Allenamenti
un
po’… bagnati
Roxas
aveva quasi diciotto anni, e avrebbe iniziato l’ultimo anno di superiori di lì a
breve. Era piccolo, con il fisico piuttosto minuto, e i tratti del viso molto
dolci e delicati. I morbidi capelli biondi erano ritti sulla testa, e si
muovevano con il vento caldo. Da bambino veniva spesso scambiato per una
femmina, ma non se la prendeva più di tanto e continuava a farsi gli affari
suoi.
Aveva un fratello, Sora, il quale, al contrario di
lui, era più robusto e alto. Non aveva ancora capito come questo potesse essere
successo, visto che erano gemelli, però la genetica a volte è strana, e quindi
aveva smesso di domandarselo.
In effetti, le differenze tra di loro era molte:
Sora non solo era più alto e robusto, ma aveva anche
lunghi capelli castani che gli davano un aria molto allegra e solare e i suoi
occhi erano blu intenso, quasi come il cielo di prima mattina, mentre Roxas aveva delicati occhi celeste chiaro e i capelli biondo
acceso.
Ma le differenze non erano solo fisiche: i due
avevano caratteri completamente opposti. Il primo era allegro e divertente,
molto immaturo sotto tanti aspetti, e odiava con tutto sé stesso studiare (infatti al momento era a casa a recuperare le materie
insufficienti); l’altro aveva un temperamento più tranquillo e docile, si
arrabbiava di rado e solo se stuzzicato. A scuola aveva nove a tutto, e riusciva
perfettamente a unire il divertimento con il dovere.
Nonostante questo, però, i due si volevano molto bene
e non avevano alcun problema a convivere, contrariamente a molte altre coppie di
fratelli.
Adesso, Roxas era seduto
all’ombra di un grande albero, a frescheggiare. Si era
trasferito per l’estate a casa dei nonni perché i suoi amici erano andati tutti
al mare e i suoi genitori erano occupati con l’albergo di
famiglia.
Non che lì ci fossero molti svaghi, però c’erano
calma e tranquillità, e questo lo faceva rilassare. Inoltre, poco lontano da
casa, c’era una strada sterrata che serpeggiava intorno alle piante nel bosco e
che fungeva perfettamente da pista di allenamento per lo
skate.
Ogni giorno il ragazzo prendeva la tavola e andava a
provare nuove mosse, cercando di scansare i pini e di saltare sopra ai massi.
Era frequente che tornasse a casa polveroso e sudato,
con qualche taglio qua e là, e sua nonna lo sgridava ogni
volta.
“Mi farai morire di
crepacuore! –diceva- se tu ti facessi male sul serio, io cosa direi a tua
madre?” gli gridava. Lui non aveva ancora capito se la sua
preoccupazione era quella che lui si ammazzasse o che dovesse affrontare la
figlia. Quando ci pensava bene, propendeva per la seconda, ma solo perché
conosceva la donna: sua madre era quella che, quando lui e Sora avevano rotto il
vaso che c’era nella hall dell’albergo con una pallonata, aveva continuato a
urlare e sbraitare facendoli sentire piccoli, piccoli. Se qualcosa non le andava
bene o se la deludevi, inveiva contro di te fino a perdere la
voce.
“Nonna, io vado!”
gridò Roxas dal cortile, con
in mano lo skate. Lei si affacciò.
“Anche
oggi?
Ma non ti sei allenato abbastanza?” cercò di fermarlo.
“No” rispose
semplicemente lui.
“Potresti fare altro,
non credi?” tentò ancora. Ogni volta la stessa storia. Il ragazzo
sbuffò.
“Del tipo?” chiese.
Sua nonna rimase zitta e lui prese il momento e si avviò.
“Ci vediamo dopo” la
salutò, agitando una mano.
“Aspetta!” lo
richiamò lei. Adesso iniziava ad innervosirsi.
“Che c’è?” domandò
in malo modo. La donna iniziò ad attorcigliarsi le mani, nervosa.
“Senti, sta’ attento, va
bene?
Ho sentito al meteo che oggi ci sarà un temporale, e non
vorrei che tu ne venissi sorpreso mentre sei in giro” lo avvertì.
“Oh. Grazie, nonna,
tornerò presto” promise con un sorriso, che lei
ricambiò.
Un po’ di senso di colpa lo pervase per un istante,
ma scomparve subito: in fin dei conti non andava mica a drogarsi, ubriacarsi o a
prostituirsi, giusto?
Si mise la tavola da skate sotto i piedi e partì a
tutta velocità verso il sentiero.
“Ahia!” esclamò,
quando cadde a terra e un sasso gli lacerò il polpaccio. Strinse i denti e
ricacciò indietro le lacrime, cercando di non piangere. Che
dolore!
Si controllò la ferita a denti stretti, tentando di
non gridare: era parecchio
profonda.
Era finito con le ruote dello skateboard sopra un
ramo, ed era stato scaraventato a terra, dove un sasso appuntito lo aveva
tagliato. Sua nonna lo avrebbe ucciso, di questo era
sicuro.
Si mise a sedere sotto un albero per avere un po’ di
ombra e cercò di pulirsi come meglio poteva il graffio. Solo a sfiorarlo sentiva
un dolore acuto. “Perfetto! Mi ci mancava solo questo!”
pensò
arrabbiato. Mancava circa un mese all’inizio della
scuola e questo significava che c’era poco tempo per trovare qualcosa di
spettacolare per la gara.
L’ultimo giorno di lezioni, infatti, lui e Hayner, dopo un litigio piuttosto acceso (come solito),
avevano deciso di sfidarsi con lo skate per finire quella
disputa.
Erano nemici da quando avevano cinque anni e lui e i
suoi amici lo avevano preso in giro perché sembrava una bambina. Non se l’era
mai presa per quell’errore, ma la faccia tosta e il modo in cui gliel’avevano
detto lo avevano fatto arrabbiare. Continuavano da quasi quattordici anni a
litigare e sfidarsi, ma erano sempre alla pari, e ormai questo non andava più
bene. Durante l’ultimo anno di liceo dovevano obbligatoriamente decidere chi dei
due era il migliore, o sarebbe stato un problema per la sua salute
mentale.
Lui e Sora avrebbero fatto squadra in un percorso a
ostacoli che avrebbe preparato Riku, il migliore amico
di suo fratello, nonché giudice di gare. Sarebbe stato un due contro due, con la
regola che chi cade viene squalificato. Se avesse continuato in questo modo,
il primo a esser buttato fuori sarebbe stato lui.
Si fasciò alla meglio la gamba con un fazzoletto e si
alzò, provando ad appoggiarsi a terra. Bruciava un po’, ma per il momento poteva
andare.
“Forza, continuiamo”
disse, salendo di nuovo sulla tavola.
Axel e
Larxene avevano passato tutta la mattina oziando e
mangiando patatine davanti al televisore. Si erano goduti tre film d’amore e un
thriller, poi il ragazzo si era alzato, stiracchiandosi.
“Devo tendere i
panni” disse, andando alla lavatrice a prendere il
bucato.
“Guarda che più tardi ci
sarà un temporale, non so se ti conviene” lo avvertì l’amica. Lui fissò
il cielo, limpido e azzurro, e rise.
“Certamente” la
assecondò.
“Axel, sono
seria. Nel primo pomeriggio pioverà molto forte” ripeté, sfogliando una rivista di
moda.
“E come lo sapresti, di
grazia?” si prese gioco di lei.
“Lo sento” rispose,
alzando le spalle. Lui rimase un secondo basito.
“Lo… senti?” chiese incuriosito.
“Sì. Se annuso l’aria
posso sentire perfettamente l’odore dell’elettricità” spiegò. Dopo un primo momento di incredulità, il ragazzo
rise forte.
“Logico,
scusami! Come
ho fatto a non pensarci prima? Tu annusi l’elettricità” ripeté divertito.
“Miscredente, fai come
vuoi, ma poi non ti lamentare se i tuoi panni sono bagnati come quelli di un
pesce rosso” lo avvertì. Axel ci pensò un
attimo.
“I pesci rossi non hanno i
vestiti” le fece presente, uscendo di casa con la tinozza in
mano.
“Lo dici tu”
ribatté Larxene, quando lui fu fuori portata
d’orecchio.
Quando il sole iniziò a scomparire, Roxas si chiese se per caso non fosse in giro da più di
quello che pensava, poi alzò lo sguardo al cielo. Minacciose nuvole nere si
erano addensate sopra la sua testa, facendo presagire un temporale di quelli coi
fiocchi. Fermandosi di botto, il ragazzo si sentì paralizzare: i tuoni lo
spaventavano non poco.
Come richiamato dal suo pensiero, un lampo squarciò
il cielo e il rimbombo lo fece sobbalzare. Si strinse lo skate al petto e cercò
di rientrare prima di prendere tutta l’acqua, ma la pioggia iniziò a cadere e si
ritrovò bagnato come un pulcino in meno di un secondo.
“E la nonna me lo aveva
anche detto!” si ricordò, maledicendosi.
Era piuttosto lontano da casa, con lo skate ci aveva
messo circa venti minuti per arrivare lì se non di più, visto che aveva
continuato ad allontanarsi mentre si allenava. Rientrare con quella pioggia era
fuori discussione. “E’ fuori
discussione anche rimanere qui, però: durante i temporali si deve stare lontani
dagli alberi, lo dicono tutti che attirano i fulmini. Non voglio fare la fine del pollo arrosto” considerò.
Decise di continuare lungo il sentiero su cui si
stava allenando, invece di tornare indietro, tenendo un passo piuttosto sveglio
nonostante la ferita. I capelli, di solito sparati sulla testa e appuntiti, gli
ricaddero sulla faccia, appiccicandosi sopra agli occhi e sulle guance. “Così sembro un
emo” pensò. Si scansò la frangetta e
continuò a camminare, ignorando il dolore e il freddo.
Ecco, se c’era una cosa che odiava di quel posto, era
che quando pioveva la temperatura si abbassava notevolmente anche d’estate.
Rabbrividì quando il vento soffiò e si strinse nella maglietta bianca. Com’era
possibile che in così poco tempo fossero almeno dieci gradi meno di prima che
iniziasse a piovere? Ma fisicamente si poteva fare?
Starnutì e maledisse tutta quell’acqua. “La nonna mi
ammazza”
“T’oh, piove”
commentò Larxene quando l’acqua iniziò a scrosciare.
Axel la fissò.
“Ok, questo è strano”
decise. Lei sorrise e si batté il naso con l’indice un paio di
volte.
“Io te l’avevo
detto” gli ricordò. Il ragazzo incrociò le braccia.
“Non è possibile. Da
scienziato quale sono, ti dico che non è possibile che tu sapessi del temporale,
a meno che tu non abbia guardato le previsioni del tempo”
“Non guardavo la
televisione da un mese e mezzo, e lo sai. Con quanto mi fai
lavorare, non mi rimane quasi nemmeno il tempo per lavarmi” gli fece presente.
“E quindi? Come hai
fatto?”
“Te l’ho già detto: ho
annusato l’aria ed ho sentito l’elettricità. Non ci posso mica
fare niente se con me funziona così”
rispose. Axel rimase zitto e si mise a pensare,
confuso.
Mettendosi a sedere sul divano, Larxene decise di divertirsi e aspettare qualche minuto
prima di ricordarglielo.
Fece girare la bustina del tè dentro alla tazza che
teneva in mano, osservando l’acqua colorarsi di ocra, poi si schiarì la
voce.
“Ehi, scienziato”
lo chiamò. Il ragazzo grugnì in risposta.
“Ti disturbo se ti dico
una cosa?” domandò, ridendo sotto i baffi.
“Sì, e parecchio”
rispose lui in malo modo. Gli dava noia il fatto che ci fosse qualcosa che non
si spiegava.
“Ok” accettò lei.
Poi, senza riuscire a contenersi, parlò di nuovo.
“Tu ti sei laureato in
anticipo perché sei un mezzo genio, con una memoria di ferro, dico bene?”
chiese.
“Sì, e allora?”
ribatté lui, irritato. Larxene
rise.
“Niente, mi stavo solo
chiedendo quando ti saresti ricordato dei panni che hai lasciato fuori
stesi” rispose.
Imprecando, Axel corse
fuori dalla porta per recuperare i vestiti.
Roxas
continuava a camminare senza meta. Sapeva che stava per allontanarsi dal
boschetto che contornava il sentiero perché gli alberi erano sempre più radi, ma
non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. La pioggia era diminuita e i
tuoni avevano smesso di rimbombare già da un po’, però i suoi vestiti erano
sempre molli zuppi, così come i suoi capelli e qualsiasi altra parte del suo
corpo. Non era stata una grande idea quella di allontanarsi da casa, soprattutto
visto che, una volta asciutto, avrebbe dovuto
rientrare. Come glielo spiegava a sua nonna che si era perso a causa del panico?
L’unico che sapeva della sua paura dei temporali era suo fratello, e lui non
avrebbe fatto niente affinché gli altri ne venissero a conoscenza. Si vergognava
da morire di questo, anche perché gli sembrava una fobia da bambini, ma non
riusciva a superarla.
Scorse in lontananza una casetta, e si chiese se non
fosse un miraggio. Il taglio sul polpaccio aveva continuato a pulsare mentre
camminava, protestando per tutto il tempo in cui aveva camminato, ma lo ignorò.
Accelerò un po’ il passo per avvicinarsi alla costruzione e vedere se era
abitata e, nel caso, chiedere di poter usare il telefono per chiamare i suoi e
rassicurarli sulle sue condizioni.
“Perché diventa tutto
sfocato?” si chiese, iniziando a barcollare. Il freddo e l’acqua gli
erano entrati nelle ossa e si sentiva stanco e affaticato. La testa gli girava e
aveva le guance in fiamme.
“N-no, non ora… non
svenire” si disse, incitandosi. Gli bastava fare solo qualche altro
passo…
Axel
era rientrato in casa di malumore, con i capelli bagnati, i panni in mano
completamente molli e i vestiti che aveva indosso zuppi. Aveva continuato a
imprecare e a maledire Larxene fino a quando non era
entrato in doccia e si era lavato con l’acqua calda.
“Lo vedi, signor genio,
che anche tu hai le tue debolezze?” lo prese in giro l’amica, entrando in
bagno mentre lui si metteva lo shampoo.
“Mi perseguiti anche
mentre mi lavo? Guarda che potrei dirlo a Demyx”
“Fai pure, tanto di te non
è geloso.
Tu sei come una sorella, per me, e io di certo non mi vergogno
a vederti nudo” rispose con un’alzata le
spalle. Il ragazzo alzò
gli occhi al cielo e scosse la testa, arrendendosi.
“Comunque sta iniziando a
smettere, se esci velocemente puoi vedere il tuo tanto amato tramonto” lo
avvisò, ancora con la tazza del tè in mano.
“Sono molle, e fuori è
freddo. Solo un idiota uscirebbe così” le
fece presente.
“E’ per questo che te l’ho
detto” rise Larxene.
Veloce come una pantera, Axel prese l’asciugamano e glielo tirò dritto in
faccia.
Qualche minuto dopo, quando uscì dalla doccia, il
ragazzo guardò fuori dalla finestra. Forse, se si fosse asciugato almeno
addosso, avrebbe potuto affacciarsi in veranda e godersi il
tramonto.
Era una fissa che aveva sin da piccolo, quella del
crepuscolo: si metteva seduto sul cornicione della finestra e guardava il sole
scomparire, aspettando il momento in cui tutto si sarebbe colorato di rosso
fuoco. Era per quello che aveva tinto i suoi capelli di quel
colore.
Quando si era trasferito lì, due anni prima, aveva
subito notato che il sole, scomparendo dietro alle cime degli alberi, creava un
gioco di luce quasi magico, con i raggi che sembravano quasi psichedelici quando
venivano tagliati dai tronchi per poi uscire dal bosco con una forma sempre
diversa.
Mandando al diavolo i capelli molli, s’infilò una
tuta e si mise un asciugamano intorno alla testa, per poi
uscire.
Si beò della vista di quel tramonto, fin quando il
sole non fu quasi tutto sotto l’orizzonte. Sentiva il vento freddo sferzargli le
guance e ascoltava in un silenzio assoluto i rumori della foresta: gli uccellini
che cinguettavano, cercando di asciugare le proprie piume; le foglie che si
muovevano; un ramo che si spezzava; dei passi un po’ zoppicanti che risuonavano
sul ghiaino. “Passi zoppicanti?” si chiese. Abbassò lo sguardo e
vide un’ombra nera camminare incerta uscendo dal bosco, indefinita perché il
sole dietro la rendeva sfocata. Sembrava un’apparizione
divina.
Non fece in tempo a stupirsene, che quell’ombra cadde
a terra, svenuta.