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Autore: Tallis    04/03/2007    6 recensioni
Se vi siete mai sentiti sotto pressione e come se il vostro futuro fosse un gigantesco buco nero, sapete qual è la sensazione che prova il protagonista del racconto, e che provavo anch'io qualche anno fa. E' un tentativo di parlare del suicidio e di renderlo comprensibile, senza sceneggiate con lamette, pizzo nero ed autocompiacimento. Promesso.
Genere: Triste, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bip pip pip

 

Game over

Bip pip pip. Driiin! Tlong tlong tlong…game over.

Due file interminabili di organismi dispensanti realtà virtuale a buon mercato cinguettano, tintinnano, lanciano urletti di gioia davanti allo sguardo assente di una cinquantina di patetici  esponenti della realtà reale, nonché possessori di cervello biologico, desiderosi soltanto di tornare, almeno per i pochi minuti a cui segue il game over, a quel periodo beato della loro esistenza in cui coordinare correttamente i riflessi era quanto di meglio ci si potesse aspettare dalla loro neonata intelligenza.

Osservo il mio personaggio che si muove sullo schermo. Passo, altro passo, corsa veloce, salto mortale in avanti per evitare la lama rotante, estraggo un’arma, no meglio quell’altra, sparo al nemico, livello completato. E adesso basta. Sono due ore che gioco e so quando smettere. Decisamente, è arrivata l’ora di smettere.

Mi avvio verso l’uscita tra le due file di cibernetici invasati a cui fino a pochi secondi fa appartenevo anch’io, non saluto il proprietario, supero la porta a vetri che gira gira gira. Quando ero piccolo ci andavo pazzo, per quelle porte a vetri. Ti attaccavi ad un vetro e giravi giravi giravi, finché il mondo non diventava un turbinante delirio di luci. Ed eri sicuro che saresti uscito fuori in un altro mondo, appena avresti finito di girare.

La città intorno a me è una fantasia ultramoderna nei toni del nerofumo, interrotti soltanto dallo scintillio patinato dei cartelloni pubblicitari e dall’ossessivo lampeggiare delle insegne al neon, specchietti per le allodole di qualche megasocietà che basa la propria sopravvivenza sulla fagocitazione delle identità degli adulti nei paesi civili, e sullo sfruttamento del lavoro dei bambini nei paesi non civili. Non ci credo che questa città è stata fondata dagli uomini. Neppure se è stato duecento, cinquecento, duemila anni fa. Questa città è un organismo autosufficiente, e vuole divorarmi.

Cammino a passi lenti in mezzo al traffico delle sette di sera, la tormentata chitarra elettrica di Brian Eno mi distrugge i timpani e il QI molto piacevolmente, salendo dalle misteriose profondità dei circuiti del walkman mentre una folla di uomini-scarafaggi si riversa fuori dalla metropolitana, fuggendo in ritardo, troppo in ritardo verso la propria casa.

A proposito, ecco comparire la mia, di casa. Decine di piani, centinaia di piccolissime stanzette dove ciascuno degli inquilini- troppi, ma se anche fossimo solo io e la mia famiglia non farebbe differenza- consuma la propria ordinaria esistenza da disciplinato insetto nel formicaio. Produci molto, consuma perché altrimenti l’economia crolla ma non consumare troppo, fatti avanti, mettiti in mostra, illuditi di costruire per te mentre altri inseriscono il tuo minuscolo tassello di lavoro nel gigantesco puzzle che si divertono a montare.

Atrio, ascensore, corridoio. Campanello.

“Ah, sei tu. Ma lo sai che ore sono? E’ dalle tre che sei fuori. Dove sei stato? Lo so io dove, a farti spappolare il cervello con quei giochini elettronici del cavolo, e magari poi in un locale a bere birra, o magari tutt’e due. Guardati, guarda la tua faccia! Da quanto non ti pettini e non ti fai una doccia?”

Non ci sono, non ci sono, fai che scompaia, fai che non ci sia più.

“Ha telefonato il tuo insegnante. Dice che a scuola non fai niente tutto il giorno, sonnecchi, scrivi non si sa cosa su quell’accidenti di taccuino che ti porti sempre dietro e rispondi “Eh?” quando t’interrogano. Dice che se continui così dovrai ripetere l’anno, hai capito, ripetere l’anno. Ma mi ascolti?”

No. Non ascolto. Come fa ad ascoltare uno che non esiste? Come fa a soddisfare le richieste di scuola, famiglia, stato, mondo, se non esiste? Vi conviene solo rassegnarvi alla mia sparizione.

Attraverso la cucina, prendo una Coca Cola dal frigorifero. Esco superando altre urla di mia madre, corridoio, porta della mia stanza. Apro, chiudo senza sbattere come mi hanno abituato da bambino.

Apro la Coca Cola e ne bevo un sorso. Mi guardo intorno.

Cosa faccio? Libro, cd, tv o Internet? Vada per Internet. Pochi bip bip e sono già in compagnia, in contatto con altra gente. Sono sconosciuti, ma a quanto pare ci capiamo.

Le ore volano, leggere leggere come dita sulla tastiera del mio computer. Vola, vola, vola, e ad un certo punto capisco che è ora di scendere. So quando smettere, io.

Spengo il computer. Che ore saranno? Le tende sono chiuse, ma io capisco che è notte tarda. Le ore notturne sono diverse. Il vuoto si addensa, il buio ti si stringe addosso più intensamente, i pensieri del giorno smettono di vorticare per aria lasciando più libero il respiro.

Apro le tende, apro la finestra. Ma qualcosa non va, qualcosa è diverso dal solito.

Non vedo niente. Dove sono le luci, i fari, i neon che di solito squarciano con violenza il buio? Dove sono le insegne? E i cartelloni pubblicitari?

Nulla. L’assoluto nulla. Nulla interviene ad incitare, avvertire, suggerire, urlare. Nulla mi distrae dal mio colloquio con la luna, lo diceva un tizio giapponese, non ricordo come si chiama. Solo che stavolta non c’è nemmeno la luna. Nulla con cui colloquiare. Solo buio, e silenzio.

E’ magnifico.

Alzo la gamba, poso un piede sul davanzale, poi l’altro. La gioia mi fa battere il cuore, ed è l’unico rumore che sento. Mi do lo slancio.

Volo incontro alla notte.

Non sento l’urto.

Game over.

  
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