the pain splattertear drops on my shirt
I told you I'd let them go
Mi tirai su a fatica, con il
broncio, esaminando i graffietti che mi ero procurato, e soprattutto
esaminai lo squarcio nei pantaloni buoni che la
mamma aveva comprato da poco: e questa come andavo a spiegargliela? Non
c’era soluzione, sarei stato in punizione per almeno una
settimana, e non avrei potuto scambiare le figurine con Karl.
«Oh,
ma sei proprio una femminuccia, allora!» esclamò
Naive, alzandosi da terra e guardandomi con superiorità
«È proprio vero che noi ragazze siamo
più forti!» il naso arricciato, le labbra
corrucciate in un’espressione da quadro di Leonardo Da Vinci.
Seppur una bellissima bambina, Naive Pevency era una delle creature
più fastidiose e impertinenti del pianeta.
«Naive,
credo che l’idea di rotolarci giù per questo
burrone non sia stata poi così grande. Stavamo per scivolare
giù!» esclamai io, sbuffando e mettendomi a
braccia conserte di fronte a lei. Era più alta di me di
qualche centimetro e già questo bastava a rendermela
antipatica. A dieci anni l’altezza era un problema
fondamentale.
«Quante
storie fai, Harold! Non sarà mica per i
pantaloni!» disse lei, d’un tratto, squadrandomi il
ginocchio scoperto e sanguinante. Detto sinceramente, la cosa che
più mi preoccupava erano i pantaloni: già la voce
isterica di mia madre mi risuonava in testa.
«Me
li aggiusti tu, Naive?» risposi impertinente, cercando lo
zainetto che avevo scaraventato sull’erba, prima di fare
l’enorme idiozia di rotolarmi giù dalla discesa
con Naive.
Dello
zainetto, però, non rimaneva un granché: il
panino con il burro d’arachidi era magicamente scomparso, le
figurine erano tutte sparse sull’erba – adesso non
rimaneva altro che la faccia del protagonista di un cartone che neanche
guardavo – e l’unica cosa che rimaneva intatta era
il mio pacchetto preziosissimo di Haribo. Le Haribo ricoperte di
zucchero erano le mie preferite: ogni volta che andavo al supermercato
con mia madre ne prendevo almeno due pacchi e li nascondevo sotto i
cartoni di latte per non farglieli vedere. Lei diceva sempre che
cariavano i denti, ma detto francamente, io sarei rimasto dal dentista
giorni interi a costo di mangiare le mie caramelle preferite.
Aprii
il pacchetto, ma prima che ne potessi prendere una, Naive
s’era già avventata su di me con le mani aperte
per prenderne almeno un pugno.
«Naive,
aspetta! Sembra che hai le pulci nel sedere!» dissi io,
indignato, quando la vidi riempirsi la bocca di caramelle.
Eravamo
amici da ormai cinque anni e ancora non sapeva che la prima Haribo
spettava sempre a me? Che amica era?!
«Sei
sempre il solito taccagno» borbottò lei, prima di
sedersi con il viso imbronciato rivolto verso le montagne non troppo
lontane da lì. Non era tanta, ma si riusciva a vedere ancora
un po’ di neve restante dall’inverno appena passato.
«Dai,
vieni. Ora puoi prenderle» dissi, sconfitto, allungandole il
pacchetto, un po’ irritato.
Quando
vidi il suo viso illuminato e quando mi rivolse quel sorriso
così sincero, la mia irritazione passò in un
secondo. Mi avvicinai a lei, facendo attenzione a non sporcare il suo
bel vestito bianco con il sangue del mio ginocchio sbucciato.
«Prometti
che rimarremo insieme qualsiasi cosa accada?» disse lei, con
la bocca piena di caramelle e gli occhi socchiusi. Mi faceva la stessa
domanda ogni volta che andavamo lì, nel nostro posto
segreto.
«Lo
giuro sulle mie Haribo!» esclamai contento, allungando una
caramella in modo che potesse toccare quella di Naive, come una sorta
di “giurin giurello” ma con le Haribo.
«Allora
è davvero una promessa importante!» rise lei, e
ricordo che mai sentii risata più bella.
Londra di notte
è probabilmente uno degli spettacoli più belli
che un uomo possa vedere. Neanche ad un concerto dei Ramones i miei
occhi avrebbero brillato così tanto. Avevo quasi
dimenticato, dopo un anno in America, il profumo della mia Inghilterra,
il London Eye e tutti i palazzi illuminati come se ogni giorno ci fosse
sempre festa.
Avevo promesso a me
stesso e alla mia Londra che sarei tornato, prima o poi. A dire la
verità lo promisi anche alla persona più
importante di tutte, quella che mi aveva dato il primo bacio, quella
con cui avevo provato l’emozione della prima notte, quella
che avevo amato con tutto il mio cuore, ma lei se n’era
andata da un pezzo, e di lei non mi restava nient’altro che
un maglione verde acqua lanoso e sgualcito.
Nient’altro.
Tutte le promesse che
c’eravamo fatti sin dai primi anni di vita erano andate
perse, erano finite come le Haribo nel mini pacchetto: in un batter
d’occhio.
Aprii il portoncino
scricchiolante che una sera d’Agosto avevamo tinto di
azzurro, insieme, e trovai il vuoto. Apparente.
Un odore improvviso di
caramello e di zucchero bruciato perforò le mie narici e
notai che man mano mi avvicinavo alla cucina, l’odore si
faceva sempre più insistente, tanto che ormai il mio olfatto
si stava anche abituando all’odore forte.
Naive stava
lì in piedi di fronte ai fornelli, e più che la
mia Naive adesso mi sembrava un’Hermione Granger in una
lezione di Piton.
Aveva addosso il suo
maglione verde acqua, con tutto che ad Agosto, a Londra non
è che ci fosse poi freddo, e i suoi folti capelli neri erano
raccolti in una crocchia malmessa che non aveva proprio
l’aria del perfetto chignon da ballerina che faceva
sempre.
«Buonasera,
Harold. Com’è stato il viaggio?» la
guardai confuso, probabilmente con il più ebete dei sorrisi
stampato sulle labbra. Naive mi faceva sempre questo strano effetto
quando mi parlava.
«Come mai
sei tornata?» domandai io, con la voce tremante. Era
più di un anno che non la vedevo dentro casa mia. Casa
nostra.
La
guardai correre su e giù per la stanza: stava raccattando
ogni singolo oggetto che le apparteneva là dentro. La nostra
casa, la casa che avevamo comprato il giorno del suo compleanno.
L’avevamo sempre voluto una casa a Londra, lontani da Holmes
Chapel e da ogni cosa che potesse ricordarle la sua famiglia. Sapevo
che voleva stare lontana da sua madre e soprattutto da suo padre.
Conoscevo Naive a memoria, eppure non avevo calcolato che questa
distanza, questi tour e quelle fan scalmanate potessero allontanarla da
me.
«Stai
lontano da me, Harry Styles, non ti voglio mai più
vedere» urlò lei, lanciandomi quel maglione
orribile che le regalai per il suo sedicesimo compleanno: ancora le
stava alla perfezione, come se in quei due anni non fosse cambiata o
cresciuta di un centimetro.
«Io
ti amo» dissi quasi in lacrime di fronte a lei.
La
consapevolezza di averla lasciata sola per più di tre mesi,
piena di speranze mi faceva stringere il cuore. Ero io il colpevole.
Solo io.
«Mi
avevi promesso che la prima volta che avresti visto New York saresti
stato con me, Harold. E invece con chi ci sei andato? Con quei quattro
amichetti che ti sei fatto a quello stupido programma!»
esclamò lei, indignata, buttando la cornice con la nostra
foto a terra, facendola ridurre in nient’altro che pezzi.
«Non
venirmi a cercare, io non lo farò»
proseguì lei.
Quella
di New York non era stata che la goccia che aveva fatto traboccare il
vaso. In effetti le avevo promesso proprio quello: l’America
era il posto che da sempre volevamo visitare insieme. Avevamo
già progettato di prendere un piccolo pullman in stile figli
dei fiori e girare per l’America un mese intero, ma il tour e
i viaggi per la promozione del nuovo cd mi avevano impedito di
mantenere la promessa.
«Non
andare via» implorai io, cercando di trattenerla per un
polso.
Si
scostò in modo così violento che per un attimo
neanche la riconobbi, la mia dolce e delicata Naive.
Se
ne andò sbattendo la porta, e lasciandomi in un mare di
macerie, e con la nostra foto sgualcita in mano.
«Prometti
che rimarremo sempre insieme, qualunque cosa accada?» disse
lei, imitando la mia voce bianca, da bambino.
Quella volta, a dieci
anni, nel nostro posto segreto era rimasta la volta della
“promessa”. Naive citava sempre quel momento con i
suoi amici.
«Oh,
Naive» dissi io, facendo per abbracciarla, ma lei si
girò di colpo, con il mestolo in mano e con un sorriso
preoccupante addosso. Era buffa, e assomigliava davvero molto ad
Hermione Granger. Risi, per l’assurda somiglianza, e posai le
labbra sulle sue, assaporando di nuovo quel sapore di caramello e
cioccolato che sempre avevano avuto. Anche a dieci anni.
«Ho provato
a fare le Haribo. Ho cercato la ricetta online, ma mi sa che sono
venuto proprio un pasticcio» disse lei, allontanandosi dai
fornelli per un secondo e prendendo dal frigo delle strane cose gommose
che più che caramelle sembravano cacca di piccione.
«Mi sa che
non sono venute proprio bene, eh?» domandai io, prendendone
una e portandola alle labbra.
Dure come il
cemento.
«Sono state
ventiquattro ore nel frigo, e con tutto ancora non hanno
l’aspetto delle caramelle» pronunciò
lei, chiaramente delusa.
Adoravo la sua
espressione corrucciata e il suo nasino all’insù.
Adoravo tutto di Naive Pevency sin dalla mia prima sbucciatura al
ginocchio. Era stato come un colpo di fulmine, il nostro.
La prima volta che mi disse quel ti amo così
stentato, ricordo che sorrisi e la baciai, sotto la pioggia ridi, risi
per ore. Era strano vedere come Naive Pevency finalmente si fosse
innamorata.
«Ti prometto
che non partirò mai più senza di te. Giuro sulle
mie Haribo» dissi io, estraendo dal borsone enorme che mi
portavo dietro sin dal mio arrivo a Heathrow, un enorme pacco di
caramelle.
Subito il suo viso si illuminò, ed estrasse dal pacco
già aperto e già quasi finito, tra parentesi, una
caramella rossa, invitando me con un cenno del capo, a prendere
un'altra.
«Allora è davvero una
promessa importante!» esclamò lei,
ridendo e mangiando la sua caramella, fiondandosi tra le mie
braccia.
p.s la mia Naive è come al SOLITO Lily Collins.
Vi saluto e vi mando come sempre un grande bacio!
Annie (che ha cambiato nick in haroldssrose)