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Autore: MrEvilside    20/08/2012    6 recensioni
Loki di Asgard, con il vuoto negli occhi e la morte nel sorriso.
Quattro frammenti di cinquecento parole circa l'imprigionamento di Loki e la sua condanna.
[ III classificata al contest Oh Death! indetto da yuma92 ]
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Loki, Thor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The Last One Standing
 
Era immobile.
Non accennava un gesto da giorni ormai: rimaneva lì, in piedi a pochi passi dalla parete di fondo della cella, le braccia lungo i fianchi, polsi e caviglie stretti da ceppi tanto spessi che era sorprendente fosse ancora in grado di sollevarli.
Le sue vesti erano stracciate in più punti e la pelle che emergeva al di sotto, bianca come il marmo più puro, era chiazzata di lividi nerastri, di rosso scuro, laddove alcune delle innumerevoli ferite non si erano ancora rimarginate, e del giallastro malsano del pus che colava dai tagli infetti.
Il suo viso pallido ricordava una tela perfetta che un pittore maldestro avesse contaminato con delle pennellate del tutto casuali: del sangue quasi nero si era rappreso sulla tempia destra, solcata da un lungo taglio obliquo, e sulle guance, sul collo e sullo zigomo sinistro spiccavano ematomi violacei.
Gli occhi, infossati e cinti da aloni d’occhiaie, erano sfumati dal loro consueto verde smeraldo a un verde fosco, torbido, e chiunque vi guardasse dentro avrebbe rischiato di non trovare più la forza di riemergere.
Quegli occhi risucchiavano ogni cosa e al suo posto lasciavano il nulla, il vuoto più terrificante.
Le sentinelle a guardia della sua cella non osavano mai incrociare il suo sguardo e parlottavano tra loro circa la sua recalcitranza a cedere alla stanchezza.
Dopo un mese di reclusione nelle carceri di Asgard, la forza di volontà non bastava più e anche il prigioniero più testardo finiva con il cadere in ginocchio e rannicchiarsi in un angolo della cella, come un animale ferito che si lecchi le ferite.
Non lui.
Non si ribellava quando i suoi aguzzini lo portavano nella stanza delle torture, ma non permetteva loro di toccarlo e, nonostante a stento si reggesse in piedi, si costringeva a camminare senza aiuto. Non si sedeva, non dormiva, non sfiorava il pavimento della prigione se non con le suole degli stivali, nemmeno di ritorno dall’ennesima sessione di tortura, quando era così malfermo sulle gambe che le guardie scommettevano su quanto avrebbe impiegato a crollare svenuto.
L’unica cosa che piegava il suo orgoglio al punto da accettarla dalle mani dei suoi carcerieri era il cibo, ma persino nel nutrirsi conservava il contegno austero e regale di principe.
Alla fine nessuno aveva più osato scommettere su di lui e, nonostante il suo tradimento, le guardie avevano iniziato a nutrire un certo rispetto per la sua forza di volontà, invulnerabile ai tormenti della carne come a quelli della mente.
Non si avvicinavano né gli rivolgevano la parola, fedeli agli ordini del padre degli dei, ma di sottecchi lo osservavano con ammirazione. Talvolta lui intercettava le loro occhiate e d’istinto si ritraevano, sfuggivano al suo sguardo – persino i più anziani tra loro, veterani di molte battaglie, non avevano il coraggio di fronteggiarlo.
Allora lui manifestava un unico, orribile accenno d’espressione: per un attimo, un fuggevole attimo, increspava un angolo della bocca in un sorriso compiaciuto.
Loki di Asgard, con il vuoto negli occhi e la morte nel sorriso.
 
 
Talvolta, anziché condurlo nella sala delle torture, lo portavano in una stanza scarsamente illuminata, il cui mobilio consisteva in due sedie. Una era per lui, l’altra per un membro della sua famiglia – Frigga o Thor, Odino non aveva mai acconsentito a incontrarlo.
Quel giorno era Thor.
Mentre Frigga talora riusciva a penetrare la sua corazza di freddezza, il fratellastro non faceva altro che irritarlo o divertirlo con la sua ostinazione.
«Loki». Pronunciava il suo nome come fosse una preghiera, la voce profonda ridotta a un sussurro a fior di labbra, gli occhi azzurri grondanti disperazione e speranza che, finalmente, Loki tornasse da lui come un cane obbediente. Patetico. «Te ne prego, Loki, te ne prego, accetta di fare ammenda per i tuoi errori. Padre sarà misericordioso».
Il bastone e la carota, si ripeteva Loki quando sosteneva lo sguardo disperato del fratellastro, quando sua madre, in lacrime, lo supplicava.
Quegli incontri erano la carota, la ricompensa perché si era comportato bene, la promessa che, se avesse obbedito, la serenità lo attendeva al varco. Le torture erano il bastone, necessarie per ricordargli che aveva sbagliato e doveva essere punito.
«Se non lo farai, sarai condannato a morte».
Alla parola morte gli si spezzò la voce, risvegliando l’attenzione di Loki.
Era la prima volta che si faceva menzione di una sua possibile condanna e si domandò da quanto tempo Thor lo sapesse, da quanto tempo glielo tenessero nascosto, in attesa che il suo spirito venisse meno e lui si arrendesse a parlare, a piegarsi al loro volere.
Il fratellastro dovette cogliere nella sua espressione l’indignazione che aveva scatenato in lui, perché si morse un labbro e gli appoggiò ambo le mani sulle spalle.
Quel contatto inaspettato con i suoi lividi lo colpì come una frustata incandescente. Contrasse i muscoli delle braccia, in parte anche in reazione all’eccessiva, indesiderata prossimità di Thor, ma il suo volto rimase impenetrabilmente orgoglioso, il mento levato, la mascella tesa.
«Loki, per favore, torna. Torna da me, torna da nostra madre, da nostro padre» implorò, scrollandolo con forza, trascinato dall’impeto della sua supplica.
Ogni strattone gli provocava un tale dolore che un altro uomo avrebbe mugolato, lui al contrario era grato di quella sofferenza, che gli permetteva di distogliere l’attenzione dalla recita ridicola con cui il fratellastro si stava umiliando dinanzi a lui.
Poiché Loki appariva del tutto indifferente alle sue preghiere, Thor lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e dal suo petto si levò un sospiro così profondo da scuotergli il busto possente come il tuono di cui era il dio. «Rifletti sulle mie parole, fratello» mormorò, alzandosi dalla sedia con lentezza, quasi che d’improvviso la sua mole fosse troppo pesante da sostenere. «Nessuno di noi ti vuole morto. Siamo la tua famiglia».
Quando se ne fu andato, Loki rilassò i muscoli che non si era reso conto di avere contratto e chiuse gli occhi nel silenzio, sostituto della voce roboante del fratellastro.
Il bastone e la carota, mise a tacere il pezzo di sé che vacillava.
 
 
Odino aveva un aspetto terribile e maestoso insieme nella sua armatura scintillante. Il mantello scarlatto era drappeggiato con eleganza sulle sue spalle larghe, la spada pendeva dal suo fianco destro, protetta dal fodero di metallo intarsiato, e la barba candida era acconciata con cura nella tipica treccia di guerra degli asgardiani.
Non portava l’elmo, che era simbolo di combattimento, ma un laccio nero al polso, simbolo di lutto, da cui non si era mai separato dopo l’esilio del figlio più giovane.
Frigga aveva i capelli chiari acconciati in un magnifico chignon e un semplice abito di seta ocra avvolgeva la sua figura sottile. Affiancava il suo consorte e teneva una mano sul suo braccio, una statua di regale compostezza e supporto per il padre degli dei.
Poi Thor, l’erede al trono, si trovava alla destra del padre, rivestito della sua corazza più elegante, Mjolnir appeso alla vita e l’elmo sottobraccio. Di poco più alto di Odino, dava l’impressione di essere una guardia invincibile a protezione del signore di Asgard.
Infine Loki, il figlio bastardo, il figlio traditore, il figlio tanto amato – o almeno così avevano predicato nella stanza con due sedie, prima che le guardie lo riaccompagnassero in prigione – era ai piedi della scalinata d’oro che conduceva alla piattaforma dov’era riunita la famiglia reale, costretto di conseguenza a guardarli dal basso.
Alle sue spalle, il popolo di Asgard assisteva al processo in rispettoso silenzio.
«Loki di Asgard,» declamò Odino, la voce che echeggiava in ogni angolo della sala del trono «figlio di Odino—»
Per la prima volta dacché era stato riportato ad Asgard, Loki parlò. «Figlio di Laufey».
Un vociare concitato si diffuse tra gli spettatori a quella correzione sfacciata, ma si spense immediatamente quando Odino aggrottò la fronte in un’espressione cupa, incassando il colpo. «Figlio di Laufey,» riprese dopo un istante di immobilità glaciale «sei qui, oggi, al cospetto del re degli dei, per rispondere del tradimento perpetrato ai danni di Asgard e Midgard: dopo essere stato esiliato, hai marciato alla guida di un esercito con l’intento di conquistare Midgard e non hai obbedito al comando dell’erede di Asgard, che ti intimava di mettere da parte quel folle proposito. Come ti dichiari a riguardo?»
Loki inclinò il capo da un lato e gli scoccò un’occhiata di sfida, a testa alta e saldo sulle gambe, fiero dei lividi che deturpavano la prima e delle catene che legavano le seconde, emblemi della sua forza di volontà. «Colpevole».
Se Odino si era aspettato una risposta diversa, non lo diede a vedere. Non una sola emozione segnava il volto rugoso del padre degli dei, eppure appariva infinitamente vecchio, minuto e debole, ripiegato su se stesso come una foglia morta.
Frigga si sforzava di ostentare imperturbabilità, ma quando i suoi occhi si soffermavano sul figlio adottivo la sua espressione si frantumava; Thor era un monolite di tristezza e solennità.
«In virtù della mia autorità di sovrano di Asgard, io, Odino Borrson, ti condanno a morte per decapitazione, secondo le sacre leggi degli Æsir».
 
 
Le guardie che avevano il compito di scortarlo al patibolo si tenevano a trenta centimetri di distanza, non abbastanza per lasciargli spazio per fuggire, ma abbastanza per concedergli una certa intimità, per quel che permettevano le circostanze. Era il loro modo di dimostrargli il loro rispetto, non solo perché era un principe di Asgard, ma anche perché l’autorevolezza che emanava dalla sua figura – oltre alla storia della sua leggendaria prigionia – li spingeva a nutrire una deferenza istintiva nei suoi confronti, mista al timore per i suoi poteri magici e al disprezzo per i suoi crimini.
Loki sorrise, e per una volta non era un sorriso crudele, solo soddisfatto.
Non aveva ceduto e se ne sarebbe andato ossequiato. Come il re che avrebbe dovuto essere.
Quando mise piede sulla piattaforma dove l’attendeva il boia, egli gli fece un brusco cenno di inginocchiarsi, ma lui non si mosse.
Non si era inginocchiato in prigione, non l’avrebbe fatto ora. Non dinanzi all’intera popolazione asgardiana, non dinanzi a Thor, Odino e Frigga, che assistevano ai piedi della piattaforma, in prima fila.
Prima che una delle guardie o il carnefice stesso lo costringessero a obbedire all’ingiunzione, Loki levò entrambe le mani in segno di resa e osservò con fare diplomatico: «Tra le sacre leggi degli Æsir non è forse contemplato l’ultimo desiderio del condannato? Questo è il mio: consentitemi di morire in piedi».
Mentre l’attenzione si spostava su Odino, cui spettava il responso, Thor fu il primo ad agire, con estrema sorpresa di tutti, Loki compreso: affrontò in due sole falcate la breve scalinata che dava sul patibolo e si frappose tra il fratellastro e le guardie, Mjolnir minacciosamente sguainato, l’espressione di ferro.
«Chiunque osi avvicinarsi a mio fratello e mancare di rispetto al suo ultimo desiderio» scandì nel tono freddo e deciso di chi non si faccia scrupoli a uccidere, un tono che mai, mai prima Loki gli aveva sentito usare «dovrà assaggiare il mio martello».
La sua reazione imprevista gli guadagnò innumerevoli occhiate incredule e molte, anche, di sdegno e rabbia, ma, dal momento che Odino non fece cenno di volersi opporre, il boia si limitò ad annuire e a sollevare la spada, che disegnò un arco armonioso nel tagliare l’aria al di sopra del collo del condannato.
Questi dedicò il proprio ultimo sguardo al fratellastro. Uno sguardo gelido, ma screziato di qualcosa, qualcosa che somigliava terribilmente all’antico affetto che li legava.
«Grazie» esalò a fior di labbra, un istante prima che la lama calasse.
Thor non ebbe la forza di guardare mentre la testa rotolava via e il corpo, derubato della vita, si accasciava inerte al suolo. Cadde in ginocchio con un grido di dolore che riecheggiò ovunque nella piazza con la forza devastante del ruggito di una tempesta. O di un pianto.
Del tutto dimentico di trovarsi al cospetto dell’intera popolazione asgardiana, si coprì il volto con le mani e scoppiò a piangere, piegato in genuflessione ai piedi del cadavere di Loki.
Alla fine era stato Thor a inginocchiarsi per lui.
  
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