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Autore: Peeta97    19/08/2012    1 recensioni
Hadar, una Kalashtar dagli strani poteri psichici, incontra Gorgorot, un nano che nasconde un terribile segreto. Entrambi conoscono Shanaira, una principessa fatata fuggita dal suo regno per divenire una guerriera.
Dal loro incontro ha origine questa storia.
Leggete e recensite, se vi va ;)
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Eccoli. Mi inseguono. Fiamme di vecchi bracieri che risplendono nel chiarore del crepuscolo. Arranco nella neve, il gelo che mi penetra nelle ossa. Sento le loro voci colme d’odio che mi perseguitano. Sono sempre più vicini: per un istante, un solo, piccolissimo, istante, mi volto a guardarli, ed eccoli li. I miei inseguitori. I miei futuri boia.
Mi rendo conto che se non riuscirò a correre abbastanza in fretta sarò spacciato. Ma le ferite mi bruciano, e il ghiaccio, freddo sui piedi scalzi, non contribuisce certo. Inciampo nella neve fresca. Il mio piede vi sprofonda solo di qualche centimetro, ma è sufficiente. Mi sbilancio e casco. In un attimo mi sono addosso: li sento sghignazzare, ed immagino i loro sorrisi astiosi che si spalancano sul loro volto. Sono morto, penso. Mi colpiscono: le loro pedate fanno molto meno male della loro noncuranza. Perché mi fanno questo? Cosa ho fatto io di male? Non lo so, ma di sicuro le tenebre che in questo momento mi stanno appannando gli occhi non mi aiuteranno a scoprirlo…
 
Quando Hadar si svegliò, aveva freddo. Tremava, e i capelli viola si erano tutti increspati. Si stropicciò gli occhi, come per risvegliarsi da un sogno, ma, quando abbassò le mani, la neve era ancora li. La guardò, mentre tentava di far passare i brividi tremendi che la percuotevano. Aveva dormito per strada, ma, quando si era addormentata, la neve non c’era. E adesso doveva anche trovarsi un riparo. Si alzò, afferrò la borsa di cuoio marrone dalla quale non si separava mai e si avviò verso il centro della città, dove sperava di ricevere un po’ d’accoglienza.
Camminò per ore senza che nessuno la notasse, il gelo che penetrava attraverso i vestiti laceri. Cominciò a tossire, mentre la gola le faceva male: decise che non sarebbe rimasta un secondo di più in strada, così si avviò verso la prima locanda che vide. “Al Gatto Randagio”, si chiamava.
Non appena entrò, gli sguardi di disapprovazione quasi la schiacciarono con il loro peso, costringendola ad avanzare con la testa alta, in modo da non cogliere l’odio presente negli occhi dei clienti della locanda. Attraversò la sale e giunse dal barista. “Una camera” chiese.
“Non credo di avere stanze per quelli…della vostra razza” disse l’uomo, con i capelli unti che ricadevano sul volto grassoccio, incorniciato da un’espressione di disgusto.
Hadar strinse i pugni. Era vero, nel Mondo Conosciuto non c’era posto per quelli come lei. I Kalashtar, emigrati dal Reame dei Sogni, non avevano mai trovato riparo nelle altre terre. Erano sempre stati trattati come feccia, come menagrami. La ragazza scosse la testa, disperata. Aveva freddo, sete e fame, ed aveva anche le monete per pagare l’alloggio. Non poteva accettare di essere cacciata via così. Alzò lo sguardo e fissò gli occhi, di un blu profondissimo, in quelli del locandiere. Subito l’uomo emise un verso strozzato, mentre la forza psichica della kalashtar lo trascinava verso l’alto e lo sbatteva sulla parete. Il vecchio si accasciò a terra con un tonfo sordo. Hadar infilò le mani nella borsa, afferrò qualche moneta d’oro e gliela lanciò. Poi, utilizzando la sinuosa coda blu, afferrò il mazzo di chiavi appeso d un gancio sulla parete e scappò su per le scale. Trovò occupate tutte le stanze tranne l’ultima, la mansarda. Hadar decise che per quella notte quel costoso alloggio le sarebbe andato bene, ma sospettava che il locandiere non sarebbe stato tanto bendisposto nei suoi confronti, l’indomani. Si sistemò sopra un comodo giaciglio di corde e, in men che non si dica, si addormentò.
Fu svegliata da uno strano rumore, come se qualcuno stesse bussando alla porta. Ma alla porta non c’era nessuno. Spaventata, la ragazza si alzò, ancora con il freddo nelle ossa. Rabbrividì mentre si staccava dal calore irreale che avvolgeva il suo “letto improvvisato”, poi cominciò ad avanzare nell’oscurità della stanza. Per fortuna, i suoi occhi non avevano bisogno della luce per vedere, ma della mente: la kalashtar riusciva a distinguere perfettamente tutte le sagome degli oggetti che si trovavano nel sottotetto. Ma lo strano bussare continuava. Ci volle un po’, ma infine riuscì a individuare da dove proveniva il suono. L’armadio era orrendo, totalmente deturpato e divorato dai tarli. Sembrava quasi un guscio vuota lasciato li a marcire da anni ed anni. Hadar flette la coda squamoso un paio di volte, poi si fece coraggio e, seppur con difficoltà, aprì l’anta più intera dell’armadio. Non ebbe il tempo di scansarsi che una figura nera e lacera le piovve addosso.
 
 Quando Gorgorot si svegliò, tutto ciò che inizialmente vide fu l’oscurità. Per un lungo, piacevole istante, si credette morto. Ma poi sentì il cappio che aveva al collo e capì di essere ancora nel regno dei vivi. Tendendo le mani a fatica, si lacerò la manica destra della camicia, (praticamente l’unica ad essere rimasta intatta) provocando un’esplosione di luce che andò presto a ridimensionarsi sul suo braccio, trasformandosi in un luminoso disegno rappresentante un drago. Eccolo, era quello: il marchio che gli aveva portato così tanti guai, così tante calamità. Si guardò intorno: si trovava in un alto armadio, impiccato ad una delle due ante. Sentì qualcuno che si muoveva, all’esterno. Penò che doveva attirare la sua attenzione, farsi trovare. “male che vada, mi ucciderà…” si disse. Cominciò a bussare violentemente sulla porta, cercando di fare il più forte possibile. Sentì dei passi felpati che si avvicinavano, poi uno strano schiocco, come di una frusta. Qualcuno tirò le imposte dell’armadio, spalancandole. Gorgorot, ancora legato alla porta dell’armadio, venne trascinato in avanti, proprio addosso alla minuta figura che l’aveva salvato. Rovinarono entrambi a terra, finendo sul pavimento, che per poco non crollò sotto il loro peso. Il nano (perché questo gorgorot era), che era finito sopra la ragazza, si rialzò a fatica, il cappio ancora legato al collo. Si stava appunto stropicciando gli occhi, non ancora abituati al cambio di luce, che un indicibile dolore al mento lo fece trasalire. Aprì di scatto gli occhi. Seppur indistinta, vide la forma della sua salvatrice, il piede teso verso l’alto. “mi hai tirato un…” riuscì a sussurrare Gorgorot, allibito, prima che un'altra pedata lo raggiungesse dritto sul mento. “beccati questo”, gridò la ragazza. Il nano vacillò e cadde all’indietro, sbattendo la testa sul pavimento. Poi si accorse di ciò che la ragazza stava guardando sul suo corpo: il marchio, quel luminoso disegno draconico che l’aveva contraddistinto e diversificato dagli altri per tutta la vita. “No! Aspetta. Posso spiegarti tutto… se è per questo” gridò, indicando la sottile linea continua sul suo braccio.
“Ti ascolto”
In preda al terrore, il nano tentò di parlare, ma l’aria gli mancava. Un fiotto di sangue celeste gli scaturì dalla bocca, andando a finire sulla sua folta barba grigia. Poi si ricordò della corda che aveva attorno al collo. Il suo ultimo pensiero prima di svenire fu “Già. Perché non sono morto prima?”
 
 
“Già. Perché non è morto prima?” penso Hadar, mentre il tizio che aveva di fronte si accasciava al suolo sputando sangue. L’aveva preso a calci, è vero, ma, sul momento, mentre lui le era crollato addosso, non aveva proprio notato la corda che gli avvolgeva il collo. Poi aveva visto il marchio: quell’orrido simbolo che non aveva portato altro che distruzione alla terra e alla sua gente. Hadar non ricordava esattamente che cosa esso fosse, ma alla sua vista un terrore bestiale che non aveva mai conosciuto l’aveva invasa, costringendola a colpire l’uomo più e più volte. Adesso il nano giaceva ai suoi piedi, immerso in una pozza di sangue. La kalashtar gli aveva tolto il cappio, ma non era servito a molto: il tizio continuava a boccheggiare e a perdere liquido blu dalla bocca. Decise che doveva fare in modo che guarisse. Strappo quindi un lembo di stoffa dal suo mantello e lo avvolse al braccio nudo dell’uomo, in modo che coprisse il marchio, poi se lo issò in spalla ed uscì. Cercò di percorrere lo spazio che separava la mansarda dall’entrata della locanda nel minor tempo possibile, fingendo di non sentire i commenti sarcastici dei maniaci che la vedevano uscire con un nano svenuto e seminudo sulle spalle. Poi uscì.
Il freddo invernale le lambì la pelle la dove il mantello era stato lacerato. Una tormenta di neve stava infuriando, congelando ogni singola parte del corpo della ragazza. Pensò che, se mai fosse riuscita a raggiungere la casa del guaritore, lo avrebbe dovuto pagare, e così altri soldi se ne sarebbero volati via per cause di forza maggiore. Ma del resto, non poteva mica abbandonare quel povero straccione che aveva ritrovato impiccato dentro un armadio…
Hadar sentì una strana corrente d’aria che l’attraversava, una corrente stranamente calda e densa. Poi la sua borsa, come animata da una forza strana e invisibile, si staccò dalla sua spalla e tirò, come a volersi liberare del suo braccio per volare via. La ragazza tenne stretta l’unica cosa importante che ancora gli rimanesse. Lottò con le unghie e con i denti. Cadde a terra e venne trascinata per metri, la faccia immersa nella neve. Lasciò anche il nano, che rotolò qualche metro più in la. Poi la sacca smise di tirare e si adagiò nella neve. Ci fu un bagliore intenso, e infine una figura diafana, dagli occhi viola e lunghi capelli biondi le comparve davanti.
 “Eladrin. Dovevo immaginarlo…” sussurrò fra se, guardando la bellissima donna che le era comparsa davanti. Gli eladrin, i figli delle antiche fate, figuri dall’aspetto elfico capaci di trasformarsi in soffi di vento. Gli eladrin, le creature crudeli che dimoravano nell’antica selva fatata. Hadar pensava che doveva essere davvero raro trovarne uno in città. Specialmente uno che tentava di borseggiarti.
“Sono davver fortunata…” pensò tra se. Notò il soffice mantello azzurro avvolto attorno al corpo della eladrin. La ragazza sorrise “bene. Ti ucciderò e ti toglierò il mantello” sussurrò, rivolta alla nemica bionda.
“oh, non credo. Penso, invece, che sarai tu a perire sotto i miei colpi” fu la secca risposta.
“Oh, smettila di scherzare.” Esclamò Hadar, giusto un’attimo prima di scagliarsi all’attacco con il coltello. Contrariamente a ciò che la kalashtar si era aspettata, invece di tirare fuori qualche strano potere arcano, la eladrin sguainò due spade da ranger e le fece roteare, facendole scontrare contro il pugnale dell’avversaria. Ovviamente, il coltello ebbe la peggio.
Quando Hadar si ritrovò sdraiata a terra, il coltello perso nella neve, capì che era ora di fare sul serio. 




Allora, che ne pensate? Per piacere anche se vi ha fatto schifo, potreste scrivere due righe per dirmelo? Ci terrei particolarmente, perché questa storia è una delle mie preferite tra quelle che ho scritto. Nel caso, ringrazio anche solo chi la leggerà ;)
  
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