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Autore: Emozioni_di_penna    19/08/2012    0 recensioni
Lucia è una ragazza di soli vent'anni, eppure per uno strano caso del destino, ha vissuto qualcosa che l'ha sconvolta, che l'ha portata a fuggire verso Parigi, anche se con il sostegno di tutti.
È una fuga emotiva, un modo per reagire a quella sofferenza che da troppo si porta dentro.
Una miriade di riflessioni, anche sulle cose più piccole e inutili, eppure è l'unico modo per lei di affrontare qualcosa, all'ombra della Tour Eiffel e sulle Champs élysées.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO I

 

 

 

 

 

La partenza era avvenuta l’8 maggio, c’era un tempo orrendo e non ero neanche certa di partire.

Al solito avevo preparato i miei bagagli consapevole che al Check In avrei pagato qualcosa in aggiunta, per via dei chilogrammi in più, ma partivo per un mese intero e non potevo ridurmi con un solo bagaglio.

Mamma mi aveva accompagnata all'aeroporto e quella mattina - o meglio notte - c’era il solito via vai di persone che partivano e tornavano.

Con mia madre le partenze erano sempre un incubo, lo ammetto.

Se il check in era alle sei del mattino, lei alle due mi faceva svegliare, alle tre si partiva da casa, alle tre e quarantacinque si arrivava in aeroporto.

La sua paura frequente era arrivare tardi; il problema per me era arrivare troppo presto.

È sempre stata una donna alla moda, una persona che amava seguire le tendenze e con una passione sfrenata per le scarpe, specie quelle con i tacchi. Mi domandavo spesso come facesse a camminare su certi trampoli, poi con il tempo ho imparato anche io seppure non riesca a passeggiare con quelli troppo alti considerandoli trappole mortali.

Mia madre è una donna di mondo, una di quelle che la mattina s’alza e va in palestra, fissata con le diete e con la voglia d’avere la figlia con il fisico perfetto... Io sono stata su questo punto di vista, probabilmente, la sua delusione.

Non la ricorderò mai con un preciso colore di capelli: c’era l’anno del biondo, l’anno del rosso, l’anno del nero. Insomma, li provava tutti con le varie sfumature. C'era stato anche l'anno del biondo mischiato all'arancione, ma l'anno più brutto, indipendentemente dai capelli, era stato l'anno della permanente, ricordato da tante foto.

Mamma però è bella.

Anche quando litigo con lei o quando con papà se ne dicono di tutti i colori, resta bella.

Ho sempre detto che caratterialmente non vorrò mai somigliarle, in effetti tutt’ora non lo voglio, ma sulla bellezza non potrei lamentarmi.


La mattina della partenza tenevo nelle mani il mio bagaglio ingombrante con le rotelle: una valigia rossa con le cerniere argentate e un fazzoletto azzurro al manico. Mamma dice sempre di metterlo perché quando arrivi riconosci subito il tuo bagaglio e allo stesso tempo puoi andare in tachicardia se il tuo bagaglio non spunta.

In spalla avevo il mio zaino rosa, con troppe spille attaccate e un pupazzo a forma di coccinella che penzolava alla cerniera della tasca davanti.

Telefoni in tasca - sempre due - abiti comodi e la voce assillante di mia madre che non sembrava volerla smettere:

« Hai preso tutto? Il bancomat? I soldi? Certo potevi vestirti meglio. Hai visto? Meno male che siamo arrivate presto. Se davo retta a te, eri ancora a dormire. Quando arrivi chiama e se ci sono problemi fammi sapere»

Era preoccupata o forse la solita, non lo saprò mai.

Dopo un lungo check in - a quanto pare partivano tutti per Parigi - salutai mia madre con un bacio sulla guancia e un sorriso.

Un mese lontana da casa, da sola, in un città non del tutto sconosciuta. Ce la potevo fare.

 

Passare al metal detector è sempre stato un dramma.

Non so mai se suona o non suona... Al novantacinque percento suona.

Una volta dimenticai il cellulare nell’ultima tasca di un paio di pantaloni larghi, quelli che andavano di moda con le fantasie militari; non riuscivamo a trovare il problema, continuavo a suonare e non mi facevano passare finché, illuminata da una brillante idea, controllai le tasche in fondo – tanto in fondo da arrivare quasi alle scarpe – e vi trovai ben piazzato il telefono, la fonte del problema.

Una volta invece suonò una bottiglietta di profumo vuoto: un ricordo che rimase all’aeroporto.

Suona di tutto al metal detector e ogni volta vedo la gente e m’immagino i loro pensieri “E ora che cos’ho dimenticato?” Dopo esser passata e aver lasciato questa volta una bottiglietta d’acqua - dimentico sempre che non si può portare - oltrepassai quel mucchio di addetti per ritrovarmi nel mondo commerciale di un aeroporto.

Per una come me era l’attesa migliore... di solito.

 

Quella mattina era tutto chiuso, stavo odiando i negozianti che dormivano mentre io e altre persone eravamo costrette ad annoiarci prima dell'imbarco.

Andai al bar, quello era aperto.

C’era un ragazzo alla macchina del caffè, una donna in cassa. Lui avrà avuto la mia età, forse qualcuno di più, lei era sui quaranta.

Era una donna un po' robusta, con dei ricci rossi e le labbra piene di rossetto cremisi; le lentiggini non erano mai poche e una divisa a quadri scozzesi la vestiva.

Ero un po' in imbarazzo.

Sono piccola io, la mia altezza è un tabù, il fisico non è come quello di Kate Moss, né come quello di Monica Bellucci, il mio fisico... È il mio.

Non sono il tipo da “vorrei il fisico di...” , mi è stato dato questo e al massimo posso modellarlo per renderlo un po' più carino o evitare che peggiori.

Passai una mano tra i capelli rossi - rigorosamente tinti - e mostrai uno di quei sorrisi timidi, quello che meglio mi riesce.

Ordinai un latte macchiato freddo e basta.

Odio mangiare dolci al mattino ma non volevo imbarcarmi a stomaco vuoto.

La signora mi diede lo scontrino e andai al bancone.

Il ragazzo era un po' buffo, carino ma buffo. Aveva un cappello blu in testa, quelli che si creano anche con un foglio di carta, seguendo le istruzioni delle barchette, simili a quelli dei muratori.

Da bambina lo facevo spesso. Quando m’annoiavo a lezione prendevo un foglio dal centro del quaderno e creavo la barchetta o il cappellino, oppure quel gioco del quale non ricorderò mai il nome: consisteva nel piegare un foglio portando gli angoli al centro, si ripeteva poi l’operazione e si aprivano le parti sotto, si coloravano alcuni lati e sotto questi si scriveva una frase. Era un po' come un biscotto della fortuna, con un numero e un colore si poteva arrivare alla frase perfetta, un po' come nell'oroscopo, solo che giocandoci più volte, o si tentavano diverse possibilità oppure si giocava di memoria per far uscire la frase che si voleva.

Ero assorta nei miei pensieri e il barista per tre volte mi chiese che volevo. Gli diedi lo scontrino e mi scusai.

Era moro con i capelli lisci, uno di quelli che la mattina passa almeno venti minuti allo specchio a sistemarsi, lavandosi con il dopo barba e facendo concorrenza ad una donna.

Terminato il mio latte macchiato mi guardai intorno, assorta e annoiata, finché una voce dall’alto parlante c’informò in tutte le lingue che c’avrebbero fatto imbarcare con circa un’ora di ritardo. Nessuna novità in effetti.

Ho sempre pensato agli altoparlanti e a chi da voce a questi. Mi son sempre domandata perché quando parlano l’italiano è incomprensibile, l’inglese invece è ben scandito.

Io attendevo sempre l’inglese. Non lo parlavo bene, anzi, mi aiutavo con qualche film in lingua con i sottotitoli in Italiano, tuttavia di quel che dicevano in aeroporto mi bastava capire i numeri e qualche parola e il gioco era fatto.

 

Sedevo su una delle sedie di plastica in quella grande sala d’attesa, come fossi dal dottore aspettando il mio turno.

Guardavo tutte quelle sedie, chissà quanto costavano. Ogni tanto pensavo al costo di ogni cosa. È curioso come a seconda del materiale un oggetto possa variar di valore. Basta pensare ad un anello e un libro: un anello con un diamante ti costa quanto lo stipendio di tre mesi, minimo, un libro lo compri anche dopo una giornata di lavoro, eppure la gente è fissata e da più importanza spesso ad un oggetto con pietre preziose, piuttosto che ad uno che potrebbe accrescere la propria conoscenza. Un libro secondo me ha più valore.

Quando ne apri uno non sai come inizia la storia, non sai come finisce. In un anello non c’è tutto questo. Eppure, se uno riflette sull’oggetto, anche questo è un libro. Un anello d’epoca nasconde una storia, differente da un anello acquistato e regalato dopo un mese alla fidanzata, lì c’è solo la credenza che sia per sempre.

Nelle epoche passate era usanza sposarsi con chi aveva i soldi e poteva garantire una certa stabilità; credo che tutt’ora non sia cambiata la storia. Con il diamante l’amore è per sempre se dura in eterno il portafogli, svuotato quello si volta pagina. È il libro più triste del mondo.

Con me avevo portato qualche libro tuttavia speravo di aver un francese buono così da comprarne qualcuno nella Ville Lumière; Con me avevo qualche classico e le poesie di Baudelaire con “Les fleurs du mal” che trovo belle e soprattutto profonde, anche se mi domando spesso come si possa vivere così come ha fatto lui.

Volevo aprire il mio zaino, leggere, viaggiare già con la mente, ma vivere anche solo su quella sedia era snervante così m'alzai in piedi ed iniziai a muovermi verso uno di quei negozi che aprivano. Che piacere vedere le serrande alzarsi, i negozianti assonnati che accendevano le luci, le vetrine già illuminate riempirsi di riflessi: altri insieme a me osservavano questi negozi.

C'era un negozio di borse, ne aveva una molto bella. Era una di quelle pratiche, in stoffa con il disegno d'un gatto stampato davanti. Non era elegante anzi era sportiva con un unico difetto: non aveva la zip bensì il bottone calamitato.

Sono paranoica. Odio i bottoni calamitati. È una finta chiusura per la borsa, se qualcuno ti vuole rubare qualcosa infila le mani in un attimo e via, hai perso tutto.

Stavo per entrare, il prezzo non era elevato ma la voce all'altoparlante risuonò nel luogo.

Ovviamente non avevo capito l'Italiano, attesi l'inglese e mi mossi verso il gate per la partenza.

Quando bisogna imbarcarsi i controllori t'osservano sempre con uno sguardo saccente, con quell'aria da so tutto io e i loro modi un po' snob. Di solito le donne sono così.

Da donna quale sono ammetto che siamo un po' più fiscali rispetto agli uomini.

L'uomo al gate ti sorride, controlla il biglietto e la carta d'identità o passaporto e ti fa passare.

La donna invece no.

Abbiamo due categorie di donne: c'è la donna che ti sorride, la vedi dolce e senza magari leggere i pensieri capisci che è davvero carina e poi c'è la donna più sostenuta.

È quel tipo di persona che sembra ti stia facendo un favore a stare lì, che alla vista di una famiglia pensa “poveretti” o alla vista di una giovane pensa “tanto hai le gambe storte”.

Non mi piacciono le donne sostenute. Preferisco quelle gentili, con quel sorriso gioviale e la voglia di vivere.

 

Oltrepassato il gate ci fecero salire su una navetta: uno di quei pulmini gialli che dall'aeroporto ti trasportano all'aereo, attraverso le piste.

Il viaggio durò circa cinque minuti, quel mezzo era davvero lento.

Osservai le persone che avrebbero viaggiato con me. Controllavo sempre chi viaggiava con me: c'era il signore solitario, la banda d'amici con continue battute su ogni esponente del sesso femminile nell'arco di dieci metri, la famiglia con neonati e uomini di lavoro. Sugli aerei ci sono sempre le stesse persone, cambiano solo i nomi e l'aspetto fisico.

In quel dì io ero la ragazza che partiva, un patetico cliché.

Scesa dalla navetta con il mio zaino in spalla salii sull'aereo.

Appena sopra il mezzo volante controllai il biglietto per prendere il mio posto. Spensi subito i miei telefoni, presi l'mp3 e le cuffiette. Musica nelle orecchie e nulla più.

Sedetti al posto finestrino – ero stata fortunata – e subito guardai di fuori.

Adoro il posto al finestrino, ti consente di vedere tutto e nonostante l'altezza mi dia fastidio, sull'aereo non ho di certo problemi.

Accanto a me sedette un uomo piuttosto grasso, al suo fianco un ragazzo.

Quel ragazzo era davvero bello.

Uno di quei giovani con gli occhi chiari e i capelli scuri, la carnagione rosata e piuttosto asciutto nel fisico. Non ho mai amato i palestrati; vestiva in giacca e cravatta, probabilmente era uno di quei fortunati giovani con il posto del papà, tuttavia non gli negai un paio d'occhiate, giusto per ricordarmi di lui. Ero in vacanza e potevo.

Stavo per rilassarmi con la testa contro il mio bel sedile quando arrivarono le Hostess.

Ovviamente con i loro gesti indicavano le uscite di sicurezza, cosa fare in caso di disastri mentre la voce registrata parlava.

Sull'aereo penso sempre a due cose.

Mi domando sempre come facciano le Hostess a stare con i tacchi sull'aereo. Io credo che potrei rotolare per tutta la lunghezza del mezzo come se niente fosse, loro invece ci passeggiano come stessero sulla passerella di una sfilata d'alta moda.

Poi ci sono le uscite d'emergenza.

Ti spiegano tutto, ti dicono anche che se hai i tacchi li devi togliere prima di usare lo scivolo per cadere in mare, ti spiegano come usare la mascherina, i vari modi di fare: ho sempre pensato che in caso di tragedia altro non resta che pregare tutti i santi sperando che uno di loro sia libero e ti salvi.

 

Erano le otto circa quando l'aereo decollò.

Ero ancora Lucia Zarini, con i miei vent'anni e con la voglia di viaggiare per ritrovare una parte di me andata persa. Due ore sole e sarei stata a Parigi... tragedie e tacchi permettendo.

 
   
 
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