istruzione migliore, una vita migliore! Anche se non era ciò che
voleva, anche se gli riusciva difficile essergli grato, doveva accettare i loro
sforzi e ignorare l’orgoglio e la parte di sé rimasta bambino, che non
desiderava altro che allungare la mano e afferrare quella di suo padre.
Un rumore alle sue spalle lo distolse dai suoi pensieri e lo fece voltare
di scatto verso la porta; sulla soglia stava il suo compagno di stanza, con
indosso la divisa blu navy della
scuola, la mano ancora stretta intorno alla maniglia della porta.
Kurt rimase seduto a fissarlo, le labbra dischiuse, i pensieri un caos
sotto shock. Per tutto il pomeriggio aveva evitato di pensare all’eventuale
arrivo del suo compagno e ora ne pagava le conseguenze; in quel momento non
sapeva cosa dire, cosa fare, come salutarlo.
Riuscì solo a seguirlo con lo sguardo mentre si muoveva all’interno
della stanza, avvicinandosi a lui, strizzando un po’ gli occhi per scorgerlo
meglio in controluce. Kurt sapeva che si sarebbe dovuto alzare, salutare
l’altro, magari stringergli la mano, o semplicemente spostarsi dalla luce
ambrata del tramonto, proveniente dalla finestra dietro di lui. Ma non ci
riusciva, non aveva il coraggio di alzarsi in piedi, perché… perché non poteva
essere vero.
“Kurt…”
Fu sentire il suo nome pronunciato a voce alta che fece scattare le
sue ginocchia come una molla. Si ritrovò in piedi, lo sguardo stupefatto fisso
sul viso dell’altro, che espressivo mostrava sì, stupore, ma anche felicità e
gentilezza.
“Sei tu,” bisbigliò il castano, la voce che gli tremava per lo sforzo
di far uscire le parole dalla gola, stretta in una morsa.
Non poteva essere vero, non poteva essere lui il suo compagno di
stanza, non poteva essere così fortunato. Ma l’altro gli stava sorridendo con
calore, gli occhi che danzavano per la stanza curiosi e pieni di gioia,
assorbendo tutti i cambiamenti apportati da Kurt.
Blaine.
“Non posso credere che tu sia davvero qui,” stava intanto dicendo il
moro, ormai arrivato a pochi passi da lui. “Quando il preside mi ha detto che
presto avrei avuto un compagno di stanza, ero contento, perché non vedevo l’ora
di avere qualcuno qui con me. Ma non avrei mai immaginato fossi tu,” pronunciò
le ultime parole molto lentamente, mentre il volto perdeva parte della sua
lucentezza, come se una nuvola ci fosse passata davanti. Fu un attimo, e in
quello dopo era già scomparsa.
“Sono davvero, davvero felice
che tu sia qui,” disse e gli occhi gli tornarono al lato della stanza ora
occupato da Kurt.
Kurt fece un piccolo sorriso, più di circostanza che veramente di
felicità. “Sono contento anch’io, anche se questo non me lo aspettavo neanche
io,” rispose con più calma, ora che l’iniziale momento di sorpresa e agitazione
era passato. “Voglio dire, immaginavo di vederti per i corridoi o a lezione, ma
qui,” continuò, facendo con la mano un gesto alla stanza. “Sono piuttosto
sorpreso.”
Blaine sorrise di nuovo e si mosse per andarsi a sedere alla finestra,
nel posto in cui Kurt non era stato che qualche secondo prima. Quando fu seduto,
lo sguardo gli cadde inevitabilmente sul tutore che Kurt portava al braccio.
Inevitabilmente, perché era proprio davanti ai suoi occhi. Kurt non cercò
neppure di nasconderlo, non aveva senso se avrebbero condiviso la stanza; anche
se non poteva evitare di sentirsi imbarazzato, come tutte le volte che qualcuno
lo fissava troppo a lungo. Blaine, almeno, lo fece discretamente, distogliendo
lo sguardo quando la sorpresa e la curiosità furono svanite e si rese conto di
fissarlo in silenzio. Alzò lo sguardo fino a incrociare il suo e lo sorprese
quando non gli pose nessuna domanda, ma gli fece solo un cenno col capo perché
si sedesse di fianco a lui. Cosa che Kurt si apprestò a fare con sollievo.
“Da quanto sei arrivato?” chiese e Kurt ebbe l’impressione che non ci
sarebbero stati momenti imbarazzanti o discorsi pesanti tra di loro quel
giorno: Blaine voleva semplicemente dargli il benvenuto alla Dalton con un
sorriso e una piacevole chiacchierata. Kurt non poté che essergliene grato.
“Non molto,” rispose e poi corrugò le sopracciglia. “In effetti non so
nemmeno che ora sia.”
“Ormai saranno le cinque. Vuoi fare un giro della scuola o al preside
piace ancora dare un tour completo?” scherzò.
Kurt ridacchiò. “Sì, gli piace ancora. Anche se ad essere sincero non
credo di aver ascoltato molto di quello che ha detto.”
Blaine annuì. “La Dalton può essere di per sé molto… intensa.”
“E immensa,” aggiunse Kurt. “Sono abbastanza sicuro che almeno per la
prima settimana mi perderò per andare da qui a lezione e da lezione in sala
pranzo.”
Fu Blaine a ridacchiare questa volta. “Non saresti né il primo né
l’ultimo,” disse, dandogli una leggera spallata, anche se, essendo Blaine
qualche centimetro più basso, fu il suo bicipite che colpi.
Kurt sorrise lievemente al gesto e sospirò.
Blaine era il suo compagno di stanza; Blaine, l’unico ragazzo che
conosceva alla Dalton, era anche quello con cui avrebbe passato la maggior
parte del tempo e non poteva che sentirsene rassicurato. Infatti, quasi gli
sembrò di sentire il proverbiale peso sullo stomaco sollevarsi alla
realizzazione che tutto sarebbe andato bene, che non ci sarebbero state
conversazioni forzate per conoscersi meglio, confessare che sì, era gay, e che
sperava non fosse un problema, preparandosi però all’inevitabile freddezza e
distanza che chiunque gli avrebbe riservato da quel momento in poi.
Con Blaine, invece, tutto sarebbe stato più semplice, perché già si
conoscevano - più o meno. Con lui era facile parlare di qualunque cosa e
ritrovarsi a confessare, inaspettatamente, segreti che sarebbe stato reticente
a condividere con qualcun altro. Senza riuscire a spiegarselo, Kurt sentiva che
Blaine avrebbe compreso i suoi stati d’animo meglio di chiunque altro, perché
già l’aveva fatto un’altra volta, quel giorno quando gli aveva chiesto se ci
fossero problemi alla sua vecchia scuola. E forse non era neppure il fatto che
fossero entrambi gay a farli essere così in sintonia, ma il semplice essere se
stessi.
Così rimasero a chiacchierare un altro po’ della scuola, dei corsi,
dei professori, dei club… E Kurt si rese conto che Blaine adorava la Dalton e
il bozzolo sicuro che offriva, e si ritrovò ad apprezzarla un po’ di più anche
lui, vedendola attraverso le sue parole, guardandolo gesticolare e gli occhi
brillare di entusiasmo.
“Dobbiamo andare assolutamente a dirlo a Wes e David,” esordì a un
certo punto il moro, alzandosi immediatamente in piedi. Poi, quasi ripensandoci,
si voltò verso Kurt e chiese, un po’ imbarazzato. “Ovviamente, solo se ti va.”
Kurt fu quasi sul punto di scusarsi e dire che li avrebbe salutati
un’altra volta, perché era stanco e si voleva riposare e non aveva voglia di
incontrare nessuno, davvero. Tuttavia, si ritrovò ad annuire, perché Wes e
David erano le uniche altre due persone che conosceva a scuola ed entrambi
sembravano abbastanza composti ed educati, specialmente Wes, quindi non credeva
che gli avrebbero rinfacciato di essere andato a spiarli. O almeno così sperava.
Percorsero il tragitto in silenzio e Kurt lasciò che Blaine lo
guidasse, senza neanche chiedere dove fosse il dormitorio per gli studenti
dell’ultimo anno: tempo due minuti e non se lo sarebbe più ricordato, trauma
cranico o meno.
Dopo aver voltato l’angolo di un altro corridoio, si fermarono davanti
alla seconda porta sulla destra. Blaine bussò, non prima, però, di avergli rivolto
un sorriso rassicurante e pochi istanti dopo la porta si aprì. Sulla soglia si
presentò la figura di David.
Kurt aveva incontrato il ragazzo solo una volta, per neanche più di
un’ora, ma si ricordava bene di lui: alto, pelle scura e occhi ancora più
scuri, sembrava il tipico liceale americano giocatore di football. Tuttavia, le
similitudini finivano lì e David era una delle persone più gentili che Kurt avesse
mai conosciuto. Quel pomeriggio, mesi prima, quando Blaine l’aveva sorpreso di
nuovo a scuola, David aveva cercato di metterlo subito a suo agio, col suo
sorriso bianchissimo e smagliante.
“Hey, David.”
“Blaine,” rispose l’altro con un cenno del capo. Il suo sguardo si
spostò poi su Kurt, che era rimasto fermo di fianco al moro, anche se qualche
passo più indietro.
“Kurt!” esclamò stupito. “Che sorpresa! Cosa ci fai qui?”
Kurt abbassò lo sguardo, un po’ incerto su cosa dire e in imbarazzo al
pensiero che David credesse fosse lì per spiarli ancora una volta. Tuttavia,
non ebbe il tempo di rispondere e farfugliare che no, non era lì per spiarli,
ma che si era trasferito veramente questa volta, perché David sembrò arrivarci
da solo.
“Non dirmi che sei tu il nuovo compagno di stanza di Blaine?” e per
cercare conferma gettò un’occhiata al moro che annuì, sorridendo.
Al cenno, David sembrò animarsi e uscì nel corridoio per avvicinarsi a
Kurt, che fissava sorpreso il sorriso genuino dell’altro, i denti bianchi e
perfetti come se li ricordava.
“Non sai quanto sono contento! Ero un po’ preoccupato dopo che te ne
sei andato,” disse, avvicinandosi. Kurt fece appena in tempo a ringraziarlo
prima che David gli stringesse la spalla in un gesto amichevole, e forse
accadde perché le sue mani erano davvero molto grandi, o forse perché aveva una
stretta decisa, ma Kurt non poté evitare d’irrigidirsi, diventando consapevole
fin nel più piccolo particolare della presa dell’altro, osservando attentamente
ogni minima espressione del viso.
La stretta non durò che pochi secondi, anche se Kurt riuscì a malapena
a trattenersi dallo scrollare le spalle e allontanarsi. Ma né David, né Blaine
sembravano essersi resi conto del suo disagio e lentamente riuscì a calmarsi,
ma fu più di tutto il sorriso aperto di David a fargli sciogliere il nodo
d’ansia allo stomaco.
Nonostante ciò, studiò con discrezione il volto dei due ragazzi, per
scrupolo, giusto per essere sicuro di non starsi sbagliando, ma nessuno dei due
sembrava fissarlo stranamente; anzi, Blaine non lo stava guardando affatto,
sorridendo verso David, che invece aveva continuato a parlare. E si sentì
immensamente sollevato.
“… I professori sono
eccezionali, ma secondo me il fiore all’occhiello della scuola sono gli
studenti stessi. Sono sinceramente convinto che le amicizie che si creano in
questa scuola dureranno tutta la vita, perché da nessun’altra parte troveresti
mai delle persone così gentili e disponibili, ma soprattutto sincere.”
Sebbene lo sguardo di David fosse onestamente sincero, Kurt non riuscì
a credere davvero alle sue parole, ma non lo contraddisse, sorridendogli
flebilmente di rimando, al che l’altro gli rispose con un sorriso ancora più
luccicante.
“Ah, certo, non sono tutti così,” aggiunse, come se avesse captato il
suo scetticismo, e lanciò uno sguardo d’intesa a Blaine, che scosse
semplicemente la testa. “Strada facendo ti daremo la lista degli ‘Inavvicinabili’.”
Anche Kurt rivolse uno sguardo a Blaine, ma il suo era più che altro
preoccupato. “Gli Inavvicinabili?” chiese.
Blaine scosse di nuovo il capo, come per dirgli che non era qualcosa
di cui si sarebbe dovuto preoccupare, ma David lo batté sul tempo, rispondendo
con faccia impassibile, “Figli di papà.”
Kurt fissò il ragazzo più grande sbattendo le ciglia, sorpreso dal
commento un po’ cattivello uscito da una persona gentile come David. Forse fu
per questo che ridacchiò e rispose, “Ci conto,” e l’altro ricambiò con un
ghigno complice.
“E’ quasi ora di cena,” disse allora Blaine, sorridendo anche lui,
sebbene pochi istanti prima sembrasse voler rimproverare l’amico. “Perché non
andiamo a chiamare Wes?”
Il tragitto questa volta fu breve. A quanto sembrava, la stanza di Wes
si trovava solo tre porte oltre a quella di David. Questa volta, quando Blaine
bussò, la porta si aprì immediatamente e Kurt si ritrovò a chiedersi se il
ragazzo stesse aspettando il loro arrivo. Tuttavia, Wes sembrò sorpreso di
trovarli lì e subito alzò la manica della giacca per guardare l’orologio.
“Mancano ancora dieci minuti alle sei. Non vi sembra un po’ presto per
andare a cena?” chiese, riportando lo sguardo sui tre ragazzi fermi sulla
soglia, e solo allora sembrò accorgersi di Kurt.
“Kurt,” disse, distendendo le labbra in un sorriso. “Che sorpresa
vederti di nuovo alla Dalton. Sei venuto a trovarci, finalmente?”
Il tono cordiale di Wes sorprese di nuovo Kurt, come la gentilezza di
David aveva fatto poco prima. Non riusciva a capire se i due stessero fingendo
di non ricordare le circostanze in cui si erano incontrati la prima volta,
oppure se fossero sinceramente gentili nei suoi confronti. O forse, rimuginò
infine tra sé e sé, magari aveva a che fare per la prima volta con delle
persone educate.
“Non esattamente,” rispose dopo qualche istante, stupito ancora all’idea
che Wes credesse fosse lì per una visita di cortesia. “In realtà mi sono
trasferito alla Dalton.”
Se il ragazzo fosse sorpreso dalla notizia, non lo diede a vedere.
Semplicemente gli sorrise, allungando la mano destra perché Kurt la stringesse.
“Buon per te. Benvenuto a bordo,” disse, e la stretta di mano non durò che un
secondo, tanto che, dal sollievo di non essere diventato una statua di sale un’altra volta, Kurt si ritrovò a
sorridere ai tre ragazzi.
Blaine sembrò poi ricordarsi di qualcosa e sbirciò all’interno della
stanza. “Lucas è rientrato?”
“No, credo sia ancora agli allenamenti di lacrosse,” rispose Wes.
Di comune accordo, decisero di andare in mensa, anche se era presto, e
strada facendo decisero di fare una deviazione per mostrare a Kurt, ancora una
volta, dove si trovavano le aule e i laboratori.
Mentre percorrevano i corridoi semi deserti, Kurt aveva seguito le
loro conversazioni senza prendervi parte, nonostante gli sforzi di Blaine.
C’era qualcosa che lo bloccava, un pensiero che gli dava noia, punzecchiandolo
fastidiosamente. Sentiva che, finché non avesse aperto la bocca e chiesto
quello che più gli premeva non sarebbe riuscito a essere se stesso. E doveva
ammetterlo, loro erano le uniche persone che conosceva alla Dalton e con cui
avrebbe mai fatto amicizia. Non poteva aspettare, doveva affrontare la
questione e mettere subito le cose in chiaro.
Fu per questo – e per una larga dose di testardaggine – che si fermò
nel bel mezzo del corridoio, richiamando subito l’attenzione degli altri
ragazzi.
“Sentite,” iniziò, e nonostante la sua voce non suonasse delle più
sicure, il suo sguardo lo era. “Vorrei chiedervi una cosa.”
I tre annuirono e Blaine fece qualche passo verso Kurt, cercando di
metterlo più a suo agio.
“Volevo chiedervi se fosse tutto a posto,” e allo sguardo
interrogativo di Wes si affrettò a continuare. “Per quanto riguarda… Per quella
volta che sono venuto a spiarvi.”
David fu il primo a reagire con una risata e un ampio sorriso, tale da
accentuargli le rughe agli angoli degli occhi, mentre Wes fece solo un cenno
col capo, tendendo leggermente gli angoli della bocca.
“Non ce l’abbiamo mai avuta con te per quello che è successo,” disse
Wes, col suo tono di voce da reporter, parlando velocemente e scandendo
perfettamente le parole. “Perciò, sì, è tutto a posto.”
Kurt sorrise, ma sul volto doveva aver mostrato la sua titubanza,
perché Blaine gli si fece ancora più vicino e sfregò con delicatezza la mano
sul braccio di Kurt in un gesto di conforto.
“Non ti devi preoccupare. E’ acqua passata, davvero,” disse, e Kurt
internamente sospirò quando finalmente il moro abbassò la mano. “E nessun altro
lo sa.”
A quelle parole Kurt sbatté le ciglia più volte, sinceramente
sorpreso. Fissò in viso Blaine, poi spostò lo sguardo su David e Wes e, se
possibile, fu ancora di più sorpreso nel costatare che erano sinceri, che
stavano dicendo la verità.
Ma perché non l’avevano detto a
nessuno? si chiese.
“Io e David, come membri del consiglio, non abbiamo ritenuto fosse
necessario informare i Warblers dell’accaduto,” disse Wes, il volto disteso in
un sorriso sincero. “Farlo avrebbe creato solo tensione e portato a un generale
livello di deconcentrazione; per non parlare delle assemblee straordinarie che i
Warblers avrebbero voluto convocare, cancellando di conseguenze le prove.”
Kurt inclinò la testa di lato, sopraffatto dallo sproloquio di Wes,
che invece non aveva sortito alcun effetto sugli altri due. In un angolo della
sua mente, Kurt si chiese se Wes facesse parte anche del club di dibattito, ma
quel pensiero svanì quando Kurt comprese il senso generale di quello che gli
era stato appena detto.
“Neanche io ho mai detto ai ragazzi del mio vecchio Glee club di
essere stato qui.”
Wes sembrò sinceramente sorpreso, dato il modo in cui sollevò le
sopracciglia.
“Come mai?” fu David a chiederlo, e anche lui sembrava sorpreso.
“Voglio dire, non era quello lo scopo?”
Kurt sospirò. “Sì, ma non era stata una mia idea sin dal principio,
perciò non dirglielo è stato un po’ per ripicca. Però,” cercò lo sguardo degli
altri ragazzi, assicurandosi di avere la loro attenzione, “non mi sembrava
giusto, specie poi quando siete stati così comprensivi nei miei confronti.”
Kurt sperò che gli altri cogliessero quel Grazie che non aveva pronunciato, ma che era sottinteso in ogni
singola parola; e a giudicare dai loro sorrisi e dai cenni del capo di
conferma, probabilmente l’avevano colto.
Quando arrivarono in mensa erano ormai le sei passate e alcuni
studenti avevano già preso posto ai tavoli di legno, disposti regolarmente per
file, l’uno a pochi passi dall’altro.
Mentre seguiva gli altri per mettersi in coda, Kurt si guardò in
torno. Il salone era ampio, illuminato da grandi vetrate e lucernai e nel
complesso aveva un’aria semplice e informale che mancava al resto della scuola
– anche se i pavimenti erano sempre in marmo e i lampadari dorati pendevano
comunque dal soffitto. Tuttavia, non era grande quanto la sala mensa del
McKinley, e per la prima volta, Kurt realizzò che, con molta probabilità, non
c’erano neanche altrettanti studenti, il che aveva senso, considerando che la
Dalton era una scuola privata. In un certo modo, quel pensiero lo rincuorò.
Un colpetto al braccio lo riportò alla realtà e vide Blaine
sorridergli e porgergli un menù plastificato, che Kurt accettò con occhi
sgranati. Ovviamente, gli studenti ormai lo conoscevano a memoria e forse non la
trovavano più neanche una cosa strana, ma Kurt non poté che meravigliarsi, e si
sentì quasi commosso nel costatare che almeno un giorno la settimana era
previsto pesce, e che c’erano talmente tante alternative di frutta e verdura da
fornire persino un menù alternativo per vegetariani. Certo, non che lui lo
fosse, ma questo voleva dire che non sarebbe stato costretto a mangiare cibo
spazzatura come nella sua veccia scuola.
Quando finalmente furono seduti, Wes gli presentò il tavolo dei
Warblers, al momento occupato solo da loro quattro, dato che la maggior parte
degli studenti non sarebbe arrivata prima delle sei e mezzo.
“Anche se non fai parte del club, puoi sempre unirti a noi come membro
onorario,” gli concesse David.
“Non saresti il primo,” aggiunse Wes, che sembrava più che altro
rassegnato all’idea.
Kurt non ebbe il tempo né di essere sorpreso dell’offerta, né di ringraziarli
per il gesto, perché fu interrotto da una voce, proveniente dalle sue spalle.
“Come mai a cena così presto, ‘stasera?”
Quando il castano si voltò, nel suo campo visivo comparve un ragazzo
biondo, alto e snello, i capelli scompigliati e senza divisa. Lo vide sorridere
a Wes e David, per poi chinarsi verso Blaine. Quando le sue labbra sfiorarono
la guancia del moro in un bacio affettuoso, Kurt sentì il sangue gelarsi nelle
vene e senza rendersene conto si distanziò dai due, scivolando sulla panca.
Di fretta si guardò attorno, per vedere quanti li avessero visti, e
quanti li stessero fissando torvi, magari pronti a lanciare qualche insulto, o
peggio. Il fatto che nessuno li stesse in effetti fissando non lo tranquillizzò,
né gli fece riprendere a respirare normalmente.
“… è il mio nuovo compagno di stanza. Kurt, questo è Lucas.”
Al suono del suo nome, Kurt si voltò verso il moro, che stava
sorridendo, tranquillo, mentre alle sue spalle il biondo allungò il braccio per
stringergli la mano.
“Kurt Hummel,” disse, in automatico, lanciando delle occhiate furtive
intorno. Di sfuggita colse il sorriso di David, mentre Wes aveva ripreso a
mangiare.
“Lucas Berkof,” rispose l’altro, lasciando la presa. “Spero che ti
troverai bene alla Dalton.”
Sbattendo più volte le palpebre, come gli capitava quando era
sorpreso, Kurt guardò con più attenzione gli studenti che erano seduti ai
tavoli vicino al loro. Nessuno li stava guardando. Nessuno gli stava prestando
attenzione.
Il sospiro che gli lasciò le labbra lo liberò anche dalla tensione e
quando si voltò verso Blaine, si ritrovò a sorridergli. Il moro ricambiò il
gesto, inclinando la testa, come per porgli una domanda, ma Kurt scosse
semplicemente il capo.
“E’ il tuo ragazzo?” chiese e Blaine annuì, come se fosse la cosa più
semplice del mondo da ammettere, e cinse con un braccio la vita del biondo,
come se non avesse niente di cui aver paura.
E probabilmente era così.
Blaine non aveva paura di mostrare il proprio affetto. Lucas era il
suo ragazzo, stavano insieme e non avevano paura di mostrarlo. E nessuno
sembrava infastidito, o contrariato, o schifato dai loro gesti, dall’affetto
palese in ognuno di essi.
Nella sua vecchia scuola, Kurt era tormentato per ciò che era, per ciò
che voleva e accettava di essere. E non lo andava sbandierando per i corridoi
che era gay; il fatto che si vestisse più alla moda dei normali adolescenti di
Lima non era un modo per palesare la sua omosessualità. Nonostante ciò, veniva
discriminato, insultato e picchiato, come se la sua sola esistenza fosse un
affronto personale.
Blaine era gay come lui. Anche lui era stato vittima di bullismo alla
sua vecchia scuola, ed era per questo che si era trasferito alla Dalton. Per
molto tempo, le parole che Blaine gli aveva confessato quel pomeriggio erano
state l’unico conforto, l’esistenza stessa di un ragazzo adolescente gay come
lui era stata di conforto; e ora Blaine aveva un ragazzo, i suoi amici ne erano
felici e quelli che non lo conoscevano non ne sembravano infastiditi o
oltraggiati. E questo era più che confortante. Era come aver scalato una
montagna ed esserne arrivati in cima. Era come aver raggiunto un traguardo.
La Dalton rappresentava quel traguardo. Per la prima volta, le parole
“nessun tipo di discriminazione” pronunciate da Wes avevano davvero un senso, e
non era più solamente astratto, ma tangibile, perché Kurt riusciva a sentirlo
in tutto ciò che lo circondava.
E per la prima volta, Kurt sentì di poter essere felice alla Dalton.
Note: Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se ci ho
impiegato un casino di tempo per postarlo. Ho cercato di non farlo
esageratamente lungo, ma inutilmente: è tale e quale al capitolo scorso.
Attendo solo le vostre reazioni ^^
Un bacio, Light