Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: Nezumi;
Karan
Altri
Personaggi: Shion; Rikiga;
Inukashi; ma sono piccole apparizioni
Rating: Giallo
In proposito: “Sono un topo, Karan-san”
si strinse nelle spalle Nezumi, con una risata
sottile e argentina che sapeva di sincerità. “Non posso
essere addomesticato. E la diffidenza fa parte della mia natura.
Tuttavia...”
Disclaimer: i personaggi sono di ; la situazione invece la
rivendico mia^^
Note:one-shot; missin moments; post-series
Cose: perchè ho adorato questo anime/manga/novels e perchè Nezumi è uno di quei
personaggi di cui puoi scrivere e scrivere senza mai arrivare al bandolo della
matassa. Perchè spero che un seguito, in futuro, ci
sarà.
Perchè, nonostante siano agli
estremi di Shion e fra loro costruiscano un rapporto
particolare fatto di poche essenziali sillabe, Nezumi
e Karan non interagiscono mai direttamente con
incisività. Ed è un peccato.
Allora ho deciso di farli incontrare.
All’inizio doveva essere una drabble; poi una flashfic. Si è
trasformata in una one-shot.
Con Nezumi immagino sia così: tu inizi, e poi è lui a
condurre il gioco. Per poi lasciarti lì con una frase delle sue e una risata
che non capisci proprio cosa voglia dirti. É snervante, questo ragazzo. Davvero
irritante.
Poi, ho mescolato un po’ gli avvenimenti di
Anime, Manga e Noveles, per cui la consequenzialità
degli eventi non è sempre rigorosa e rispettata e a volte potrebbe apparire,
forse, non dico contraddittoria, ma un po’ confusa.
Infine il titolo. Stray.
É la seconda volta che uso un titolo inglese, ma ha un suono più duro della
parola italiana randagio. Mi ricorda
lo stridio di un gesso sulla lavagna. E per Nezumi mi
sembrava più adatto. Cosa c’entra con la storia e l’incontro con Karan? Bhè: elaborate voi!
Stray
“Quella volta...”
“Huh?”
“No. Niente d’importante” sorrise Karan. “Mi sono solo ricordata di una cosa.”
C’era un profumo caldo di pane e zucchero sciolto. Un odore intenso, penetrante, ma per nulla fastidioso. Ricordava
una coperta, o il tepore di una fiammella vicino a mani congelate per il
freddo.
Un profumo così semplice, e così prezioso. L’odore che
ormai era parte di Karan, avvolto alla sua persona
insieme a quei modi gentili e al sorriso materno che le sfiorava sempre le
labbra. Anche Shion aveva un modo simile di
sorridere. Un accenno appena velato, senza scherno o sarcasmo. Una sfumatura
leggera che irradiava dagli occhi, scivolando come una carezza gentile per
tutto il viso.
Probabilmente Shion lo aveva ereditato
da sua madre, quel modo di sorridere. Ma la facilità
con cui lo mostrava, quell’imbarazzante disarmante semplicità era solo sua. Karan aveva un sorriso diverso, in fondo; il sorriso di un adulto, appropriato per ogni circostanza. Shion invece aveva solo un sorriso. Lo stesso sorriso,
aperto e disarmante, chiunque avesse di fronte.
“Quella notte” riprese Karan,
infornando una nuova teglia. “Quella notte di nove anni fa.
Hai presente?”
“Sì.”
La notte del tifone; la notte che
aveva cambiato tutto. La notte in cui lo aveva incontrato. Sì: la ricordava; la
ricordava vivida come se la stesse rivivendo in
quell’istante. Chiudendo gli occhi, avvertiva il vento e l’acqua sulla pelle e
quella sensazione di elettricità che percorreva l’aria. Risentiva il lamento
del MoonDrop mischiarsi al rimbombo cupo e furioso
dell’uragano e l’odore della terra riempire la bocca. Terra umida e fredda. Ma era un gusto così buono, così corposo.
Mosse la bocca quasi di riflesso: gli sembrava di
avvertirlo anche in quel momento. Un sapore che non aveva un reale sapore, in verità. Era un miscuglio di tante percezioni, e
gli era rimasto dentro come un residuo discreto e inaspettato. Qualcosa che non
avrebbe dovuto accadere; qualcosa che non avrebbe
dovuto assaggiare.
“Sì. É ovvio che ricordi. Che domanda sciocca” ridacchiò Karan,
sedendosi al tavolo. Aveva un’ombra di farina sui capelli raccolti, fra
la piccola frangia fermata dalle forcine e il fazzoletto che era solita indossare mentre lavorava. Una leggera patina bianca
che luccicava nella luce calda del tramonto, sfumando i capelli castani. Lisciò
il piccolo tovagliolo accanto alla tazza di tea. Non era imbarazzo; stava
riordinando i ricordi, cercando di afferrare quello sbuffo fugace di un attimo
che le aveva attraversato la mente. Forse l’odore del pane,
forse un gesto quotidiano. C’era stato qualcosa che aveva ritrascinato Karan indietro di
nove anni, ad una sera piena di pioggia, ad un’altra
casa, a un’altra vita. Un istante, e si era dissolto. Ma
per Karan quel fuggevole sprazzo sembrava avere i
contorni rassicuranti di un innocente segreto di bambina. L’aspetto
di poche parole da sussurrare, per scoprirle deliziose nella sola semplicità.
“Sai, quella notte” riprese,
avvolgendo la tazza fra le mani. “Quella notte mi ero sentita serena. Serena
come poche altre volte da quando abitavo a Kronos. Oserei quasi dire felice.”
“Perchè?”
“La torta.”
“La torta?”
“Sì. La torta di
ciliegie” rise di nuovo Karan, piegando appena di
lato il viso. La luce morente del sole spioveva obliqua fra i tetti di Lost Town, creando piccoli
riflessi negli occhi marroni di Karan. Anche gli
occhi di Shion avevano la stessa sfumatura: un colore
caldo, rassicurante. E si socchiudevano di tenero imbarazzo allo stesso modo,
con piccole rughe ai lati delle ciglia che li sfumavano.
“Shion ne aveva volute due fette
quella volta” continuò Karan.
“Due fette.”
“Esatto. Due fette” annuì Karan.
“É sempre stata la sua preferita. Ma erano anni che
non mangiava più di una fetta. Quella sera me ne chiese un’altra. E io fui felice.”
“Quella fetta era per me.”
“Lo so” sorrise Karan,
ammiccando appena come se stesse parlando a un bambino piccolo. “Ciò non toglie che fui felice. Ti devo ringraziare anche di
questo, Nezumi.”
Nezumi si strinse appena nelle spalle,
nascondendosi con disinvoltura dietro la tazza da tea.
Kuso.
Non sapeva come comportarsi. Quando si trattava di Karan, non sapeva mai esattamente come muoversi. Non
riusciva ad essere sarcastico, per quanto ci provasse;
e una qualsiasi risposta sgarbata gli moriva sulle labbra. Era frustrante. Era
terribilmente frustrante.
“Era buona” sibilò alla fine, incapace di accettare la
banalità della sua stessa frase.
Gli sembrava di sentire la voce di Rikiga
che lo sfotteva. Era buona? Davvero? Non
riesci davvero a trovare di meglio Eve?
Mi deludi. Un vago fastidio lo sfiorò. Io
deluderti? Non sia mai, vecchio.
Socchiuse le labbra: avrebbe trovato una parola tanto
appropriata, una parola così perfetta da far
ammutolire non solo l’immagine di Rikiga, ma da
poterne derivare anche un verso teatrale. L’avrebbe elogiata in quel modo
perfetto, con il tono giusto e le sfumature più appropriate; l’avrebbe
decantata con il sussurro suadente che gli era proprio, che lo aveva fatto
conoscere per tutto il West Block.
“Davvero ti era piaciuta?” lo anticipò Karan,
sporgendosi verso di lui. “Ne sono così contenta” sorrise ancora. “Ah, aspetta”
aggiunse velocemente, prima di alzarsi piena di entusiasmo e dirigersi allo
scaffale di esposizione dei dolci.
Nezumi potè
solo richiudere la bocca, sorpreso e disorientato.
Come con Shion. Quella donna era imprevedibile e incostante quanto suo figlio: un
attimo prima era discreta e l’attimo dopo gli
sorrideva apertamente, come una bambina. Come gli aveva sorriso Shion quando lo aveva accolto fradicio di pioggia. Senza la
minima ombra di sospetto, con un’ingenuità talmente disarmante che lo aveva
lasciato inebetito e intertetto. Anche quando lo aveva atterrato,
schiacciandolo sul letto; anche quando gli aveva sussurrato all’orecchio,
crudele, un cucchiaio alla gola, se fosse
stato un coltello saresti morto; anche quando
aveva cercato di fargliela capire, la pericolosità insensata di quella
situazione, Shion aveva riso. Riso e si era
entusiasmato. E Nezumi si era trovato, di nuovo,
incapace di decidere: se fosse solo ingenuità o anche se ci fosse un pizzico di
follia in quell’atteggiamento completamente rilassato. In quei gesti così
aperti e accoglienti che gli avevano fatto sfiorare per un istante il ricordo
di una sensazione lasciata cadere, di una parola senza
valore: speranza.
“Ecco: assaggia questa” lo invitò Karan,
offrendogli una nuova fetta di torta. “Sono sicura che ti piacerà: è al
formaggio” aggiunse con una semplicità che, in apparenza, spiegava la sua
sicurezza.
Nezumi sorrise, quel sorriso sottile e
ironico che ricordava un artiglio. L’arma migliore di cui aveva imparato a
servirsi fin da bambino: il suo sarcasmo. Quando il corpo era ancora troppo
minuto; quando i coltelli scivolavano dalle sue mani con irritante facilità;
quando ancora la forza di ribellarsi era solo il disprezzo in fondo ai suoi
occhi. Allora Nezumi aveva imparato che l’arma
migliore che possedeva era la sua lingua. Sfacciata, impudente, caustica. Aveva
imparato che una parola appropriata può irritare, ferire, obbligare, ottenere a
volte più di una lama premuta alla gola. E aveva imparato a fingere; aveva imparato a soppesare ogni gesto, ogni sguardo, ogni più
piccolo respiro o tremito: un sorriso languido per adulare; una scrollata di
spalle per irritare; l’indifferenza adatta alla provocazione e l’allerta
costante per cogliere anche il più piccolo dettaglio, da rigirare a proprio
vantaggio.
Aveva imbrogliato, rubato, picchiato; aveva ferito e si
era lasciato ferire per calcolo; aveva disprezzato e
umiliato, schernito e denigrato; e aveva odiato. Odiato con tutto se stesso No.6 e l’ipocrita utopia che aveva creato sulla cenere e sul
sangue di un popolo. Il mio popolo.
Aveva odiato Shion; e aveva odiato se stesso per quell’odio. Per quel desiderio di
ucciderlo che aveva provato e che Shion aveva solo
accettato. Accettato con furia e rabbia, accettato
sbattendogli in faccia la differenza fra un’utopia e un desiderio. Costringendolo ad aprire gli occhi e facendogli sperare in quella terza via tanto
ridicola e insulsa da essere l’unica possibile.
Adesso cosa mi
resta? si chiese, fissando il dolce nel piattino.
Di tutto quell’odio e quella rabbia; di tutta quella
ferrea volontà, restava ancora il sorriso sardonico sulle labbra screpolate dal
vento. E quel ghigno sottile, Nezumi lo sapeva, era
come una cicatrice che non se ne sarebbe mai andata.
“Al formaggio, huh?” ridacchiò.
“Proprio adatta ad un topo.”
“Oh!”
Karan si coprì la bocca, attutendo la
piccola esclamazione che le era sfuggita. Era stato l’istinto a farle scegliere
quel dolce fra molti altri: l’abitudine di lasciarne sempre un pezzetto da
parte per quando i topolini reclamavano qualcosa. E i topini erano di Nezumi. Per Karan erano sempre
stati Nezumi,
e li aveva fra loro confusi come solo una donna, e forse una madre, può sovrapporre affinità ad affinità.
Eppure adesso quella piccola premura le appariva così
goffa e indelicata, quasi arrogante. E trattenere il fiato quando Nezumi assaggiò il primo pezzetto e fermarne la mano che
tagliava il secondo era stato un istante, assieme a
pensieri e parole che si accavallavano nella mente.
Non è così. Non
volevo. Nezumi. Non devi mangiarla se non vuoi. Non
occorre che ti sforzi.
“Nezumi” riuscì solo a
sussurrare, stringendogli il polso. “Non è necessario.”
Il polso di Nezumi era sottile; sottile e un po’ ruvido. Forse per il
tempo trascorso all’aperto forse per lo sfregolio
costante della cinghietta di cuoio e metallo. Sembrava potesse spezzarsi
con facilità.
“Dimmi cosa ti piace.”
“Cosa mi piace?”
“Sì” annuì Karan, con
convinzione, e la stretta si fece più salda, anche se mai aggressiva. “Dimmi
cosa vuoi mangiare, e te lo preparo.”
“Adesso?”
“Adesso, certo” sorrise Karan.
“Allora, per prima cosa” iniziò Nezumi,
prendendo un respiro fra i denti. “Potrebbe lasciarmi il polso? Se stringe ancora un po’ ho la terribile sensazione che me lo
spezzerà.”
“Oh, mi dispiace” si scusò Karan,
lasciandolo immediatamente. Eppure aveva la sensazione che spezzare Nezumi non fosse affatto semplice.
Certo, le appariva abbastanza esile di costituzione, soprattutto per un ragazzo
di vent’anni. Era pallido e un po’ emaciato, ma non era certo delicato.
Ha protetto Shion. Con questo stesso corpo ha protetto mio figlio si ripetè,
e l’immagine del corpo sporco di sangue di Nezumi, la prima volta che lo aveva incontrato, gli
attraversò la mente. Forse sarebbe morto.
Se non fosse stato per Shion e per Safu – Elyurias, okasan – probabilmente Nezumi
non sarebbe sopravvissuto. Non è fragile
si ripetè, ma qualcosa dentro di lei continuava a
rifiutare di elaborarlo come forte.
“Cavoli” si lamentò Nezumi,
frizionandosi il polso. “Fra lei e Shion, non so
proprio chi è peggio. Vi divertite tanto a testare la
resistenza delle mio ossa?”
“Shion?”
“Già: Shion” confermò Nezumi, arricciando il naso infastidito dal suo stesso pensiero.
“Anche suo figlio mi ha afferrato come lei. Mi ha lasciato indolenzito per un mese” aggiunse in tono
melodrammatico, alzando le spalle con noncuranza. “Pazienza.
Temo proprio che non conoscere bene la propria forza sia una
peculiarità di famiglia” concluse strizzando un occhio a Karan
facendola ridere.
É questo Nezumi? si chiese Karan. Questo ragazzo cresciuto troppo in fretta; questo ragazzo un po’
arrogante un po’ impacciato; questo ragazzo capace di accerchiarti e poi blandirti
con un sorriso ironico e leggero. É
questo Nezumi?
No.
Karan lo avvertiva sulla pelle. Nezumi era stata la sua speranza:
poche parole scritte con eleganza su un foglietto. Era stato la sottile scia
lungo cui aveva camminato quando Shion le era stato
portato via. In cambio dell’aiuto che suo figlio gli aveva dato in una notte di
tempesta, Nezumi aveva promesso a lei, a sua madre,
la certezza di un futuro assieme. Lo aveva promesso ad
una donna che non aveva mai visto e che avrebbe potuto odiarlo. Odiarlo per avergli portato via privilegi e agiatezza; odiarlo per
averle sconvolto la vita; odiarlo per averle sottratto alla fine anche il
suo stesso figlio.
Eppure Nezumi glielo aveva
promesso: vi riunirete assolutamente.
Lo aveva promesso senza esserne costretto; glielo aveva
sussurrato impalpabile all’orecchio, la voce bassa e rassicurante stingerla in
un abbraccio irreale. E lo aveva fatto perchè aveva voluto farlo,
senza elemosinare perdono e la volontà di chiedere scusa. Lo aveva fatto perchè qualcosa dentro di lui gli aveva detto che era
quello che doveva fare.
E poi la speranza era diventata corpo.
Il fisico asciutto di un ragazzo accanto a Shion; il sollievo nei suoi occhi quando li aveva fatti reincontrare e lo stupore misto di imbarazzo
e impaccio quando si era sottratto con goffa abilità al suo tentativo di
abbraccialo. Il rossore leggero di un bambino quando aveva balbettato qualche
scusa e il tono sgarbato con cui aveva ripreso il controllo di sè.
Karan avrebbe davvero voluto
abbracciarlo. Avrebbe voluto stringere quel corpo che sembrava esausto e si
ostinava a restare in piedi, fiero e altero. Stringerlo perchè
le aveva custodito Shion e perchè
avvertiva che era giusto.
“Comunque” riprese Nezumi,
schiarendosi la voce con un leggero colpo di tosse. “Ha ragione: la torta è
davvero ottima. Mi piacerebbe anche se non fossi un topo” ridacchiò, dando un nuovo morso e
socchiudendo gli occhi.
“Grazie.”
Fu un istante.
Nezumi non capì se fosse dovuto al fatto
di essersi in qualche modo distratto o se Karan aveva
la straordinaria capacità di inibire le sue difese come suo figlio. Non capì
nemmeno se si fosse mossa troppo in fretta per vederla o troppo piano per
cogliere il pericolo.
C’erano solo sensazioni: il calore di due braccia che gli
avvolgevano la testa e un petto ad accoglierla; il corpo rigido nel leggero
tremito di sorpresa, con quella punta di istintivo
timore per il dopo. Vedeva la sua mano, con la forchetta ancora a mezz’aria;
vedeva il tavolo e la luce obliqua tingerlo di rosso. E vedeva la propria ombra
avvolta da quella di Karan, come un bozzolo.
Kuso.
Imprecò fra i denti, stringendo gli occhi.
Non ti azzardare si impose. Non ci pensare nemmeno ripetè, mentre si stringeva a
sangue le labbra. Non ci provare a
piangere, hai capito?
C’era odore di cannella e zucchero caramellato. La maglia
e il grembiule di Karan ne erano impregnati. Un odore
dolce, calmo e rassicurante. Con la nuca sul petto della donna, Nezumi avvertiva la sensazione distorta di un riparo eretto
fra lui e il mondo.
Qual era l’odore di sua madre?
Non lo ricordo.
Lo aveva stretto anche lei al seno in quel modo, quando
era piccolo? Lo aveva cullato quando piangeva e gli aveva sorriso per
incoraggiarlo?
Non lo ricordo.
Nezumi strinse gli occhi. Era colpa sua;
era solo colpa sua. Si era distratto, e adesso quel
nodo lo stava soffocando. Quell’orribile sensazione che aveva provato quando la
sua voce non era riuscita a raggiungere Shion. La
stessa snervante insopportabile sensazione di impotenza
e debolezza.
Baka. Nezumi no baka.
Sarebbe bastato un attimo. Sarebbe bastato spingere Karan per allontanarla, per riprendere il controllo o
almeno provare a farlo. Non era possibile che un semplice abbraccio, che l’abbraccio di una donna, per quanto non voluto, lo agitasse
tanto.
Non voglio. Non
voglio.
Si ripeteva. E più cercava di convincersene, più aveva la
sgradevole sensazione che la vista gli tremolasse. Ma se avesse pianto; se
avesse pianto sarebbe stato di nuovo un disastro.
Perché ancora una volta non avrebbe saputo come fermarsi, dopo.
La mano che gli si posò sugli occhi fu un sollievo
inaspettato.
Sentiva la pelle rovinata dalla farina e dal lavoro
sfiorargli appena il viso in un tocco gentile, tranquillizzante. Presente, ma indifferente a qualsiasi sua reazione. Avrebbe
potuto urlare; avrebbe potuto solo singhiozzare.
Avrebbe potuto piangere e quella mano sarebbe rimasta lì, a raccogliere la
debolezza di un ragazzo cresciuto troppo solo.
Karan non sapeva come avrebbe reagito Nezumi al suo abbraccio; sapeva solo che voleva sentirlo
fra le sue braccia. Sapeva solo che, almeno per una volta, voleva dimostrargli
la forza che aveva saputo infondergli solo con le sue poche parole e con la
speranza che le aveva regalato.
Sentirlo irrigidirsi e tremare come un bambino spaurito
era stata una sensazione di sorpresa che si era
sciolta in calore. Il ragazzo indifferente e arrogante; il ragazzo
che aveva ucciso per suo figlio; quel ragazzo diventato uomo sotto
l’indifferenza del cielo e nel vento; quel ragazzo stava disperatamente
cercando di non piangere mentre recuperava forse un ricordo lontano forse un
rimpianto.
Di Nezumi Karan
non sapeva nulla.
Eppure la mano che gli posò sugli occhi per rassicurarlo,
come se davvero fosse un bambino, come se fosse suo figlio; quella mano le raccontava molte cose. Piccoli particolari
che solo una donna e una madre riusciva a cogliere.
Le sussurrava del tempo trascorso all’aperto, dalla pelle
secca e ruvida; le parlava degli stenti e delle difficoltà negli zigomi che si
sfioravano duri sotto l’espressione di cordiale indifferenza; le raccontava
della solitudine e dell’orgoglio intrappolato in occhi inquieti, nascosti sotto
capelli lasciati crescere liberi nel vento; le ricordava l’abilità sprezzante
dell’attore, nelle ciglia lunghe che si socchiudevano sfiorandole la pelle, in
un gesto elegante.
É questo Nezumi? si chiese di nuovo, mentre lo
sentiva respirare lento, la bocca socchiusa a calmare forse l’emozione forse la
rabbia. A Karan non importava: se Nezumi
si fosse arrabbiato e l’avesse allontanata in modo sgarbato, era pronta a rispondere
alla sua reazione con un sorriso.
Inspira.
Gli occhi chiusi, Nezumi cercò
di ritrovare un briciolo di quell’arroganza che sembrava ormai dimenticata.
Come quando era con Shion; come quando era Shion a fare o dire qualcosa di talmente stupido e imbarazzante,
senza accorgersene nemmeno, da fargli venir voglia di ridere. Ridere di cuore
come non si concedeva con nessuno.
Espira.
Karan assomigliava a Shion per quel modo che aveva di aggirare le sue difese.
Gli faceva paura. Gli faceva paura perchè non
riusciva a capire cosa cercasse da lui, cosa volesse. E gli faceva rabbia il
pensiero di essersi messo da solo in quella situazione.
Inspira.
“Va meglio?”
Nezumi avvertì il corpo libero e intuì
la luce dietro le palpebre socchiuse. Karan si era
allontanata e ora lo osservava con un tranquillo sorriso, appena protesa nella
sua direzione.
Espira.
“Non stavo...” si affrettò a
precisare, inciampando nei suoi stessi pensieri per la fretta di negare. Che
sarebbe equivalso ad affermare, si accorse. Kuso.
“...piangendo. Lo so” concluse
per lui la donna, con una risata divertita di chi finge di credere ad una bugia. Anche se non era proprio il falso. Nezumi non aveva pianto, ma in quei respiri profondi Karan aveva avvertito tutto il peso che il ragazzo si era
portato addosso per molto, forse troppo tempo. Forse Nezumi
non aveva pianto con gli occhi; ma per lei quei sospiri erano stato lacrime molto più profonde.
Nezumi sospirò in modo teatrale,
ravvivandosi la lunga frangia disordinata.
“Mi farà ammattire, Karan-san” sbuffò alla fine. “Sul serio. Una tale
confidenza con uno sconosciuto può essere pericolosa. Ora capisco da chi Shion ha preso tutta quella
sua avventatezza. Dovrebbe riflettere di più, Karan-san. Davvero.”
“Sì sì, lo so” rise Karan. “Ma è stato più forte di
me: avevo voglia di abbracciarti.”
Karan non seppe mai se il rossore che
vide sul viso di Nezumi fosse dovuto all’imbarazzo o
agli ultimi raggi che spiovevano dietro i tetti; non seppe mai se quel respiro
trattenuto fosse di stupore o uno sbuffo mal celato. Vide solo Nezumi massaggiarsi sconsolato gli occhi, prima che la mano
scendesse veloce a coprire forse una smorfia forse un sorriso.
“Si sta facendo buio” riprese Nezumi dopo un silenzio che sapeva di un non detto
rassicurante.
“Shion rientrerà tardi, questa
sera” disse Karan con indifferenza, alzandosi per
riordinare il piccolo tavolino. “Ma immagino lo
sapessi già” aggiunse strizzandogli l’occhio. Non avrebbe cercato di
trattenerlo, né lo avrebbe pregato di aspettare il ritorno di Shion.
In quattro anni, era la prima volta che Nezumi faceva ritorno; e se aveva scelto proprio quel
giorno per avvicinarsi alla panetteria ci doveva essere un motivo. C’era sempre
un perché nelle decisioni di Nezumi; forse contorto e complicato, ma di certo ben
ponderato.
“Oh, lo crede veramente?” la provocò Nezumi,
dondolandosi appena sulla sedia.
Avvertiva l’impulso di accavallare le gambe sul tavolo, di
assumere quell’aria di seducente ribellione che aveva vestito per così tanti
anni da sentirsela addosso come una seconda pelle. “Non ho così
tanto tempo libero, come invece sembrate credere tutti voi” soffiò
provocatorio.
“Ma adesso sei qui” gli ricordò Karan con un’innocenza che sapeva di ovvietà.
“Non certo per mia scelta” puntualizzò Nezumi,
sbuffando e appoggiando il mento alla mano in un piccolo broncio che gli
arricciava le labbra in un buffo modo infantile. “Diamine, non sono così
maleducato da lasciare una signora in difficoltà.”
Karan si chiese cosa ci fosse di falso
e cosa di autentico, in quell’atteggiamento. Shion le
aveva accennato che Nezumi era un attore, e Rikiga le aveva raccontato delle performance di Eve nel West Block. Qualcosa di straordinario, le aveva
detto, quasi quanto la capacità del ragazzo di essere snervante, soprattutto
con quella sua abilità di muoversi senza farsi notare.
E in effetti, Karan dovette
ammettere che, se Nezumi stesso non si fosse
inginocchiato per aiutarla quando i sacchi di farina lasciati dal grossista
erano scivolati lungo le scalette, non lo avrebbe visto, nonostante i pochi
passanti presenti. Forse aveva aspettato davanti al forno per delle ore; forse
era appena arrivato. Forse era davvero la prima volta che tornava, come le
aveva detto, o forse era venuto ancora, senza che né lei né Shion
se ne accorgessero.
“Chi avrebbe immaginato che poi la signora mi avrebbe
riconosciuto e mi sarei ritrovato ad un tea delle
cinque.”
Karan rise ritornando a sedersi di
fronte a Nezumi. Non sembrava avere fretta di
andarsene, ma c’era nei suoi gesti un sottile nervosismo, l’abitudine di chi è
sempre in guardia, del vagabondo che il tempo ha istruito sull’importanza degli
istanti. Nezumi era arrivato come una brezza leggera
quella sera, e con la stessa discrezione se ne sarebbe andato appena avesse
voluto. Se ancora si tratteneva, non era certo per educazione nei suoi
confronti, Karan lo sapeva. Nezumi
era ancora seduto a quel tavolo perché lo voleva.
“Dovevi prevederlo che ti avrei riconosciuto” scrollò le
spalle Karan, sciogliendo il fazzoletto che legava
alla testa. “Non sei cambiato così tanto in quattro
anni.”
“Lo spero” sorrise Nezumi, un
sorriso elegante e assieme infantile. Di chi scherza sapendo di scherzare. “L’immagine è tutto per
un attore. Non lo sa, Karan-san?”
É questo Nezumi? si ritrovò di nuovo a pensare Karan.
Questo ragazzo che non riusciva a definire, arrogante e
schietto nelle risposte, ma capace di una gentilezza nascosta inaspettata.
Questo ragazzo cui la strada aveva insegnato artigli e denti e il teatro una delicatezza impalpabile. Questo ragazzo che
restava a chiacchierare con lei ora con imbarazzo ora con delicatezza, ora
adulandola ora provocandola, e che tuttavia si era rifiutato di togliersi il
giubbotto e la sciarpa. Questo ragazzo che si era ritagliato con poche parole e
qualche gesto discreto uno spazio ben definito e che non sembrava capace di
fermarsi in un luogo. Questo ragazzo che era cambiato, e ai tratti ancora
acerbi dell’adolescenza aveva sostituito i contorni definiti di un uomo, e che
restava comunque uguale a quell’unica volta che Karan
lo aveva incontrato.
Era cambiato, certo. Era cambiato molto e Nezumi per primo ne era consapevole. Del ragazzo che aveva
voltato le spalle a No.6 restava solo il ricordo in
cicatrici sbiadite sulla pelle; come del bambino nato in una foresta rimanevano
le piaghe sulla schiena. Eppure non riusciva a rinunciare a quella sua pungente
ironia, all’abitudine di dissacrare ogni cosa, togliendo loro valore e
importanza. Per non dover rimpiangere nulla, per non
avvertire nemmeno un’eco del rimorso di aver perso qualcosa.
“Reciti ancora?”
“Qualche volta” accennò. “Dovrò pur
procurarmi da mangiare no? E il teatro è un buon
sistema.”
“Mi piacerebbe ascoltarti” gli confessò Karan. E al tempo stesso si vergognò di se stessa, dei pochi sbiaditi ricordi che si sorprese ad avere
di quinte e recitazione. Se anche Nezumi l’avesse
accontentata chiedendole cosa volesse sentire, Karan
non avrebbe saputo cosa rispondere. Aveva smesso da troppi anni di interessarsi
di letteratura, e anche nella sua infanzia si era limitata a poche fugaci
letture. Era stato per Shion che aveva ripreso a
leggere, ma era durato appena due anni, il tempo che suo figlio venisse riconosciuto come un èlite e la sua educazione sottoposta ad un rigido controllo. Due
anni, e poi non c’era stato più tempo per le fiabe e per i libri, anche se Shion aveva conservato intatta dentro di sè una forte immaginazione.
“Dovrebbe ascoltare prima Shion,
allora.”
Shion? Shion si intende di teatro? si chiese Karan,
stringendo le mani. Quella doveva essere una delle nuove peculiarità di suo
figlio, qualcosa ereditato dai mesi trascorsi nel West Block; qualcosa appreso
da Nezumi. Qualcosa di un altro mondo, di un’altra
vita di cui Shion parlava a pezzetti e mezze parole,
con nostalgia e una punta di malcelata gelosia.
“É bravo?”
“Totalmente negato” fece una
smorfia Nezumi. “Ma dal
confronto io ne uscirei ancora meglio.”
Karan rise della sua smorfia, di quella
vanteria esagerata che doveva nascondere una profonda conoscenza delle proprie
capacità e una complicità con Shion mai spiegata.
“Rikiga me lo aveva detto” si
trovo a riflettere ad alta voce.
“Mmh?”
“Che hai una lingua tagliente.”
“Quel vecchio” sbuffò Nezumi,
allungandosi sulla sedia, la testa rovesciata all’indietro. “E pensare che diceva di essere un mio grande fan. Davvero
scortese.”
Nezumi mosse pigro la testa verso la
finestra.
Rikiga. E Inukashi.
Che ne era stato di loro dopo la caduta di No.6? Forse
continuavano a vivere nel West Block; forse almeno Rikiga
era riuscito a recuperare una parvenza di tranquillità all’interno della nuova
città. Aveva saputo che la foresta a Nord era tornata ad
essere abitata e che sul luogo del Penitenziario era sorto un parco.
“Ogni tanto passa a trovarmi” soffiò Karan,
in un pensiero ad alta voce. “E anche Inukashi. Shion-chan sta crescendo, e a volte ha bisogno di qualche
consiglio.”
“Shion-chan?”
“Aha. Il bambino che avete
salvato.”
“Lo ha salvato Shion” la corresse brusco Nezumi,
stringendosi nelle spalle, le mani in tasca. “Io lo avrei lasciato morire.”
Cosa voglio? si
chiese, mentre spiava la reazione di Karan. Scioccarla? Provocarla? Cosa cerco?
Doveva essere solo un pensiero, ma lo aveva espresso a voce alta. Lo aveva
voluto esprimere a voce alta, azzardando per una volta l’ignoto di una
reazione. Comunque, non poteva negare: se fosse stato da solo, il bambino
sarebbe morto. Quindi, se Karan
desiderava davvero capire qualcosa di lui, come Nezumi
aveva sentore che cercasse di fare, non le avrebbe nascosto nulla. Non lo aveva
mai fatto, nemmeno con Shion. Forse era stato
reticente, schivo; lo aveva messo in guardia di quanto poteva essere pericoloso
avere a che fare con lui e con tutto ciò che non
voleva dire. Lo aveva avvertito e Shion si era solo
intestardito.
Karan invece come avrebbe reagito?
Forse lo avrebbe cacciato. Non a parole; e nemmeno con la
forze. Lo avrebbe fatto con gli occhi: con uno sguardo disgustato, che le
avrebbe irrigidito la mascella in un sorriso forzato e falso. Con il corpo che
si sarebbe rattrappito e d’istinto avrebbe fatto riferimento alla porta.
Nezumi non aspettava altro che quel
segnale per alzarsi ed andarsene.
Tre, quattro,
cinque.
Quando fosse arrivato a dieci, lo sapeva, Karan avrebbe somatizzato le sue parole, il vero significato delle sue parole, e lui se ne sarebbe andato.
Sei, sette.
Non aveva senso aspettarsi qualcosa di diverso. No.6 era crollata, ma le abitudini e le idee inculcate dalla
città negli anni sarebbero state, probabilmente, il muro più difficile da
abbattere. E Nuzumi non era certo di voler
ricominciare di nuovo quella lotta.
Otto.
Anche se lo aveva promesso a se stesso, e a Elyurias: se No.6 sbaglierà
ancora, allora l’avrebbe distrutta. Completamente. Tuttavia, quattro anni erano
ancora troppo poco. Troppo poco per vedere negli occhi di Karan
qualcosa che non fosse il rifiuto e il disprezzo all’idea di abbandonare un
bambino. Anche se sarebbe già qualcosa si trovò a considerare con una smorfia.
Qualcosa di promettente contro l’antica programmata apatia.
Nove.
Si leccò le labbra, in un gesto lento e lieve. Avvertiva
un fremito nel corpo, un’aspettativa irritante per il
modo in cui lo faceva sentire in bilico. Anche se non sarebbe dovuto succedere.
Anche se sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto, dopo che avesse parlato. Sono agitato? Possibile? si chiese per un istante. Per un attimo, lo sfiorò la
possibilità che Karan.
Cosa? Comprenda?
Impossibile.
Dieci.
La sedia fu solo un rumore lieve di stoffa che si spostava
e la gomma consunta sotto le scarpe un gneek di
sassolini e sabbia.
Game over.
“Mi dispiace.”
La voce di Karan era un soffio,
mentre stringeva fra loro le mani e alcune lacrime le scivolavano sul mento. E Nezumi si fermò, in piedi all’altro capo del tavolino; si
fermò senza capire perchè
Karan si scusasse; perchè stesse piangendo. Incapace
di decidersi se andarsene o restare ancora e ascoltare le parole che
farfugliavano fra piccoli singhiozzi e respiri per recuperare un po’ di voce.
“Mi dispiace. Mi dispiace così tanto.”
“Karan-san” tentò Nezumi, senza sapere esattamente cosa dire. Voleva
consolarla, o forse schernirla? Non riusciva a capire nemmeno perchè stesse piangendo e il motivo di quelle scuse
ripetute.
“Una scelta del genere” lo interruppe Karan,
quasi non lo avesse sentito. “Scelte così. In mano ad un ragazzino. Non sono
giuste. Nezumi” lo chiamò, alzandogli sul viso disorientato la disperazione di
una consapevolezza catturata. “Non so nemmeno immaginare quanto devi
aver sofferto per questo, Nezumi. Decidere se aiutare
o sopravvivere. Mi dispiace, Nezumi. Mi dispiace.”
Nezumi si lasciò ricadere sulla sedie con un tonfo sordo, le braccia inermi lungo i
fianchi. Possibile? riuscì a elaborare, ancora confuso dalle parole strascicate
di Karan. Possibile
che davvero...?
Possibile che quella donna non solo
non lo condannasse o disprezzasse, ma addirittura stesse piangendo per lui? Che
avesse intuito quello che aveva provato la prima volta, quando aveva capito che
per sopravvivere devi uccidere anche senza sporcarti le mani? Quando aveva
scoperto che la vita è un baratto, e se tu non muori
deve farlo qualcun altro al posto tuo. Quando il sangue sul suo coltello e il
respiro che martellava nelle tempie era la sicurezza
di un altro giorno strappato con i denti, nel corpo che ti cade addosso senza
più respiro, sputandoti in faccia maledizioni senza parole.
Quando vincere un’ora in più, era vincere
un altro inferno, ma c’è l’orgoglio. Quel maledetto orgoglio che ti spinge a
continuare, a non cedere mai. Quella maledetta consapevolezza che l’unica cosa
da fare è vivere, e finchè avrai vita sarai ancora
qualcosa.
Possibile?
Possibile che Karan avesse davvero capito, o forse, semplicemente, lo stesse compatendo? Le braccia facevano male, e alzarle
fino a posarle sul tavolo fu un’agonia centellinata con masochistica necessità.
Aveva bisogno di riprendere il controllo; aveva bisogno
di capire cosa si aspettasse adesso Karan da lui. O
cosa non si aspettasse.
“Kuso”
ringhiò alla fine, premendosi le mani alla fronte. “Possibile
che lei e Shion sappiate dire delle cose così
imbarazzanti? E io mi ci ritrovo sempre in
mezzo.”
Karan lo fissò incerta, asciugandosi le
ultime lacrime. Si vergognava di essersi lasciata andare, eppure in qualche
modo quel pianto l’aveva fatta sentire meglio. L’aveva come svuotata di ogni
timore, lasciandole addosso solo la lucida consapevolezza di quello che
l’indifferenza sua e degli altri cittadini di No.6
aveva provocato. Aveva pianto per Nezumi, ma era
stato come piangere per tutto un mondo mai visto: per il West Block con i suoi
giorni violenti, per il Popolo della Foresta ridotto in cenere, per i sogni di
un gruppo di ricercatori che avevano creato un incubo.
“Non pianga per me, Karan-san. Non ne vale la pena” aggiunse alla
fine Nezumi, fissandola da sotto la lunga frangia con
uno sguardo serio. Uno sguardo nuovo, diverso da quelli che gli aveva
mostrato fino a quel momento. Uno sguardo adulto, forse malinconico, ma
comunque pacato. Lo sguardo di un uomo che non chiede
commiserazione né pietà e che ha trovato una propria accettazione.
Karan avrebbe voluto ribattere, ma si
limitò ad annuire. C’era anche una supplica, in fondo a quegli occhi troppo
giovani e troppo vissuti. La supplica di non fare domande e di accettare quel
poco che poteva aver capito; la richiesta tacita di non attizzare un dolore
probabilmente mai sopito e la rabbia e i rimpianti di essere comunque l’ultimo
di una stirpe. Si umettò le labbra, inghiottendo
saliva e lacrime.
Forse in futuro.
“Perché non mi odia, Karan-san?”
La domanda le bruciò sulla pelle, tanto era stata rapida e
inaspettata. C’era una punta di sincera incredulità, l’incapacità di cogliere una
motivazione solida e valida in quelle poche parole scandite chiare, la voce
tranquilla di chi in realtà sembra conversare solo per cortesia e dietro
un’urgenza abilmente mascherata per non scoprirsi.
“Odiarti?” ripetè
Karan, assaggiando il gusto insolito di quella parola. “Che idea buffa. Perchè mai doveri odiarti?”
“A causa mia ha perso i privilegi di Kronos.”
“E ho potuto dedicarmi ad un
lavoro che mi piace.”
“Ho distrutto il mondo sicuro che conosceva.”
“E non è stata una grande perdita.”
“Safu è morta anche per colpa
mia.”
“E se tu non avessi cantato, Eryulias
avrebbe ucciso tutti noi.”
“Le ho portato via Shion.”
“E me lo hai restituito sano e salvo.”
Nezumi inspirò fra i denti: per ogni
affermazione, Karan aveva una risposta che le
illuminava il viso di orgoglio e dolcezza.
“Nezumi” lo chiamò Karan, allungando le mani sul tavolo a stringere quella di
lui. Era magra e ossuta, eppure ne percepì la forza quieta che l’attraversava, la pericolosità e la sicurezza che poteva
infondere.
É questo Nezumi? si chiese di nuovo. Un uomo con ancora molti
dubbi e sicurezze traballanti; un ragazzo incerto se le sue mani possano ancora
accarezzare, e non solo uccidere e ferire; un bambino che ricerca i perchè delle
risposte più facili, senza riuscire a crederci davvero. Karan
sentì la sua esitazione nel ricambiare la stretta, la difficoltà di accettare
un gesto tanto semplice come scontato. Sorrise del
modo che aveva di fissare le loro mani, quasi sorpreso
di riconoscervi la propria fra quelle della donna.
“Nezumi” lo chiamò in un
sussurro, facendogli alzare gli occhi che non si era
nemmeno accorto di aver abbassato. “Canteresti qualcosa per me?”
Non avrebbe cercato di confortarlo; né si sarebbe imposta perchè lui capisse il reale valore che avevano
rivestito per lui ogni singola parola e ogni gesto che Nezumi
aveva fatto. Gli avrebbe lasciato il tempo di elaborare da solo ogni risposta
che gli aveva dato, di capire il regalo meraviglioso che le aveva fatto quando
le aveva restituito Shion. E con suo figlio una vita
che altrimenti sarebbe bruciata senza crepitii nè luce autentica. Gli avrebbe lasciato il tempo per
imparare che l’odio può cambiare e che nulla è tanto immutabile da non poter
esser scalfito.
Forse.
Forse c’è stato un tempo in cui Karan
aveva odiato Nezumi. Quando Nezumi
era solo un’ombra negli occhi di Shion, la malinconia
di respiri vaghi e la paura di perdere suo figlio. Quando Shion
aveva dodici anni e aveva aiutato un VC e tutto era cambiato.
Forse in quei giorni Karan aveva
odiato Nezumi senza nemmeno sapere contro che nome
scagliarsi; forse in quei giorni Karan aveva
desiderato che tutto tornasse come prima. Ma poi Shion aveva iniziato a vivere
e lei aveva riscoperto il piacere della fatica e della soddisfazione delle
mani. E Nezumi
era stato un nome catturato di sfuggita da labbra sempre più sorridenti; ed era
diventata gratitudine e un suono lieve di incoraggiamento.
“Sono fuori allenamento” si schernì Nezumi,
ma non riuscì a trovare la forza di ritrarre la mano. “Non canto da quattro
anni.”
“Non importa. Non sono un’esperta” lo
rassicurò. Ma sapeva che non era una questione
di allenamento. Sapeva che dietro a quella scusa sensata, ma
pronta, si doveva celare qualcosa di più profondo. Shion
le aveva accennato qualcosa, riguardo al fatto che Elyurias
avesse accettato di lasciarli sopravvivere solo dopo aver ascoltato la voce di Nezumi. E che era a lui che
“Importerebbe a me” ridacchiò Nezumi.
“Una performance è come un biglietto da visita. Se è pessima
è pessima. E la mia reputazione ne risentirebbe.”
Tuttavia accarezzò il pensiero di Nezumi.
Tuttavia cantare di nuovo. Provare di nuovo la sensazione
della voce che si articola, lieve come vento. Giù: dallo
stomaco risalire, di petto, premendo e modulando nei polmoni, prima si
trascinare. Era qualcosa di più di una performance, per lui. Era una
parte della sua stessa vita, una componente essenziale
della sua essenza. E negarsi il canto, forse per paura forse per ostinazione,
era stata languida malinconia.
E ora. Provare di nuovo a cantare. Una canzone semplice,
senza nessuna pretesa. Anche solo accennare poche parole,
alcune note di una melodia conosciuta, senza potere e senza pretese.
Come sarebbe stato? Avrebbe avvertito ancora quel senso di annullamento e
compenetrazione che lo aveva colto quando aveva cantato per Elyurias?
E il vento. Avrebbe sentito di nuovo il vento accarezzargli il corpo, insieme
all’odore intenso di muschio e pioggia? O sarebbero solo state parole. Belle,
forse ancora più belle di un tempo, adesso che la sua
voce era un po’ mutata per l’età. Ma solo parole.
Limpide. E inoffensive.
“Io credo che saresti comunque
incredibile. E
poi non lo saprebbe nessuno. Nemmeno Shion” lo
blandì, mimando con la mano un giuramento solenne
“Che donna insopportabile” rise alla fine Nezumi, in una smorfia leggera. “E
sentiamo. Cosa vorreste ascoltare?”
Karen gli restituì il sorriso, ma non lo lasciò andare.
Era tutto quello che poteva fare: stringere la mano di quel ragazzo. Stringerla
e fargli capire che in quella casa sarebbe sempre stato accettato, che si sarebbe
sempre stato posto per lui e un sorriso, senza pretese né obblighi. Un luogo cui tornare; un luogo da cui partire. Di quella sua
vita randagia, Karan voleva che Nezumi
sapesse di avere ancora un luogo cui appartenere. Non sarebbe stata
Lo capisci Nezumi?
“Mmh. Ciò che risplende, forse” riflettè Karan. “Sì. Penso che ti chiederei
quella.”
“Almeno ha più buon gusto di Shion”
considerò Nezumi con un sospiro divertito,
sistemandosi meglio sulla sedia. “E va bene” mormorò. “Ma sia
chiaro: lo considero il pagamento per i dolci e il tea. Non lo faccio
per farle un piacere, Karan-san.”
“Naturalmente.”
Aveva una bella voce. In piedi accanto al tavolo, gli
occhi socchiusi, Nezumi cantava con trasporto,
accarezzando ogni parola con un andamento quasi ipnotico e Karan
lo ascoltò commossa, avvertendo nel suo animo
trepidazione e gioia. Era come se in quella canzone Nezumi
convogliasse tutto se stesso. L’esitazione lieve delle prime parole era sfumata
nella sicurezza e nell’emozione che il canto stesso gli dava, costringendolo
quasi a concentrarsi maggiormente per non correre nel finire le strofe, con la
paura che qualcosa cedesse e quella sensazione di incredulo
piacere svanisse troppo in fretta.
Quando sentì la sua stessa voce spegnersi, Nezumi rimase fermo con la bocca socchiusa. Si sentiva
stanco come se avesse corso per delle giornate, e al tempo stesso una vertigine
gli faceva temere ad aprire gli occhi. Ma era diverso.
Non erano le stesse sensazioni di quando aveva avvertito il canto di Elyurias. Era il suo cuore, i suoi polmoni; era tutto il
suo stesso corpo ad essersi teso nell’apprensione, e
adesso che era riuscito di nuovo a cantare, la spossatezza lo aveva avvolto
assieme ad un torpore rassicurante.
“É stato...” iniziò Karan, cercando di trovare le parole adatte.
“...passabile” la precedette Nezumi, nascondendo nella smorfia il sorriso incredulo che
aveva avvertito accarezzargli le labbra. Liberatorio
pensò invece, respirando piano per gustarsi ancora l’aria scendere lungo la
trachea, giù nel profondo assieme a un piacere viscerale che lo aveva
attraversato in ogni fibra. “La prossima volta sarà meglio.”
“Tornerai presto?” gli chiese Karan,
quando lo accompagnò alla porta. Era notte tardi e la
porta del negozio aperta disegnava un rettangolo di luce calda sul selciato. Karan si strinse nelle spalle, rabbrividendo per il freddo
della notte di ottobre.
“Tornerò” assicurò Nezumi, con
una leggera smorfia. “I suoi dolci sono una tentazione
pericolosa, Karan-san. E poi, ho promesso di
vedere quello che Shion saprà costruire.”
“Shion vorrebbe rivedere te” gli
appuntò Karan, e Nezumi
rise infilandosi le mani in tasca.
“A suo tempo, Karan-san. A suo tempo” le rispose, prima di alzare gli occhi al cielo
autunnale, limpido e freddo. “Per adesso, Shion
deve camminare con le sue gambe. Se io restassi, farebbe troppo affidamento su
di me.”
“Presuntuoso da parte tua, non credi?” lo provocò,
pizzicandogli il naso.
“Forse” riflettè Nezumi. “Ma gli attori sono da sempre
degli egocentrici narcisisti. Non lo sapeva, Karan-san?”
Karan rise, incapace di decidersi a
lasciarlo andare. Sapeva che non poteva trattenerlo, come sapeva
che non le avrebbe mai fatto pronunciare quell’invito che le era salito
spontaneo alle labbra. Perchè non ti fermi? Anche solo per questa notte.
Quando si fosse sentito pronto.
Quando Nezumi si fosse sentito
pronto di ricreare davvero un qualche legame stabile, Karan
sapeva che sarebbe tornato e lei gli avrebbe aperto la porta con un sorriso.
Nel frattempo, si era ripromessa, avrebbe continuato a ripetersi quella canzone
che le aveva regalato, come un mantra per farlo un giorno tornare. Come aveva
ripetuto per mesi nel cuore le sue parole: vi
riunirete sicuramente. L’avrebbe cantata e avrebbe lasciato da parte una
porzione di torta, aspettando una sua nuova visita occasionale.
Lo osservò allontanarsi di qualche passo, prima di
fermarsi a sorpresa ai margini del rettangolo di luce.
“Ne, Karan-san” la chiamò voltando appena la testa sopra la
spalla, il viso inclinato e una sfumatura indefinita negli occhi. “Non c’era
una domanda che voleva farmi?”
Karan sussultò, sorpresa.
Come...?
si chiese. Com’era possibile che Nezumi
si fosse accorto di quella domanda muta che da sempre le soffiava nella testa.
E ancora: poteva essersi trattenuto fino a quell’ora per quello? Per vedere se avesse il coraggio, l’audacia o forse la
sfacciataggine di porgli quella domanda che non serviva più a nulla ormai.
Deglutì e strinse i pungi, e in
quel gesto Nezumi rivide Shion
quando prendeva una decisione importante. E imbarazzante. Sì: la domanda di Karan sarebbe stata una domanda
senza una possibile risposta, una di quelle domande che faceva anche Shion, quando voleva sapere troppo e non era ancora pronto
a capire. Una di quelle domande che lo lasciavano senza parole e lo invitavano
a ridere. Era per quello che Nezumi aveva deciso di
provocarla perchè glielo dicesse: voleva andarsene
ridendo, scacciando quel nodo che restava bloccato fra la gola e lo stomaco.
“Volevo chiederti chi fossi, Nezumi”
soffiò Karan alla fine, conscia dell’apparente
contraddizione nelle sue stesse parole.
“Cielo” fischiò Nezumi,
chiudendo gli occhi. “Sì: decisamente una domanda
imbarazzante.”
“Me lo hai chiesto tu” puntualizzò Karan,
puntando i pugni suoi fianchi. Era quella la differenza: Shion
si sarebbe scusato e avrebbe cercato di spiegare il perchè
della sua curiosità; Karan invece non retrocedeva,
anzi si intestardiva e gonfiava un po’ le guance con
una determinazione sicura e al tempo stesso divertente. “ E poi non ne ho
bisogno, adesso.”
“Oh” commentò con una punta di sarcasmo. “É riuscita ha
capirmi in poche ore? Ne sono sorpreso, Karan-san. C’è chi non ci è riuscito in anni” la canzonò. Aveva quel
modo di fare irritante e suadente che Karan aveva
visto poche volte e solo su uomini maturi; eppure su Nezumi
non stonava. E anche se era ancora un ragazzino, dietro le sue parole in
apparenza scortesi Karen colse l’avvertimento a non
cercare troppo, a non rischiare di venir delusa o a non deluderlo nel
costringerlo a mostrare ciò di cui non andava orgoglioso.
“Non è questo” sbuffò Karan.
“Solo...”
“Solo?”
“Non lo so” ammise alla fine Karan.
“Forse non sono ancora pronta per capire.”
Nezumi annuì, conscio del non detto. Karan cercava di cambiare il tipo di approccio alle persone
che le era stato insegnato: aveva una forte empatia,
ma rischiava ancora di classificare informazioni e non emozioni. Si era fidata
di lui, e aveva intuito il dolore di una vita giocata fra i vicoli e l’odio; di
giorni trascorsi braccato, a combattere per
sopravvivere. Aveva intuito qualcosa dietro ai suoi silenzi e ai suoi sorrisi
sottili, e aveva avuto la consapevolezza di non poter pretendere di sapere
tutto e subito.
“Sono un topo, Karan-san” si
strinse nelle spalle Nezumi, con una risata sottile e
argentina che sapeva di sincerità. “Non posso essere addomesticato. E la
diffidenza fa parte della mia natura. Tuttavia...” le
soffiò all’orecchio, dopo essersi avvicinato con pochi passi studiati e
teatrali. “...se avrà pazienza. Chissà. Forse quella
domanda imbarazzante potrebbe diventare interessante.”