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Autore: fiammah_grace    23/08/2012    2 recensioni
Sebbene tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante circolava ancora negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
Henry era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige erano pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé, in realtà.
Eppure qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai inglobato completamente in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si lasciare l’appartamento 302...
...o peggio...
....che oramai non potesse essere più capace di farlo.
Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continuava ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di esso...
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Townshend, Un po' tutti, Walter Sullivan
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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NdA:
 
Ho diviso il capitolo in tre paragrafi: 
-PRIMA PARTE: Bambino abbandonato 
-SECONDA PARTE: Ricordi dal passato 
-TERZA PARTE: La ricomposizione della bambola 
Questo per agevolare un po’ la lettura. Spero il capitolo vi piaccia! Il prossimo aggiornamento sarà l’ultimo!! Un sincero ringraziamento a coloro che mi stanno seguendo!! 
Fiammah_Grace
 

  
  
  
  
CAPITOLO 07 
  
  
L’oscurità va via. Va via e si sostituisce alla luce. 
Poi scompare. Scompare per far spazio alla notte. 
Tutti quegli incubi che una volta facevo da bambino. 
  
La mattina sopraggiunge sempre...e arriva troppo tardi. 
Che cosa sta cercando di dimenticare la mia mente? Che cosa ho dimenticato di nascondere? 
  
Gli incubi potrebbero essere realtà, io non lo so...
Dentro e fuori, sopra e sotto. Non so se tutto questo è un’illusione.
Intorno e intorno, ancora e ancora, ogni giorno mi assale la confusione. 
(TENDER SUGAR) 
  
  
-PRIMA PARTE: Bambino abbandonato 
  
Dopo aver celebrato il rito della Sacra Assunzione, altri mondi sono comparsi nel suo universo, che ha iniziato a gonfiarsi in maniera grottesca.
Ma il suo universo è diverso dal nostro. Ha i suoi limiti. Ed entro i limiti del suo universo, comanda lui.
E nella parte più remota del suo regno c'è sua madre.
 
  
(Messaggio scritto sul muro del ripostiglio dell’appartamento 302) 
  
  
Quando Walter Sullivan seppe che era tenuta prigioniera lì dentro, nell’appartamento 302 di South Ashfield Heights, decise di liberarla dalla corruzione del mondo. Il rituale dei ventuno sacramenti lo avrebbe condotto a lei presto, prestissimo… 
Allora sarebbero potuti stare assieme per sempre. 
Fino a quel momento, ella avrebbe dormito, aspettando il momento della riunione. 
  
“Mamma, mamma!” 
  
Una donna dal volto sfregiato batteva alla porta #302 sconsideratamente. Nonostante il braccio rotto, ingessato, non accennava a smettere, colpendo quella porta con violenza. 
Per quanto continuasse a bussare, tuttavia, non aveva ricevuto alcuna risposta. 
  
Il respiro, il respiro… 
Sentiva il suo respiro, soffriva. 
Come poteva risvegliarla? Perché non tornava? Perché non apriva? Eppure era lì per lei. 
Continuava a bussare, mentre le lacrime scorrevano sulle guance e la voce si strozzava in gola. 
  
“Fammi entrare!” 
  
Gli occhi fissavano intensi la porta, incapaci di accettare che nessuno le avrebbe mai permesso di ricongiungersi alla madre. 
  
A sua madre…madre… 
  
Alla… 
  
Alla Santa Madre? La mamma? 
  
“Mamma…mamma svegliati, fammi entrare!” 
  
Solo allora cessò, per qualche attimo, di bussare alla porta. Sentì la testa scoppiare e gli occhi bruciare per il pianto. 
  
“Lei mi aspetta…” 
  
La sua voce si fece profonda. Ella si allontanò e prese a camminare per quel corridoio tetro e di un rosso vivo quasi accecante. 
Una serie di rumori grotteschi, simili a un lamento, rimbombavano nell’ambiente, ma lei sembrava non farci affatto caso. Come fosse la sua casa, quella. La sua eterna persecuzione alla quale era abituata. Tuttavia, ancora non riusciva a credere che, da qualche parte dentro di sé, conoscesse per davvero quel posto orrido. 
Cominciò a sentire l’affanno dentro crescere a dismisura. Un dolore dietro la schiena la pervase ed ebbe la terribile sensazione di essere sola. 
Di essere completamente sola. Abbandonata dal resto del mondo cinico e indifferente, che non avrebbe fatto nulla per rassicurarla e farla sentire amata. Come fosse destinata a morire in quello stato d’angoscia e di desolazione. 
  
Subito prese a singhiozzare, spaventata, mentre corse via cercando di allontanare da sé quella paura accecante. 
Si chiedeva perché mai sua madre non ci fosse. Si chiedeva come mai non riuscisse a dormine allietata. Si chiedeva perché non si svegliasse. 
  
“Mamma…ho tanta paura…” 
  
S’inginocchiò a terra presa dallo sconforto. Quegli strani segni rossi che investivano tutto il suo corpo si scurirono ulteriormente, fino a farla tremare sempre di più. 
Prese a strillare non sapendo come contenere tutta quell’energia, pronunciando delle parole così velocemente che stesso una parte di lei si sorprese di averle proferite. Stesso lei non sapeva da quale parte del suo cervello fossero nate. Non sapeva nemmeno che significato avessero o in quale lingua fossero pronunciate. 
  
Poi, di colpo, il dolore finì. Spalancò gli occhi, sorpresa e sgomentata. Vide un uomo con un cappotto blu scuro seduto di fronte a lei. 
  
Egli la guardava in silenzio, gelido. Nel buio del corridoio, il bagliore dei suoi occhi verdi destava una grande inquietudine. 
Lei rimase ad osservarlo impietrita. 
Quell’uomo…quel giovane dai capelli biondi…lei lo aveva già visto. 
Sapeva chi era e sapeva che doveva stare alla larga da lui. Provava dolore solo a guardarlo. 
Egli intanto continuava a fissare la ragazza imperterrita, con un’espressione così scura che ella non poté non chiedersi il perché di un simile sguardo. 
  
Cosa aveva reso lo sguardo di quell’uomo così inumano? 
  
A quel punto, all’uomo andò a sostituirsi una seconda immagine, quella di un bambino dall’aria triste. Presto lei si accorse che anche lui piangeva. Piangeva silenziosamente, mentre le lacrime raggiungevano le labbra che andavano a deformarsi per trattenere i singhiozzi. 
La ragazza sentì quelle stesse emozioni terribili dentro il suo animo, tant’è che prese nuovamente a tremare. 
Il rossore sul suo corpo si andò ad intensificare ancora e ancora. Oramai quasi tutto il volto e il corpo era tinteggiato di rosso scuro. 
Sentiva dentro di sé il senso dell’abbandono. 
Sentiva dentro di sé la paura della solitudine. 
Sentiva dentro di sé la speranza di rivedere la Santa Madre. 
Sentiva dentro di sé che voleva riabbracciare la mamma. 
  
Eileen Galvin riprese a pronunciare parole incomprensibili, avvertendo in corpo un dolore terribile. 
E di nuovo quell’unico desiderio che covava in corpo…la Madre. 
  
Se solo lui avesse saputo, invece, di essere stato ingannato… 
  
L’uomo dal cappotto continuava a fissarla mentre Eileen si dimenava e strillava. Il suo sguardo si faceva sempre più severo e spento, ma non accennava a calare gli occhi da lei. 
  
*** 
  
[APPARTAMENTO 303, South Ashfield Heights] 
  
“L'ultimo segno,
E Dio disse,
separa dalla carne anche colei che è
 la Madre Rinata e colui che riceve Saggezza. Se questo sarà fatto, attraverso il mistero dei 21 sacramenti, la madre rinascerà e la nazione del peccato sarà ridente.” 
  
(Passo della Bibbia del culto sui ventuno sacramenti. 
Nel sottopassaggio della Wish house)


 
  
20121… 
Ovvero 20/21. 
  
Eileen rimase ad osservare quei numeri per diverso tempo allo specchio, mentre il vetro del bagno diveniva sempre più opaco. 
Quel giorno, aveva fatto davvero uno strano sogno… 
  
Forse per questo stava osservando quel marchio. 
  
20/21 
  
Strinse gli occhi con aria sofferta. La sua schiena era pallida e umida e si sentiva tremare per via del freddo. Eppure non aveva il coraggio di staccare gli occhi da quella visione. 
  
20/21 
  
Eh sì…era stato davvero un orribile sogno bizzarro. 
  
Quello che vedeva, era stato il marchio di tanta gente che era morta. Lei era, invece, l’unica a possederlo da donna…viva. 
Era una consapevolezza strana da portare con sé. Quello era un marchio della morte. 
  
Per questo odiava fare sogni come quello. 
  
Quanto avrebbe voluto coprire quello specchio con un telo. Quanto avrebbe voluto dimenticare quella parte del suo passato. 
  
Ancora pensava a quel sogno. 
  
Entrò nella vasca da bagno e socchiuse gli occhi, mentre cercava di rasserenarsi. 
Nella sua mente rimbombavano ancora molte emozioni. Emozioni angustianti, laceranti, devastanti. 
Alzò gli occhi verso le tende dalle quali filtrava la luce mattutina. Era giorno, il buio si era dissipato. Tuttavia… 
  
Ancora pensava a quell’incubo. 
  
Ancora pensava a quelle lacrime di dolore. 
  
 
  
A quel povero bambino ingannato. 
  
*** 
  
[IL CIMITERO DI SILENT HILL, da qualche parte nella foresta] 
  
Il vento soffiava tenue, alzando il terriccio di quella landa desolata. Era un luogo terribile, quello, il cimitero di Silent Hill. 
Eileen strinse il giubbino di jeans sul collo e si guardò attorno. Non c’era nessuno. Le tombe erano disposte in maniera disordinata e non vi era una grande manutenzione dell’ambiente. Subito si avvicinò ad una lapide in particolare e la osservò. 
  
“…riposerai mai in pace?” sussurrò. 
  
Si inginocchiò e con la mano scostò appena la terra lì attorno. Strinse gli occhi, provando una grande compassione per la persona sepolta lì sotto. 
In verità, un corpo in carne e ossa non c’era, visto che era stato utilizzato per il malsano rituale di un culto pagano: il rituale della sacra assunzione. 
Provò un’orribile sensazione in corpo nel riportare alla mente quel che era successo quel giorno. Per Eileen Galvin era stato davvero difficile ritornare alla vita di tutti i giorni, e ancora oggi era dura sopravvivere alla luce di quella consapevolezza. La consapevolezza di quegli incubi. 
Eppure definirli in tal modo non era corretto, visto che erano stati reali. 
  
Sebbene fosse passato del tempo, ricordava perfettamente le emozioni di Walter Sullivan. Ricordava perfettamente la sua anima contorcersi nel dolore e nel nichilismo. 
  
Dalla borsa estrasse una piccola bambola di pezza. La girò fra le mani, lasciando che nella mente galleggiassero dei ricordi lontani. Quella bambola gliel’aveva data Henry durante una delle sue visite nell’ ospedale St. Jerome, dove ella era stata ricoverata. Le raccontò che era stato Walter Sullivan a dargliela, dicendole che lei stessa, anni prima, l’aveva donata a lui. 
Eileen non ricordava quel giorno, eppure le parve così strano che, invece, qualcuno l’avesse conservata così gelosamente per così tanto tempo. Lei che quel ricordo, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a farlo riaffiorare dalla mente. 
Strinse quella bambola e socchiuse gli occhi. 
Provò così tanto dolore nel non ricordare. Eppure lui, quel giorno, decise di fare di lei la Madre Rinata. Il ventesimo segno. 
Sollevò la mano e accarezzò il marmo. 
  
“Ti prego, lascia riposare il tuo cuore. Il cuore di quel povero bambino in pena.” 
  
Alzò gli occhi verso quella lapide a lesse quel nome. 
  
Walter Sullivan 
  
“Walter…riposa in pace.” congiunse le mani al petto e sospirò. “Lascia andare anche…Henry.” 
  
Henry era distante. Lo era da tempo. E sapeva che c’entrava Walter Sullivan. Erano giorni che non lo sentiva. Aveva fatto di tutto per mettergli fretta nel lasciare l’appartamento #302. Questo perché lo sapeva benissimo che c’era qualcosa che non andava nell’appartamento e nella palazzina intera. Qualcosa era rimasto impregnato nell’aria. 
O forse aveva semplicemente un brutto presentimento. 
I suoi tentativi, tuttavia, erano stati completamente vani, e non era riuscita a impedire a Walter di portarglielo via. Di portare Henry chissà dove, in un mondo dove lei non poteva raggiungerlo. 
  
“Lascialo andare…” sussurrò di nuovo, avendo paura che qualcosa di terribile potesse accadere. 
  
Il vento prese a soffiare più forte e trascinò con sé le leggere foglie degli alberi vicini. Eileen, prima di andare via, adagiò la preziosa bambolina ai piedi della tomba. 
  
“Puoi dormire con lei, se vuoi.” 
  
Dopodiché si alzò. 
Girò lo sguardo un’ultima volta prima di accendere l’automobile e sparire via. 
  
La tomba di Walter Sullivan rimase in balia del vento. Sola. Quel bambino abbandonato ora era morto. L’assassino che sarebbe nato da lui era stato ucciso. 
Ora doveva solo chiudere gli occhi e comprendere che non valesse più la pena continuare a soffrire. Che potesse finalmente addormentarsi felice. 
Il vento fece accasciare la piccola bambolina di pezza sul terreno, mentre questa prese a cospargersi di un leggero terriccio scuro. 
  
*** 
  
[APPARTAMENTO 302. South Ashfield Heights] 
  
Henry aprì debolmente gli occhi, ma non riusciva a vedere altro se non il buio tetro dell’ambiente circostante. La mente pulsava e la vista era completamente annebbiata. 
Calò il capo e chiuse nuovamente gli occhi. Il suo petto non bruciava più, in compenso, l’aria soffocante lo logorava. Eppure era come se non riuscisse a far nulla per opporsi. Era immobile e non reagiva a nulla, come fosse in uno stato catatonico. 
  
“Piangi? Pensi che, in questo mondo, a qualcuno importi che tu pianga?” 
  
Una voce severa ed indefinita echeggiò nella sua mente. Nacque spontanea e affollò la mente di Henry ancora in quello stato dormiente. Nessuno le aveva pronunciate. Era come se le stesse ricordando. 
  
“Ma io sono qui. Io…esisto.” rispose in un sussurro. 
  
Le parole nella sua mente sembrarono innervosirsi a quella risposta. 
  
“Se muori nessuno se ne importerà mai. Non hai nemmeno un nome.” 
  
“Si…” 
  
“Sei stato uno schifosissimo errore!” 
  
“Dove sei? Voglio vederti in viso…” 
  
“Stupido, piccolo piagnucolone…” 
  
“Papà…” 
  
Henry aprì di colpo gli occhi, sgranandoli sconcertato. Cosa aveva appena detto?! ‘Papà’? 
A quel punto si rese conto che una grossa catena arrugginita lo teneva appeso proprio sopra il soffitto della sua camera da letto. 
  
“C-cosa…?” disse. 
  
Cercò di dimenarsi, ma un tessuto puzzolente lo avvolgeva lungo tutto il corpo, come una camicia di forza, stringendolo e limitandolo nei movimenti. 
Sentì una terribile sensazione di oppressione al che, preso dal panico, cominciò a urlare e a muoversi energicamente oscillando sul soffitto. 
  
“Che sta succedendo??” urlò. 
  
Più ci metteva forza, più oscillava con violenza, così i ganci, alla lunga, cedettero ed Henry cadde a terra. Dolorante, cercò di divincolarsi da quell’orrido sudiciume e dalle catene. 
Perché si era ritrovato appeso al soffitto? Chi era stato a farlo? 
Cosa era successo mentre era svenuto? 
Una volta liberatosi definitivamente, si rimise in piedi e calciò via quella robaccia che prima lo avvolgeva.
 
Solo allora sentì un rumore provenire fuori dalla sua camera da letto. 
Si affacciò nel corridoio e all’improvviso sentì una serie di strilla acute. Un pianto infantile. Ma chi stava piangendo? 
Più l’ascoltava, più si rendeva conto che fosse quello di un… 
  
“Ma che…?!” 
  
Scorse, alla fine del corridoio, un lenzuolo sporco, dove vi era avvolto un…bambino?! 
Lo riusciva ad intravedere a stento, infagottato com’era, in quel panno sporco. Subito si avvicinò a quella piccola creatura, che non faceva che piangere, strillare… 
  
“T-tu cosa…” disse con un filo di voce, titubante. 
  
S’inginocchiò affianco al bambino in fasce e rabbrividì notando che quel panno fosse macchiato di sangue e di una sostanza viscida. 
Non s’intendeva certo di medicina…ma quella roba sembrava proprio la membrana che avvolgeva i bambini appena nati. 
Henry era davvero agitato, non sapeva che fare. Non aveva mai visto un bambino così piccolo e aveva quasi paura di avvicinarsi e fargli del male. Era malato? Aveva bisogno di cure? Non sapeva semplicemente nulla in materia. Tremante, cercò di toccarlo e di sollevarlo da terra, ma quando i suoi occhi andarono a posarsi su quel piccolo cordone rosso che il bambino aveva ancora attaccato a sé, una fitta al cervello lo trapassò costringendolo a portare le mani sul capo in preda al dolore. 
  
“Ah! La testa..!” 
  
Quasi al punto delle lacrime, Henry poggiò i gomiti a terra e inarcò la schiena, avvertendo un’orribile sensazione allucinante, struggente. 
Alzò gli occhi verso la porta d’ingresso e si accorse solo in quel momento che, sul ciglio, c’erano due persone. 
Un uomo e una donna stavano aprendo la porta dell’appartamento #302 per uscire via frettolosamente. La scena durò appena una manciata di secondi, ma Henry fu in grado di distinguere la donna. Aveva lunghi capelli biondi e tremava. Aveva il viso stanco e sudato ed era sorretta da un uomo che la tirava via con veemenza. 
L’uomo non era stato in grado di vederlo nitidamente, avvolto com’era da un lungo cappotto nero. 
Chiusero la porta immediatamente, prima che Henry potesse far qualcosa per fermarli. 
Nel momento nel quale i due sparirono dalla sua vista, il dolore alla testa cessò. La confusione che stava provando Henry in quel momento era indicibile. Rivolgendo il capo indietro, notò che anche il neonato era sparito. 
Rimase lì per lì attonito, ma aveva compreso fin da subito che sia la coppia che il bambino fossero un’altra proiezione dei traumi di Sullivan. 
Certo però che… stavolta le immagini che gli si erano presentate d’avanti lo avevano turbato molto di più. Sentì l’angoscia invaderlo in corpo. 
Delle turbolenti emozioni lo pervasero facendolo sentire inquieto… 
  
“Il suo desiderio infantile di ritornare nel ventre materno... l'ha diviso...e presto... I 21 Sacramenti...” 
  
Una voce echeggiò in quel momento, ed Henry alzò gli occhi verso il soffitto. Era la voce di Joseph Schreiber, su quello non c’erano dubbi. 
Tuttavia non riusciva a vederlo, inoltre…come poteva essere lì? Perché sentiva la sua voce in quel posto? Egli era imprigionato nell’appartamento #302 del passato… 
Continuò a girarsi intorno, mentre la voce continuava a parlare. 
  
“Walter Sullivan... Quando era un ragazzino, iniziò a credere che il mio appartamento fosse sua madre. Decise di liberarla dalla corruzione di questo mondo.”  
  
Henry strinse gli occhi ricordando quelle parole. Le parole della quindicesima vittima. Quella targata col segno della disperazione. Quelle erano le stesse parole che pronunciò quel giorno. 
  
“Segui il Tomo Cremisi... Fermalo... Altrimenti ovunque riusciate a fuggire, vi troverà... Trovalo... Il Tomo Cremisi... Obbedisci al Tomo Cremisi...” 
  
 Joseph non era da nessuna parte, a quel punto Henry non poté che trarre l’unica deduzione possibile: quella che stava udendo era solo una sua ombra rimasta intrappolata nell’incubo. 
  
Joseph, aveva ragione. Il Tomo cremisi  li aveva salvati. Grazie ad esso aveva potuto scongiurare il rituale, tuttavia… 
Henry si guardò attorno, con un’aria sofferta. 
Vide l’orologio di casa sua impazzire sotto i suoi occhi. Scosse la testa, come se avesse sempre sperato di essersi sbagliato. Guardandosi attorno vide che non solo l’orologio, ma tutto cominciò a mutare sotto i suoi stessi occhi. 
  
“All'orfanotrofio, imparò i "21 Sacramenti", l'unico modo per purificarla.”  
  
La fontana della cucina prese a sgorgare sangue fetido. Lo spioncino della porta cominciò a gocciolare di un macabro liquido rosso. Dal frigorifero si sentiva un curioso miagolio… 
  
“In seguito attuò la cerimonia della Sacra Assunzione e creò questo mondo assurdo.” 
  
Le crepe sui muri cominciarono a deformarsi ulteriormente e le finestre a sbattere forte. 
  
“Ora... non è divenuto altro che un'umana macchina di morte...” 
  
Sentì dei lamenti di bambini. Provenivano dal suo guardaroba, lo sapeva bene. Dalla camera da letto poteva perfettamente sentire una voce chiamarlo… una voce che scandiva, sempre più forte, un sinistro “Ti osservo sempre…” 
La fotografia della chiesa di Silent Hill, in camera sua, si sostituì col volto di Sullivan. E dal muro si affacciò un demone. 
  
“... Uccidilo... devi ucciderlo... Ucciderlo…ucciderlo... ucciderlo...” 
  
Joseph continuava a parlare, ed Henry osservò impotente la sua casa trasformarsi. Piena di tutte le presenze scaturite dall’incubo. 
Socchiuse gli occhi, poi sospirò. 
  
“…il Tomo cremisi…però non è stato sufficiente per salvare l’intero edificio…” riaprì gli occhi. “…nonché la stanza #302. Compreso anch’io. Giusto?” 
  
Le ombre del passato di Sullivan erano ancora lì. E anche lui faceva parte di quelle ombre. Lui che era stato prescelto per essere Colui che riceveva Saggezza. La ventunesima vittima. 
Per questo le presenze nel suo appartamento non gli facevano più male.   
  
Toccò la camicia all’altezza del collo e vide che questa si tinteggiò di rosso. 
  
Si affacciò appena nel bagno per poter intravedere, dalla porta semiaperta, lo specchio. 
Gli bastò per intravedere il marchio delle vittime di Walter Sullivan. 
  
21/21 
  
Erano scritte a malapena, proprio sotto il collo. 
Henry si avvicinò. Il suo sguardo era tremante e toccò il freddo vetro dello specchio con incertezza, mentre osservava quella cicatrice. 
La maglietta bianca sotto la camicia era anch’essa tinteggiata di rosso. Tuttavia quella terribile incisione sembrava già cicatrizzata. 
Henry la osservò a tratti spaventato, a tratti persino consapevole del perché quella fosse apparsa assieme alla casa infestata. 
Perché… 
Perché lui… 
  
“Mamma! Mamma! Fammi entrare!” 
  
La voce del Walter bambino risuonò dietro la porta. Henry si avvicinò, questa volta pronto. 
  
Raccolse dalla cassa la pistola e si avvicinò allo spioncino insanguinato. 
Non vide il Walter bambino battere alla sua porta. 
Vide invece proprio colui che aveva appena richiamato nella sua mente, Sullivan. L’uomo col cappotto era sul pianerottolo, proprio di fronte a lui e lo osservava dall’altro lato dello spioncino, quasi come se anch’egli potesse vederlo da quella piccola fessura. 
A quel punto Henry spalancò la porta urlando il suo nome. 
  
“Walter!” e sparò. 
  
Il proiettile però andò a colpire soltanto la parete grondante di sangue. Subito si girò intorno, sconcertato. 
  
Gli appartamenti di South Ashfield Heights…cosa…cosa era accaduto? 
  
Ogni cosa era incrostata di sangue e ruggine. Le pareti pulsavano quasi come fossero vive e nell’aria c’era un disgustoso odore organico. Rabbrividì sentendosi male. 
Vedere ancora una volta la palazzina in quello stato, proprio come quel tempo, fu qualcosa di terribile. Portò una mano sulla fronte, incapace di accettare che era tutto tornato esattamente come allora. 
Si poggiò sul muro e all’improvviso gli fu chiaro. 
  
Gli appartamenti di Ashfield…la stanza #302…. 
Erano tutti elementi che avevano a che fare con l’infanzia più remota e dolorosa di Sullivan. 
Era dunque questo ciò che Joseph intendeva. La parte più remota degli incubi di Walter Sullivan, ove tutto era cominciato. Una parte così intima, dove persino lui stesso era rimasto assorbito ed intrappolato. 
Dunque niente più varchi, niente più viaggi in quelle assurde dimensioni. Questo perché era giunto alla fine. 
Era il momento di esplorare l’ultima parte di lui, il luogo dove Sullivan era nato… e allo stesso tempo il luogo in cui era morto. 
  
‘La parte profonda di lui’. Solo allora lo comprese. 
  
Sotto i piedi sentì qualcosa di scivoloso e notò che c’erano dei bigliettini sotto la sua porta. Li raccolse e li lesse uno ad uno. Erano tutti in uno stato decadente e vi erano delle scritte piccolissime e brevi. 
  
Sta iniziando... 

Presto... 

In qualsiasi momento... 

Tra pochissimo... 

Presto avrà inizio... 

Presto, molto presto! 

Il rito...il rito... 
  
  
“Non comincerà un bel niente, convincitene. È tutto già accaduto e tu…sei morto!” 
  
Fu allora che decise di andare lui a cercarlo. La vittima dunque, a sua volta, andò alla ricerca del suo stesso carnefice. Della stessa persona che lo aveva chiuso in quell’inferno claustrofobico. 
Nello stesso inferno dove, tuttavia, anche il carnefice era imprigionato, condannato in quel circolo infinito. 
  
“Aaah!” 
  
Un urlo di una donna echeggiò. Henry subito si ritrasse turbato. 
  
“E-Eileen?!” disse, sconcertato. 
  
Era assurdo…inconcepibile. Portò una mano sul capo, cercando di non perdere la calma, ma era inutile. 
Henry fece per andare verso l’appartamento della ragazza, il #303, ma delle sbarre poste al centro del pianerottolo gli impedirono di raggiungerla. Poteva solo vedere la stanza dall’altro lato. 
Udì ancora le urla di lei, e le sue mani battere violentemente contro la porta. 
  
“Eileen!!!” urlò, disperato. “Lasciala stare! Lasciateci stare!” si dimenò con quelle sbarre, sperando di riuscire a far leva, ma ovviamente si rivelò un inutile tentativo. “…dannazione!” 
  
A quel punto corse via verso la stanza #301, unico punto di evasione di quel piano, e scese velocemente le scale. 
Fortunatamente Henry aveva una buona memoria fotografica e ricordava ancora bene la disposizione dei passaggi al tempo della sua seconda visita negli appartamenti ‘alternativi’. Quindi seppe fin da subito come muoversi per ritrovarsi dall’altro lato delle sbarre e raggiungere la stanza di Eileen. 
Mentre correva, tuttavia, nella sua mente qualcosa lo stava già turbando. 
  
Eileen… 
Pensare a lei in quel mondo aveva destato in lui immediatamente un ricordo. Quello di quando l’aveva trovata in quel letto di sangue. 
Sperava in cuor suo non fosse così. Che non fosse stata coinvolta di nuovo anche lei in questa storia. Era incapace di accettare di rivedere Eileen in quell’inferno. Nella sua mente quelle urla si erano stampate così nitidamente che non poteva non averle riconosciute. Le urla di Eileen quando fu straziata quasi a morte da quell’uomo che l’aveva scelta come sua ventesima vittima. 
  
Fu quando terminò di scendere la scalinata che vide lui. 
Walter Sullivan era proprio lì, ad attenderlo sulle scale. 
Henry si bloccò di colpo, vedendolo con il volto tinto di sangue. 
  
“Che cosa hai fatto ad Eileen?!” 
  
Walter non si curò affatto di lui e, al contrario, cominciò ad avanzare verso il ragazzo salendo la scalinata rugginosa. Aveva il capo chino e i capelli biondi, anch’essi tinteggiati di rosso su un lato, coprivano una buona parte del suo volto. 
  
“Parla! Eileen dov’è?!” 
  
Walter continuò ad avanzare, ignorando le parole del ragazzo. Henry in un primo momento indietreggiò, poi, in preda dalla rabbia e dal panico, gli puntò la pistola contro. 
  
“Dimmi cosa diavolo vuoi?!” 
  
In quel momento stava pensando solo ad Eileen. 
Lei no! Eileen, no! Nessuno le avrebbe mai più fatto del male. Lui non l’aveva voluta coinvolgere in quell’incubo proprio per evitare quel dolore. 
Sentì gli occhi bruciare, un po’ per rabbia, un po’ per paura. Non ne poteva più e mai come allora desiderava solo una cosa…fuggire via. 
Per la prima volta desiderava ardentemente scappare dall’appartamento #302 e raggiungere la sua vicina di casa. Prendere le valigie e ricominciare una nuova vita lontana da Walter Sullivan. 
Ah, com’era stato cieco! Eileen lo stava attendendo già da molto. Henry doveva solo raggiungerla e chiederle perdono per essere stato sempre così dannatamente in ritardo. 
In due anni che si era trasferito non aveva mai avuto il coraggio di parlarle. Poi in circostanze del tutto folli si erano uniti ed erano sopravvissuti assieme a quell’inferno. Tuttavia…non aveva avuto il coraggio di andare via da Ashfield. Di andare via con lei. Non aveva avuto il coraggio di fare un bel niente, sentendosi ancora prigioniero di quel pazzo mondo. 
I suoi occhi si andarono a spalancare e guardarono Walter con profondo odio. 
  
“Che cosa vuoi da me?!” 
  
Walter a quel punto, con uno scatto veloce, avanzò verso di lui, mostrandogli un volto tetro e senza alcun tipo di espressione. Era…spaventoso. Era inumano, demoniaco. 
Henry non fu in grado di reggere quello sguardo e immediatamente indietreggiò, perdendo tuttavia l’equilibrio e cadendo sulla scalinata. 
Cercò di rimettersi in piedi, ma l’uomo biondo era già dinanzi a lui e ricambiava il suo sguardo. 
Scavalcò le gambe di Henry inginocchiandosi sopra di lui e prese in mano la pistola di Henry.
Solo allora, nel vederla fra le mani di Walter, Henry si rese conto che gli fosse scivolata di mano durante la caduta. 
A quel punto il moro deglutì, con gli occhi sgomentati, non sapendo che fare e non vedendo alcuna via di fuga. 
Sullivan guardò l’arma chinando il capo ed Henry assistette a quella scena senza avere la possibilità di far nulla. 
Walter lo bloccò ancora, sporgendosi verso di lui. Inarcò la schiena e guardò Henry con il volto gelido. Con l’altra mano, lasciò scorrere la canna della pistola sul suo collo, proprio dove il ragazzo aveva il marchio dei ventuno sacramenti. 
  
“Miss Galvin…Ei…Galvin…leen Gavin…Eileen…” sussurrò. 
  
Henry cominciò a sudare, non comprendendo cosa diavolo volesse, non comprendendo cosa lui stesso dovesse fare. Sentire il nome di Eileen pronunciato da quell’uomo fu sufficiente però per sentire il cuore battere a mille. 
Inaspettatamente, Walter allontanò il busto da lui ristabilendo le distanze e gli lanciò la pistola vicino. 
  
“Miss Galvin mi è venuta a trovare.” asserì. 
  
Henry lo guardò sbigottito. 
  
“Cosa?” sibilò a stento. 
  
L’uomo col cappotto lo guardò vitreo qualche attimo, poi si alzò definitivamente da sopra di lui ed andò via. Henry ci impiegò un po’ di tempo per far ritornare in moto il cervello, in quel momento andato in panne. 
  
“F-fermati! Che cosa vuoi dire? Eileen..? Lei…è qui? …Spiegati!” 
  
Walter non lo degnò di ulteriori attenzioni. Lentamente scese le scale e andò via chiudendo la porta. Henry si alzò velocemente, prese in mano la pistola e corse dietro di lui. 
Nell’aprire la porta, si ritrovò immediatamente nel corridoio dei piani inferiori e Walter era sparito. 
Istintivamente tirò un calcio. Se l’era lasciato scappare. 
  
“Eileen…è andata a fargli visita? Cosa avrà voluto dire?” 
  
Una parte di lui si preoccupò del fatto che anche lei potesse essere lì da qualche parte, così si affrettò a superare l’ala del corridoio ovest e raggiungere la stanza della sua vicina di casa. 
  
[Appartamenti di South Ashfield Heights, terzo piano, dall’altro lato delle sbarre] 
  
Non appena raggiunse il terzo piano, quasi s’impressionò di vedere, dall’altro lato delle sbarre, il suo stesso appartamento. 
Il Walter Sullivan bambino piagnucolava e urlava, mentre batteva la porta chiamando sua madre. 
Pur avendo oramai compreso che fosse solo la manifestazione del suo desiderio di ricongiungersi con sua madre, era una visione angosciante quella. Vedere quel bambino battere ossessivamente alla sua porta… 
La causa intrinseca che aveva maledetto il suo appartamento e la sua vita era quella piccola figura.
Pensare che fosse sempre stato metaforicamente lì, a battere, battere, senza mai fermarsi.
Questo per anni…da quando era nato.
Scosse la testa e fece per entrare nell’appartamento #303 ma, sebbene cercasse di far forza, questa non si apriva. 
  
“Chiusa..?” 
  
Puntò la pistola contro il pomello e premette il grilletto, ma un’energia sconosciuta vece rimbalzare il proiettile, impedendo così ad Henry di entrare con la forza. 
Non che non se l’aspettasse, per certi versi. Non doveva dimenticarsi che quello non era il mondo reale. Decise di non indugiare ulteriormente e prese a riflettere. 
  
“Se sono fortunato, nel #105 potrei recuperare il mazzo di chiavi del custode. Aggiunsi la chiave di Eileen l’ultima volta, in teoria, quindi dovrebbe ancora esserci…” 
  
Il custode abitava nell’appartamento 105, nell’ala ovest del pian terreno. Decise di andare a vedere lì. Doveva assolutamente trovare Eileen prima che Walter le facesse qualcosa. 
  
Così scese al secondo piano e si diresse verso l’ala ovest, dove vi era il passaggio per i piani inferiori, nella stanza #206. 
Non appena arrivò sul pianerottolo, tuttavia, dei lamenti attirarono la sua attenzione. Si avvicinò cautamente e, affacciandosi appena da dietro il muro, vide un orribile mostro raggrinzito, di dimensioni e stazza notevoli, indicarlo nel buio. 
Subito deglutì, riconoscendo quella tipologia di mostro. In sostanza, rassomigliava molto al mostro con due teste incontrato nella prigione acquatica. 
Tuttavia era sensibilmente più grande, il corpo era rivestito di una spessa pelle raggrinzita e…aveva un’orrida testa appesa al posto delle gambe. 
  
Quella creatura, ben conscio delle altre incontrate nei suoi viaggi, aveva anch’ella un senso? 
Era nel mondo che rappresentava la prima infanzia di Sullivan, il luogo in cui era stato abbandonato e il luogo dove lui ambiva tornare. Qui era nata la sua ossessione per la madre, ma anche il suo disprezzo per la vita. 
Si chiese, dunque, se il mostro in questione avesse mai potuto rappresentare la psiche del piccolo Walter in fasce. E se così fosse stato… poteva aver già concepito quel “mostro/trauma” a quella tenerissima età? 
  
Un brivido lo trapassò lungo la schiena e gli sembrò terribile pensare ad un’eventualità del genere. 
  
In ogni caso doveva proseguire e l’unico modo per farlo era sbarazzarsi di quella creatura. 
Questi era immobile e continuava ad indicare Henry, finché lui stesso non si avvicinò e raggiunse una vicinanza tale da farlo scagliare contro di lui. 
Il mostro si mosse con quelle mani robuste ad una velocità inaspettata, cercando di colpire il ragazzo. Egli era, per sua fortuna, già preparato ai suoi attacchi, così, quando questi fu sufficientemente vicino, tirò giù il grilletto e sparò. Fece partire una raffica di colpi che andarono a incassarsi in quel corpo dalla pelle doppia e coriacea. 
Il mostro si accasciò dopo aver scaricato un’intera carica di proiettili e lo atterrì definitivamente con un calcio ben assestato all’altezza dell’addome. 
  
Alzando gli occhi, osservò le sbarre che ancora una volta lo separavano dalle altre stanze del secondo piano. 
Li, proprio oltre quelle sbarre, erano improvvisamente apparsi dei mostri appesi. 
  
Henry si avvicinò e poggiò le mani sulle sbarre, e solo allora si accorse che non erano dei mostri. 
Erano appesi al soffitto, un po’ come quando lui si era svegliato poco prima, e sembravano più dei fagottini che fremevano.
Tremavano e si muovevano in maniera disturbante. 
Erano lì, appesi, ed Henry provò una strano turbamento, non comprendendo se fossero vivi o no. Non comprendendo cosa diavolo fossero. 
Li fissò e cercò anche di allungare una mano e toccarne uno, ma le sbarre erano state messe sufficientemente lontane per non permettergli in nessun modo di raggiungere quei fagottini. 
Così non perse altro tempo. Aprì la porta del #206 e proseguì. 
  
Solo dopo aver superato la stanza, si ritrovò dall’altro lato delle sbarre, ma i corpi dei mostri appesi erano spariti e, anzi, un lamento stridulo lo fece di colpo voltare. 
Si sorprese di vedere che quei fagotti ora erano dall’altro lato del corridoio, proprio dove Henry era stato in precedenza. 
Tuttavia adesso erano a terra e non si muovevano più. Henry si fece perplesso per quella visione e rimase a guardarli. 
  
“Che importa?! Va via, presto sarà morto…” 
“Te lo avevo detto che non dovevamo avere un bambino, o no?” 
  
Henry udì nuovamente quella voce adirata. Era la stessa che aveva sentito nel suo appartamento. 
Non fu facile per lui pensarci con razionalità, ma più osservava quei fagottini, più gli sembrava di rivedere in loro quel bambino in fasce. 
Walter Sullivan che, dai suoi genitori, fu condannato a morte. 
Strinse gli occhi, non riuscendo a pensare a quell’uomo in quel momento, avendo ancora la mente rivolta ad Eileen. Tuttavia era impossibile negare l’evidenza. Walter aveva cominciato a covare già a quell’epoca quel senso di abbandono e di disprezzo da parte della società. I suoi stessi familiari non lo avevano voluto. 
Per quanto odiasse quell’assassino, trovava davvero assurdo che, una parte di sé, invece provasse compassione. 
  
Ma Walter era un assassino! Un uomo diabolico, malvagio… 
Tuttavia Walter era anche una vittima. 
  
Henry portò una mano sul capo…accidenti! Com’era complicato per lui ammettere una cosa del genere! Lui aveva fatto del male a della gente innocente! 
Aveva cercato di ucciderlo. Aveva sfregiato brutalmente Eileen. Questo era più che sufficiente per essere tutt’altro che una vittima! 
Tuttavia Walter era anche quel bambino abbandonato, sfruttato dalla Wish House e maltrattato da gente senza scrupoli. 

Quindi cos’era Walter? Vittima o carnefice? 
  
Fece per osservare i fagottini a terra e notò che non c’erano più. Al contrario, un bambino di circa cinque anni, biondo, era apparso all’improvviso e lo stava osservando con un viso triste. 
  
“Walter?” disse. 
  
“Mamma…papà…” 
  
Henry non comprese, poggiò le mani sulle sbarre e osservò il ragazzino con una faccia perplessa. 
  
“I tuoi genitori..?” 
  
A quel punto vide il ragazzino alzare l’indice della mano destra e indicare proprio dietro Henry. Egli si voltò e vide che un altro di quei mostri dalla pelle coriacea era apparso e avanzava velocemente verso di lui. 
Subito sussultò alla visione di quell’orrida creatura, e fu scaraventato a terra dal colpo del nemico. Fece per rimettersi in piedi, ma si accorse di non avere più la pistola fra le mani. 
  
“No!” disse, mentre velocemente la cercava a terra. 
  
Subito la scorse oltre le barre di ferro. Strisciò immediatamente vicino ad esse e tese il braccio cercando di raggiungerla, ma inaspettatamente fu proprio il piccolo Walter Sullivan a prenderla per primo. Henry alzò gli occhi e lo vide stringerla fra le sue mani, con un’espressione molto severa. 
  
“Che fai? Walter!” urlò Henry. 
  
Il biondino puntò la pistola di fronte a sé ed Henry ebbe la terribile sensazione che il colpo fosse diretto proprio a lui. Chiuse gli occhi e abbassò il capo istintivamente, mentre una serie di colpi andarono a sfiorarlo, tant’è che ebbe persino la sensazione di essere stato colpito. 
I colpi poi cessarono ed Henry, aprendo gli occhi, si rese conto di non avere alcuna ferita. 
  
“C-che diavolo..?” 
  
Girando il capo alle sue spalle vide che, piuttosto, era il mostro dietro di lui ad essere stato crivellato di colpi. Tutti eseguiti con una certa precisione in verità. 
Alzò sconcertato gli occhi verso il bambino, ancora dietro le sbarre. Lo vide chinare l’arma verso il basso e poggiarla a terra. 
Nell’incrociare i suoi occhi, Henry ebbe un brivido lungo la schiena. Quello sguardo…egli non era il bambino…era… 

Il ragazzino poi si girò e fece per andarsene, sparendo così nel buio. Henry era ancora sdraiato a terra, incapace di reagire. 
Si alzò solo una manciata di secondi più tardi, leggermente ansimante. Il suo sguardo si posò sul corpo del mostro morto. 
  
“Lo ha chiamato: ‘mamma e papà’…” 

Era un mostro enorme, il più impressionante di tutti quelli visti fino a quel momento.
Era deforme, con la pelle nuda, nodosa e raccapricciante, ricurva sulla sua ossatura assurda. Era segnato da graffi profondi e lividi e sebbene fossero visibilmente cicatrizzati, essi erano inspiegabilmente vivi.
Era una visione angustiante da vedere, poiché ricoprivano in sostanza tutto il suo corpo, come fossero espressione di profondo e tetro dolore. Un dolore vecchio, ma che non era mai guarito.
Essi erano così tanti da aver reso quella pelle coriacea e spessa, indurendola e rinforzandola per proteggersi.
Dei rigonfiamenti si promulgavano da quello che doveva essere il suo collo, ergendosi sotto il tessuto spesso e ripugnate. Erano come due crani nascosti sotto pelle, imbastiti da una crudele cucitura sulla loro sommità che aveva accartocciato il loro volto, stringendolo con la sua stessa carne rossa e sanguinolenta.
Non avevano tratti somatici ed era come se qualcuno avesse tirato loro la pelle per nasconderli, per renderli irriconoscibili.
O forse non era così, forse nessuno li aveva nascosti. Forse semplicemente Walter Sullivan non sapeva affatto quali fossero i loro volti.
Quelle dunque non rimanevano nient’altro che due teste nascoste dalla carne e che lui non conosceva.
Ma non erano le uniche, in verità.
Ve ne era un’altra, posta inquietantemente sul fondo di quella creatura.
 
L’unica testa visibile di quel corpo devastato era ribaltata al contrario sotto il mostro, fra le due braccia con le quali camminava.
 
Stringendo gli occhi, fu difficile per Henry accettare dentro se stesso che quelle due teste fossero mamma e papà, come aveva detto Walter prima di sparare.
La mamma e il papà senza volto che avrebbero generato un demonio nato dall’odio, il mostro capovolto sotto di loro.
Le braccia appartenevano infatti al mostro capovolto che rappresentava l’assassino, il quale, tramite il mondo alternativo, agiva e perseguitava, puntava, rincorreva ossessivamente  le sue vittime condannandole ad un’indicibile violenza.
Questo non scrollandosi mai di dosso la cruda verità capovolta dall’altra parte: egli non aveva che portato con sé due teste senza volto. Corpi che non erano altro che la carne che l’aveva fatto nascere sia come bambino che come mostro.
Non a caso, quello era il mostro generato dall’incubo, più violento e resistente di tutti.
  
Non sapeva dirlo con certezza, non ne aveva idea. Non sapeva nemmeno perché cercasse di spiegarsi tante cose. Non perché rifiutasse quelle consapevolezze, ma perché non poteva semplicemente credere che stesse affrontando un delirio paradossale senza poter far nulla per se stesso né per nessuno.
Un trauma che non poteva essere in nessun modo calmato.
Un male che lo aveva accompagnato in tutta la sua vita, muovendo quello che era stato Walter Sullivan, nei suoi desideri, nelle sue gesta, nei suoi tormenti….
Quel “mostro” faceva ancora male ed era stato capace di far prendere in mano un’arma persino alla versione infantile di Walter. 
L’inizio della sua atroce e spietata crudeltà.
 
Henry rifletté che la violenza era un segno caratteristico tipico della manifestazione del Sullivan adulto. Si chiese quindi come mai una simile inversione di ruoli.
Ripensandoci, al suo contrario, l’uomo biondo, anche se sporco di sangue e dallo sguardo gelido, invece non lo aveva colpito quando lo aveva incontrato in precedenza sulle scale…
Oppure…quello incontrato prima non era il piccolo Walter? 
Henry, in effetti, trovava ancora dannatamente difficile ricordare in continuazione che quei due fossero la stessa persona. 
Ad ogni modo, decise di proseguire e raggiungere il pian terreno. Doveva recuperare le chiavi dell’appartamento di Eileen. 
  
*** 
  
-SECONDA PARTE: Ricordi dal passato 
  
[Appartamenti di South Ashfield Heights, piano terra] 
  
Henry era riuscito a raggiungere il pian terreno dei suoi appartamenti. Anch’esso sostanzialmente aveva le sembianze del palazzo di South Ashfield Heights, tuttavia quell’odore organico e tutta quella ruggine, rendevano il posto quasi irriconoscibile. 
Il moro alzò gli occhi al soffitto e distinse tutti i vari piani dell’edificio. 
Una serie di gabbie circondavano la zona e un mostro, dall’apparenza umana, era appeso al soffitto dondolante. 
  
Il mostro indossava una maschera a forma di becco all’altezza del volto e delle grandi forbici erano conficcate sul cranio. Si dimenava, come se soffrisse, come se non potesse sottrarsi a quel dolore. 
  
Henry distolse lo sguardo, incapace di assistere a quella tortura. 
  
I suoi occhi andarono a posarsi, invece, sull’uomo alto e biondo seduto sulla scalinata. 
Alle sue spalle vi era una grata che impediva di raggiungere i piani superiori, così se ne stava lì con il capo chino, assorto nei suoi pensieri. 
Henry si avvicinò cautamente a lui, scrutandolo con fare diffidente. Doveva parlargli, doveva capire cosa stesse succedendo. Walter doveva pur sapere qualcosa. Doveva pur avere qualcosa da dirgli. 
Mentre avanzava in sua direzione, sgranò gli occhi quando vide che fra le mani stringeva qualcosa. Attizzando l’occhio, notò che si trattava di un piccolo oggetto di stoffa. 
  
“Perché sei qui?” gli chiese Henry. 
  
L’uomo col cappotto non gli rispose, continuava ad essere assorto nei suoi pensieri, come fosse in uno stato catatonico. 
Henry allora sospirò, rendendosi conto che, per la prima volta, doveva provare ad avere un atteggiamento diverso nei suoi confronti. 
  
“Che cosa sta accadendo? Cosa c’entriamo ancora io ed Eileen in quest’incubo…? Perché tu…” 
  
S’interruppe quando i suoi occhi andarono a riconoscere l’oggetto che Walter stava stringendo fra le mani. Con voce tremante, indicò a Walter la bambola di pezza. 
  
“D-dove l’hai presa, quella?” 
  
Era impossibile, assurdo! Come poteva possederla lui? Henry…lui stesso l’aveva restituita ad Eileen, quando l’incubo era finito. Perché dunque Walter ne era in possesso?! 
  
“Eileen è qui, vero? Che ne vuoi fare di lei, ancora!?” 
  
Era un vero mostro, quell’uomo! Subito Henry capì che non aveva alcun senso ragionare con lui. Sapeva già come sarebbe andata a finire. O l’avrebbe ucciso lui o sarebbe morto lui stesso per mano di Walter. 
Il resto avrebbe solo allungato la sua permanenza in quell’incubo. 
Invece Henry voleva andar via, fuggire. Ricominciare da zero con Eileen. 
  
“Parla!” 
  
La sua espressione di rabbia non scalfì minimamente Walter. Al contrario, lui posizionò la bambola in tasca e si alzò. 
Henry rimase all’erta pronto ad uno scontro, ma Walter lo superò non degnandolo nemmeno di uno sguardo. Quando vide quell’indifferenza, Henry rimase sconcertato. Si chiese, a quel punto, se quello fosse per davvero Walter Sullivan o non fosse anch’egli un ricordo che stesse riaffiorando. 
Girò il collo verso il biondo e lo vide avvicinarsi alle doppie porte dell’ingresso della palazzina di South Ashfield. Egli spalancò le porte illuminando di colpo quel mondo parallelo. 
Henry portò le braccia all’altezza degli occhi, accecato da quella luce improvvisa che gli impedì di concentrarsi o comprendere cosa stesse accadendo. 
Strizzò appena un occhio e cercò di osservare Sullivan, che invece guardava dritto dinanzi a sé verso…l’esterno della palazzina?! 
  
“Cosa?” 
  
Il moro era scioccato mentre vedeva sorgere davanti ai suoi occhi i dintorni che circondavano il palazzo di South Ashfield Heights. 
Quella visione era reale? Ma non si trovavano nel mondo parallelo? Come poteva essere? 
Tuttavia ben presto il paesaggio mutò e si ritrovò davanti il passaggio per la stazione, impossibile da vedere così vicino dagli appartamenti. Questo gli fece perdere la speranza che quello fosse il mondo reale. Era soltanto una proiezione. 
  
Henry intravide il cielo mattutino insolitamente limpido e la gente passare e camminare nella cittadina tra un impegno e l’altro. 
Una normale atmosfera di città, caotica, insomma. Tipica dei giorni lavorativi. 
  
Si avvicinò lentamente, finché non sentì Walter bisbigliare. 
  
“Tra poco arriverà lei con sua madre…” 
  
“Chi arriverà?” 
  
Walter non rispose, così anch’egli rimase ad osservare. Henry cercò di capire verso quale direzione andassero a focalizzarsi gli occhi verdi di Walter Sullivan. Fu solo così che si rese conto di un ragazzo disteso a terra nel suo sacco a pelo nei pressi del passaggio della stazione di South Ashfield. 
Prima non aveva avuto modo di scorgerlo. Era come buttato lì e dimenticato dal resto del mondo. 
Walter indicò allungando il braccio. 
  
“Eccola.” 
  
Nelle vicinanze del ragazzo giunse una bambina di circa cinque anni. Camminava stringendo la mano di sua madre. La bambina indossava dei vestiti bellissimi, colorati. Aveva degli occhi stupendi. Un color acquamarina che esaltava il suo visino vispo. 
Mentre passò di striscio vicino all’uomo, ella lo fissò con l’ingenuità e l’innocenza tipica di un bambino. La madre, tuttavia, subito la richiamò.

"…Eileen, non guardarlo in quel modo..."
 

"Perchè no, mamma?"
 
  
Henry allora sbottò, guardando incredulo quella ragazzina. 

“Eileen..??”
 
  
Si lanciò immediatamente verso il portone, ma andò a sbattere contro qualcosa che gli impediva di uscire fuori dall’appartamento.
Il suo volto si fece perplesso. Non c’era nulla che l’ostacolasse, eppure toccando dinanzi a sé sentiva pressione, come se ci fosse un vetro a separare lui da quella scena. 
Si sentì terribilmente turbato di non poter raggiungere Eileen, ma continuò ad osservare il susseguirsi di quella vicenda stando ben attento a ciò che succedesse. 

Vide Eileen lasciare la presa della mano di sua madre, per avvicinarsi di più a quel giovane.
 

"Perché dormi qui? Non hai freddo?" gli chiese inginocchiandosi di fronte a lui.
 

A quel punto, il ragazzo si alzò appena con il busto. Non si era nemmeno accorto, prima, di quella bambina e si sentì confuso nel sentirla parlare con lui in quel modo confidenziale.
 
Non l'aveva mai vista prima. Era davvero molto bella. Con il viso pulito e ordinato. Con un cappottino colorato e uno sguardo spensierato. Tutto il contrario di lui, insomma. 
Walter era un adolescente all’epoca, ma l’aria trascurata rendeva difficile alla gente dargli un’età ben precisa. Più che altro, veniva completamente ignorato, o guardato con disprezzo. Nessuno si era importato poi molto che ci fosse o meno. Che esistesse oppure no.

"Eileen, non parlare con lui!" disse sua madre che intanto corse, spaventata, verso di lei.
 
  
Ma Eileen si risentì delle parole della madre, anzi, le rispose non comprendendo il perché di quella titubanza. Walter intanto era immobile, quasi impietrito e la osservava. 

"Mamma, fa freddo qui...Non vedi che...."
 

Nonostante le sue parole, la madre continuò a richiamarla. Così Eileen si alzò e velocemente prese una bambola dalla sua borsetta, appoggiandola accanto al ragazzo biondo.
 

"Puoi dormire con lei."
 

"Eileen, andiamo a casa. Oggi è il compleanno di papà. Lo sai. Papà ti sta aspettando." parlò la mamma tirandola via.
 

"Okay, mammina....ciao, ciao!" disse Eileen, salutando quel ragazzo. Insieme poi, lei e sua madre, andarono via.

Il ragazzo continuò a guardare la bambina finché ella non sparì lontano dalla sua visuale, stringendo tra le mani la bambola che gli aveva lasciato.
Sembrava così felice…e lei…
 
All’improvviso una lacrima scivolò veloce sul viso del giovane.
Quel piccolo gesto d’amore scatenò in lui un pianto. Un pianto diverso. Un pianto di gioia. Una commozione intima. Un sentimento che mai aveva provato prima. 
 L’amore…l’affetto…lui non conosceva quelle cose. 
Così le lacrime scendevano, e non riusciva a fermarle. 
  
Henry, con la coda dell’occhio, vide Walter stringere gli occhi nel riportare alla mente quella scena. Poi ritornò ad Eileen.

"Mamma, credi che a papà piacerà?" chiese la piccola dai capelli castani.
 

"Ma certo, cara. L'adorerà perché l'hai scelto tu." le rispose sua madre.
 
  
La scena allora venne interrotta bruscamente da Walter che chiuse le doppie porte dell’ingresso della palazzina. Henry lo guardò colto alla sprovvista. 
  
“Cosa fai?” 
  
Henry aveva appena visto Eileen da bambina. Ancora non era capace di formulare dei pensieri razionali e l’atteggiamento di Walter lo mandò in panne ulteriormente. 
  
Quella scena… 
Aveva assistito al primo incontro di Walter con Eileen, la Madre? 
  
Walter comunque non lo curò, anzi, si diresse verso l’ala ovest del pian terreno. 
All’improvviso guardò malinconico Henry. 
  
“Era così felice allora…mentre stringeva e sé sua madre…non trovi?” disse prima di sparire oltre la porta. 
  
Henry si lanciò subito al suo inseguimento, ma non si sorprese affatto di vedere che fosse già svanito di nuovo, si ritrovò così solo nel corridoio ovest del pian terreno. Scorse subito, infatti, l’appartamento del custode, il #105, dove era intenzionato a entrare per prendere le chiavi per il #303.
Attaccati sulla porta, vi erano una serie di foglietti fermati con dei punteruoli. Erano sei in tutto. 
Henry li raccolse e riconobbe quelle scritte. Erano state pronunciate a suo tempo da un fagotto appeso sul soffitto, e riguardavano tutti dei ricordi di Walter Sullivan sul padre. 
  
Oh! Chiudi il becco. Non puoi dare tutta la colpa a me!
 Te l'avevo detto che non dovevamo fare un figlio, o no?!
 Sbrigati---fa le valigie!
 Se il custode lo sente, siamo nei guai. Qualcosa in quel tizio...non mi fido di lui... 
Ad ogni modo andiamocene di qui...non ce la faccio più...
 Stupido piccolo piagnucolone... 
  
Nel girare il pomello, costatò che la porta era bloccata. La scosse violentemente cercando di forzarla, ma…nulla! 
  
“E ora che cosa diavolo faccio..?!” disse, quando poi sentì qualcosa cadere dall’altro lato della porta.
  
Era rumore metallico. Un qualcosa di piccolo era caduto sul pavimento nel momento nel quale aveva cercato di aprire la porta. 
Si inginocchiò a terra e sbirciò da sotto la porta. Qualcosa effettivamente c’era. Scorse infatti un piccolo oggetto. Subito allora estrasse il suo album dei ritagli e prese una pagina a caso sufficientemente grande e resistente che gli permettesse di raggiungere la cosa che era caduta. 
Riuscì a far scivolare il foglio sotto la porta e prendere l’oggetto, così lo trascinò a sé. 
  
Era una chiave. Una piccola targhetta consumata era attaccata lì vicino. 
Henry la prese fra le mani e lesse. 
  
-Per il ventunesimo segno- 
  
Henry strinse gli occhi. 
  
“Walter…” disse ironico. 
  
Era sicuro che l’avesse lasciata lui lì, il problema era che non sapeva proprio di cosa farsene di quella chiave. 
La guardò, cercando di far mente locale. Magari andava usata nel suo appartamento? 
Mentre fece per rimettersi in piedi, si accorse che con il foglio non aveva tirato a sé solo quella chiave, ma intravide da sotto la porta anche un piccolo angolino bianco. 
Si rese conto che si trattava di una fotografia fatta da macchina fotografica istantanea. L’osservò e corrucciò le sopracciglia quando vide che raffigurava una stanza di South Ashfield Heights piena zeppa di quadri. 
Mise la foto nell’album e la chiave in tasca. 
  
“La stanza del pittore? La #202?” 
  
Si chiese cosa avrebbe mai trovato lì dentro. Tuttavia questo di certo non gli impedì di andare a dare un’occhiata. 
  
*** 
  
-TERZA PARTE: La ricomposizione della bambola 
  
[L’appartamento 202, nell’ala ovest del secondo piano] 
  
Il design di ogni singolo appartamento della palazzina di South Ashfield Heights era tutto sommato sempre lo stesso. Un corridoio a “L” che conduceva in cucina, salotto e poi nelle camere da letto, poste infondo. 
Henry utilizzò la chiave trovata nell’appartamento del custode per aprire la serratura della porta del #202. 
Quando entrò, si ritrovò subito in un corridoio pieno di quadri dalle più svariate dimensioni. 
Vi erano quadretti semplici, già appesi sulle pareti, e quadri più grandi poggiati a terra lungo i muri. Henry li osservò e gli unici riconoscibili ai suoi occhi raffiguravano i vari inquilini della palazzina. 
Richard Braintree, l’infermiera Rachel, la donna amante dei gatti… 
A pensarci bene, mancavano solo lui ed Eileen Galvin. 
Il quadro enorme, che un tempo era posto al centro della stanza su un cavalletto da pittore, era stato spostato in un angolo ed Henry si lasciò incuriosire. 
Spostando il quadro, indietreggiò sorpreso di vedere che servisse a nascondere un oggetto ben preciso. 
  
“Ma che roba è?” 

Si avvicinò e scrutò una grossa bambola dalle fattezze umane, seduta su una parte della parete che era stata bucata.
 
Più guardava quel foro tuttavia, più gli faceva impressione. 

Sembrava quasi il varco che lui percorreva per arrivare nella realtà parallela. Era rotondo e aveva una striscia rossa attorno a sé, con incisi dei simboli sfocati e indecifrabili.
 
La bambola era grigia e sembrava rappresentasse un soggetto ben preciso in scala reale. Peccato mancassero alcuni pezzi. 
Osservandola bene, Henry notò che mancavano esattamente il petto, un braccio e la testa. 
Si chiese se avesse mai dovuto completarla, in qualche modo. Il problema era che non sapeva proprio come. 
Si avvicinò per esaminare meglio e fu così che calpestò un oggetto situato proprio ai piedi della bambola e che prima non aveva visto. 
Era una chiave. 
Era colorata e sembrava piuttosto un giocattolo. 
Henry fece spallucce e portò con sé la chiave, facendo per andare via. Fu in quel momento che, nel corridoio dove erano situate le stanze da notte, vide altri quadri. Tre in particolare attirarono la sua attenzione. 
Erano enormi, alti quasi quanto Henry. Egli si chiese come mai proprio tre quadri. 
Si avvicinò a uno di questi che, ironia della sorte, rappresentava la Wish House. 
Vi era una placca sopra. 
  
“Il primo segno,
E Dio disse,
Quando sarà il momento, purifica il mondo con la mia ira.
Raccogli l'olio bianco, la coppa nera e il sangue dei dieci peccatori.
Preparati per il rito della Sacra Assunzione.”
 
  
“I dieci cuori? I ventuno sacramenti?” 
  
Si chiese come mai sul quadro vi fosse incisa proprio la prima parte del rituale. 
Subito si volto verso gli altri due quadri, per controllare se anche questi avessero qualche cosa di strano. 
  
Il secondo quadro era posto di fronte al primo. Raffigurava…un momento…una prigione? 
Era una cella disegnata con linee essenziali. Un acquerello semplice ma ben fatto. Sembrava trafiggere l’anima di chi lo osservava destando in lui desolazione e turbamento. 
Anche qui vi era un’altra incisione: 
  
“Il secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco, sii poi liberato dai vincoli della carne, per ottenere il potere dei cieli.”
 
  
“Il potere dei cieli…la sacra Assunzione?” 
  
Sul terzo quadro, invece, vi era inciso il messaggio del terzo e anche dell’ultimo segno dell’ascesa della Santa Madre.

“Il terzo segno,
E Dio disse,
torna alla fonte attraverso la tentazione del peccato. Sotto l'occhio vigile del demonio, vaga solitario nel caos senza forma. Solo allora le conciliazioni saranno in allineamento.

L'ultimo segno,
E Dio disse,
separa dalla carne anche colei che è
 la Madre Rinata e colui che riceve Saggezza. Se questo sarà fatto, attraverso il mistero dei 21 sacramenti, la madre rinascerà e la nazione del peccato sarà ridente.” 
  
Alzando gli occhi, vide che il quadro raffigurava Eileen Galvin. 
L’immagine era quasi del tutto nera. Vi erano forti giochi di chiaro-scuro e solo la schiena nuda di Eileen era ben definita. 
Come quando viaggiò con lui nella realtà parallela, ella aveva il corpo tinteggiato di macchie rosse. Sulla schiena vi era un’incisione, 20/21. 
  
Henry toccò quel quadro provando una profonda malinconia. 
  
“Eileen…” 
  
Nell’avvicinarsi, udii dall’altra parte del quadro dei singhiozzi. Erano frequenti e sembravano proprio quelli della sua vicina di casa. 
  
“Eileen, sei qui dietro?!” urlò, cercando di sfondare il quadro. 
  
Solo allora si accorse che quelli non erano affatto quadri… ma porte! 
  
Scrutando di nuovo tutti e tre i “quadri/porte”, vide che tutti avevano un piccolo incastro dove poter far girare una chiave. 
A quel punto riprese dalla tasca la chiave giocattolo trovata ai piedi della bambola e la osservò. 
Facendo mente locale, Walter era un bambino all’epoca in cui viveva nella Wish House. E se… 
Così provò a girare la chiave nella fessura del primo quadro e un meccanismo effettivamente scattò. 
La porta si aprì. 
Deglutì, ma non pensò nemmeno per un istante di non entrare. Arrivato a quel punto, sarebbe stato stupido indugiare. 
Affacciandosi dentro, Henry si sorprese di vedere che al suo interno vi era un ambiente completamente buio. Avanzando tuttavia, si accorse che quella non era certo la cosa più sconcertante. 
  
*** 
  
[LUOGO SCONOSCIUTO I, aperto con la chiave giocattolo] 

Non appena Henry solcò la porta, si ritrovò immerso nel buio. Non solo. Il suolo era fangoso e quasi vi sprofondava. Una violenta folata di vento e acqua costrinse il ragazzo a ripararsi il viso con le braccia. Dove era finito? Sembrava autunno inoltrato e faceva un freddo cane. 
Completamente zuppo, guardò dietro di sé e vide che la porta dalla quale era entrato era sparita. Vi era al suo posto solo un fradicio recinto di travi di legno. Così, non poté far altro che proseguire in quella terra buia e fangosa. 
L’acqua e il vento gli impedivano di aprire gli occhi e vedere nitidamente, sicché cercò velocemente un riparo. 
  
“C’è una luce lì..?” 
  
Portò una mano all’altezza della fronte e distinse una serie di alberi infittirsi da lì a una cinquantina di metri. Fra le loro fronde, in lontananza, vide una tenue luce opaca brillare nella notte. 
Cos’era? Una casa forse? 
Strinse la camicia attorno a sé cercando di camminare con il passo più veloce possibile per evitare di passare troppo tempo in quella tormenta fredda. 
La pioggia scendeva violentemente, soffocando quasi il giovane dai capelli castani, mentre faceva del suo meglio per non perdere l’orientamento. Un tuono poi illuminò per qualche attimo quel cielo nero, facendo così aumentare la pioggia ulteriormente. 
Si chiese come mai un clima simile. Se anche quel posto rappresentava Sullivan, anche quella pioggia aveva un suo perché? 
  
In verità, era già abbastanza irrazionale oltrepassare da una porta in un appartamento e ritrovarsi in un’atmosfera autunnale notturna. Figuriamoci proseguirci senza sapere nemmeno che fare! 
  
La luce divenne sempre più distinta e Henry si accorse che proveniva proprio dalla finestra di una casa, come aveva supposto. Tuttavia non era la Wish House…
Ansimante, si affrettò a raggiungere l’abitazione. Si strinse all’altezza dell’addome non potendone più di quel freddo e provò ad affacciarsi cercando di intravedere chi vi abitasse. 
Fortuna che Henry fosse un ragazzo di un metro e ottantacinque, altrimenti non avrebbe mai potuto raggiungere quella finestrella. 
Sbirciò all’interno e non riuscì a vedere un accidenti. Gli pareva di intravedere un uomo alto, ma era coperto da un copricapo rosso o qualcosa del genere. Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a distinguerlo meglio. Dei brusii, simili a delle preghiere, provenivano dall’interno e solo dopo essere stato ad ascoltare in silenzio, comprese che stavano leggendo qualcosa. 
Non voleva fare ipotesi azzardate, ma sembrava quasi la celebrazione di una messa. Che quella fosse una chiesa? 
Henry scrutò meglio quella casa, ma non aveva nulla che ricordasse un luogo sacro. E perché poi in mezzo ad un bosco? 
Il brusio terminò ed Henry girò di colpo il capo quando vide la porta rugginosa aprirsi. 
  
“!!” 
  
Rimase immobile nella sua posizione, mentre vedeva due uomini alti uscire. Indossavano entrambi una lunga tonaca scura e uno di loro aveva un pezzo di stoffa rossa poggiato sul braccio. Probabilmente era l’uomo che Henry aveva visto dalla finestra. 
L’altro invece aveva un paio di libri in mano. Dei libri antichi, consumati, e parlava al suo collega. 
Henry camminò lentamente seguendo il perimetro della casa, attento a non farsi vedere, mentre cercava di capire cosa stessero dicendo i due. 
  
“Come vanno le cose con Walter?” 
  
“E’ ancora presto per avanzare con la teoria. Altri due o tre giorni nella torre e sarà pronto, padre Stone.” 
  
Henry li osservò parecchio perplesso, mentre si incamminavano noncuranti per un piccolo viale, nel pieno della notte. Uno dei due aveva nominato un tale Walter. Che si trattasse dello stesso Walter di sua conoscenza? 
La porta era stata lasciata aperta, così sbirciò cautamente prima di inoltrarvisi. 
A dispetto del luogo circostante, nella casa vi era un tepore piacevole, dovuto al camino acceso. Il pavimento era di legno, così come tutto l’arredo in generale. Henry si sorprese di vedere che al suo interno non vi fosse nessuno. Eppure avrebbe giurato di aver sentito un brusio emesso da almeno una manciata di persone. Solo allora si accorse di un ragazzino seduto di spalle vicino un tavolo di legno. 
Henry lo riconobbe subito in Walter-bambino, sicché gli si avvicinò. 
  
“Chi erano quegli uomini? Uno di loro si chiama padre Stone. È un sacerdote?” gli chiese. 
  
Walter a quel punto si girò. Aveva un viso nervoso, incurante di avere dinanzi a sé un ragazzo fradicio e infreddolito. Lo rispose in modo seccato, confermando semplicemente le parole di Henry. 
  
“È padre Stone. Il maestro del culto di Valtiel.” 
  
Henry si accorse che il piccolo Walter non fosse in vena di parlare così, vedendo che questi gli dava ancora le spalle, fu lui a portarsi di fronte al ragazzino. 
  
“Fuori c’è il temporale, come farai a tornare in orfanotrofio?” 
  
Walter scosse la testa, continuando a distogliere lo sguardo da Henry. Lo vide stringere i denti e corrucciare il viso. 
  
“Che importa? Tanto devo ritornare nella torre stasera, e anche domani.” 
  
Il moro a quelle parole si incuriosì. 
  
“Cosa intendi? La prigione cilindrica?” 
  
Il biondino tuttavia non rispose, come fosse infastidito da quella domanda, ma Henry non aveva tempo da perdere. Doveva sapere. 
  
“Dimmi che stavi facendo qui dentro. Chi erano quei tizi e di quali diavolerie ti stavano parlando?!” 
  
Henry forse parlò troppo duramente, perché vide Walter alzarsi dalla sedia e rispondergli a tono. 
  
“Io non ti devo dare conto di niente! Io devo dare conto soltanto a Dio!” 
  
Il ragazzo si bloccò di colpo quando lo vide con quel volto sgomentato ed adirato. Non sapeva cosa gli fosse accaduto e non sapeva con quale frammento del passato di Walter stesse avendo a che fare. Così subito cercò di abbassare i toni e di ristabilire una certa fiducia nei confronti del bambino. 
  
“Senti, mi dispiace. Ma ho bisogno di sapere cosa ne sai di un rituale chiamato ventuno sacramenti. È importante.” 
  
Walter si fece dubbioso e lo guardò diffidente. 
  
“Perché? Chi sei?” 
  
Henry si chinò verso di lui, poggiandosi con le mani sulle ginocchia. 
  
“Perché l’ascesa della Santa Madre è una bugia. Un inganno.” mentre palava, vedeva il biondino sgranare gli occhi sempre di più, ma non se ne curò. Doveva dirglielo, doveva almeno provarci. Non avrebbe evitato ciò che inesorabilmente era già accaduto, tuttavia adesso Walter era solo un bambino, ed era lì che era iniziato tutto. “Tu devi credermi.”  
  
Il bambino a quel punto indietreggiò, con il viso sgomentato, tremante, avvicinadosi all’uscita. Henry subito allungò un braccio verso di lui. 
  
“Walter, non scappare!” 
  
“Z-zitto!” urlò, con gli occhi da fuori. “Non chiamarmi così! Io non ce l’ho un nome! Quello è il nome che hanno scelto per me padre Rosten e padre Stone.” 
  
Continuò ad indietreggiare riprendendo le distanze ed Henry avanzò assieme a lui. 
  
“L’ascesa della Santa Madre è un rituale blasfemo che non ti riporterà mai dalla tua famiglia.” 
  
“Non parlare della mamma…della Santa Madre! Non ti permettere!” 
  
Henry si bloccò, udendo quell’affermazione. 
  
“…hai detto ‘mamma’?” sussurrò. 
  
A quel punto Walter sbandò alle parole di Henry e scappò via verso il bosco. Il ragazzo provò ad andargli dietro, ma la pioggia, il buio e il vento gli impedirono di stargli alle calcagna. Urlò il suo nome più volte, ma stesso lui, per quanto si sforzasse, non riusciva ad udire la sua stessa voce. Tutta colpa di quella pioggia incessante e di quei terribili tuoni che squarciavano il cielo. 
Con il cuore che prese a battere forte, si riavvicinò alla casa, non sapendo che fare. 
Anche se non l’avrebbe mai ammesso, era in ansia per quel ragazzino. Pur sapendo che quella fosse una mera manifestazione di Sullivan, non poteva non essere rimasto turbato dalle sue parole. 
Gli aveva detto di non avere un nome…e in effetti era vero. Egli era stato abbandonato quando era nato, nessuno prima del culto, aveva dato a lui un’identità. 
E poi…aveva chiamato la Santa Madre ‘mamma’, questo fece crescere in lui un terribile sospetto. Che dopotutto, lui, con i ventuno sacramenti, non avesse fatto altro che ricercare sua… 
  
“!!” 
  
Henry sussultò quando, mentre si poggiava con la schiena vicino al muro della casa, questa prese a sgretolarsi. 
  
“Ma che diavolo?!” 
  
Immediatamente si ritrasse e la casa cadde a pezzi proprio sotto i suoi occhi pieni di sgomento. 
Si alzò una quantità indicibile di calce e polvere ed Henry fu costretto a coprirsi il viso e a rannicchiarsi in un angolo. 
Sentì i pezzi di muro cadere violenti, come se la casa si stesse demolendo da sola dall’interno. 
Quando i rumori cessarono, osservò le macerie incapace di spiegarsi con razionalità la visione che aveva appena avuto.
Era tutto distrutto. Tutto era caduto a pezzi in maniera inarrestabile. Henry si avvicinò a quei resti ancora fumanti della polvere che si era innalzata e guardò non capacitandosi che, fino a pochi secondi prima, lui e il bambino Walter fossero lì dentro. 
Notò poi che il centro della casa era rimasto intatto. Quando vi si affacciò, vide che vi era un patibolo. 
  
“Cosa ci fa una cosa simile qui?” disse, mentre scavalcava le macerie e si avvicinava a quel patibolo vecchio. 
  
Era fatto di pietra e sulla lunga trave di legno vi era appeso un cappio di corda. Tre scalini erano posti ai suoi piedi ed Henry li salì, cercando di esaminare tutto con cura. 
Piegandosi da un lato, vide che vi erano tre forme quadrate nelle quali sembrava si ci dovesse incastrare qualcosa. In ognuna di queste tre forme c’era un’incisione che Henry lesse. 
  
In quella a sinistra vi era scritto: “Il giustiziere che gli diede la morte” 
In quella a destra vi era scritto: “Il giustiziere che gli diede l’inganno” 
In quella al centro vi era scritto: “Il criminale che morì per sua Madre” 
  
Henry aggrottò le sopracciglia. Erano un indizio? Dove poteva trovare quelle forme quadrate? 
  
Si mise a cercare tra le macerie. 
Trovò innanzitutto diversi libri sull’occulto di cui uno voluminoso che trattava proprio dei ventuno sacramenti. Le pagine tuttavia erano sbiadite e non riusciva a decifrarle. 
Tra queste, comunque, ve n’era una molto rigida. Sembrava fatta di pietra. Vi era impresso un bassorilievo che ritraeva un uomo e una donna con delle lance in mano. Fece leva su questa e la staccò dal libro. A sua sorpresa, se ne venne velocemente. 
Gli sembrava più o meno della stessa dimensione della forma quadrava sul patibolo, così la tenne con sé.  
  
Continuò a cercare e trovò a terra una placca spaccata a metà raffigurante un uomo impiccato. Infine l’ultima placca riuscì a recuperarla lontano dalle macerie, vicino ai ceppi di legno carbonizzati del camino. Anche questo raffigurava il bassorilievo di quello che sembrava un esecutore.  Aveva in mano un libro con il simbolo del culto. 
  
Si avvicinò al patibolo e ragionò su come disporre i tre pezzi. 
  
Il primo quadrante che aveva trovato raffigurava una coppia. Pensò subito ai genitori di Sullivan. I giustizieri che “gli diedero la morte”. Così la incastrò a sinistra. 
L’uomo col libro del culto in mano lo mise a destra, dove vi era l’incisione del “giustiziere che diede l’inganno.”. Quella piastra doveva rappresentare per forza il culto che lo ingannò con i 21 sacramenti. 
Infine, mise al centro l’ultima piastra, ove era raffigurato un uomo impiccato, il “criminale che morì per sua Madre”… 
…Walter Sullivan. 
  
In quell’istante, un urlo di dolore lo fece sobbalzare, tant’è che Henry cadde a terra sui tre gradini. Quando alzò il capo, inorridì vedendo che, sul patibolo, fosse comparsa un’ombra. 
Effettivamente non era un’ombra. Sembrava più il corpo di un uomo impiccato, ma completamente tinto di nero. Era strano, assurdo e… 
Si alzò e osservò quell’inquietante ombra. La sagoma era indefinita ed era lì, penzoloni, con il collo appeso su quel cappio. 
  
“Oddio…” sussurrò, inorridito. 
  
Sebbene fosse un fantoccio tutto nero, vedeva il suo corpo oscillare al vento, sotto la pioggia, come fosse vero. 
Avvicinandosi, vide che aveva le mani congiunte e serravano qualcosa con una stretta ferrea. 
Con un po’ di forza, riuscì a sfilargli fra le mani l’oggetto e vide che si trattava di una chiave. 
Era una chiave abbastanza grande, di ferro e…toccandola, Henry rimase nauseato di vedere che fosse incrostata di sangue e di ruggine. Purtroppo, non poteva permettersi il lusso di essere schizzinoso, così cercò di leggere, nonostante il buio, l’incisione che vi era sopra: 
  
#11121 
  
“Ma cosa diavolo..?” 
  
11121? Perché quella scritta? Un momento, e se quello invece fosse, più che altro, 11/21? 
Per quanto ricordava, quello era il marchio trovato sull’uomo che fu arrestato dieci anni prima e che fu identificato come Walter Sullivan. 
  
In quel momento Henry udì un rumore metallico e, ai suoi piedi, vide che era comparsa una porta, posta in orizzontale sotto il patibolo. 
Egli rimase sconcertato. Si piegò e, girando il pomello, vide che la porta si apriva, così vi saltò dentro. 
  
*** 
  
[Appartamento #202, South Ashfield Heights] 
  
Era di nuovo nella stanza del pittore. 
Sentì un ticchettio dietro di lui, così si girò verso la porta posta alle sue spalle. Vide che, incastrato su questa, vi era un pezzo di gomma grigio. Poggiandoci l’orecchio quasi sussultò quando vide che il ticchettio proveniva dall’interno di quel coso! 
Più lo sentiva, tuttavia, e più che un ticchettio, gli ricordava il battito di un cuore. 
Il battito di un cuore? I dieci cuori del primo segno? 
Effettivamente sulla porta appena solcata c’era proprio l’incisione riguardante la prima fase del rituale. 
Si chiese quindi se quell’oggetto avesse quel simbolismo. 

“A pensarci bene…quella bambola non aveva una parte del petto.”
 
  
Prese dunque l’oggetto e, a guardarlo meglio, ora era abbastanza lampante che raffigurasse proprio un torace. 
  
Si avvicinò alla bambola seduta sul foro nel salotto e provò ad incastrare il pezzo. Combaciava alla perfezione! 
Dalla tasca estrasse la chiave che aveva trovato fra le mani dell’impiccato. 
  
“11/21…” 
  
A quel punto si avvicinò alla seconda porta, il quadro raffigurante una prigione, e vide se vi era possibile incastrare la chiave nella serratura. 
La chiave rugginosa e sporca di sangue girò e la porta si aprì. Henry ebbe un po’ di turbamento. 
  
Lesse un’ultima volta quell’incisione. 
  
“Il secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco, sii poi liberato dai vincoli della carne, per ottenere il potere dei cieli.”
 
  
Si chiese cosa avrebbe mai visto questa volta, dopodiché scavalcò il quadro ed entrò. 
  
[LUOGO SCONOSCIUTO II, aperto con la chiave incrostata di ruggine e sangue] 
  
Henry si ritrovò sdraiato a terra. Quando rinvenne, non riuscì a spiegarsi esattamente da dove fosse venuto. Ricordava solo di aver utilizzato la chiave trovata sul patibolo e poi di essere entrato nella porta/quadro. 
Si rialzò ed osservò il luogo circostante. 
Questa volta si trovava al chiuso, in un lungo corridoio grigio. Era terribilmente umido lì e il soffitto gocciolava di acqua fetida. Sentiva le ossa indolenzite come se l’umido potesse penetrare anche al loro interno. 
Dalla luce tenue, ma candida, Henry dedusse che doveva essere mattina molto presto. Vi erano una serie di finestroni lungo tutto il corridoio e tutte erano sbarrate, lasciando così che la luce proiettasse la loro ombra a terra rigando il pavimento. 
  
“Dove sono..?” 
  
Henry si alzò sulle ginocchia e poi prese a camminare, scrutando l’ambiente. Vi erano una serie di celle sporche e vuote, e il moro comprese di essere esattamente dove si aspettava. 
  
“Una prigione…” 
  
Mentre proseguiva, si accorse che una delle celle era aperta, così vi entrò. Non era molto grande ed era anch’essa vuota. Sul letto scolorito, vide poggiato un ritaglio di giornale. Sembrava appartenente alla sezione dei necrologi. 
  
“[…]Ne danno la triste notizia i genitori, i signori Locane, residenti a Silent Hill. Billy e Miriam sono stati rinvenuti morti durante la stessa giornata. Il primo, morto sul colpo, è stato ferito sul capo da un’arma da taglio, nel giardino di casa. Miriam Locane, invece, è stata trovata lungo la strada.[…]parti del suo corpo non sono mai stai trovati[…]I loro cuori erano stati asportati[…]” 
  
Henry non riuscì a leggere di più. Era un liceale all’epoca, ma ricordava quando venne data quella terribile notizia alla tv. 
Chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, quella storia avrebbe riguardato anche lui. 
Uscì dalla cella e continuò l’esplorazione. Un’altra serie di celle erano aperte ed in tutte vi erano alcuni frammenti di giornale. Henry li lesse e ognuno di questi riguardava una delle vittime di Walter Sullivan. 
Riconobbe anche nomi di gente che aveva avuto modo di vedere in viso come Sein Martin, Bobby Randolph, Eric Walsh, William Gregory, Steve Garland, Rick Albert… 
Ritrovò persino il nome dei due sacerdoti del culto: Jimmy Stone e George Rosten. Entrambi uccisi, il primo nella Wish House, il secondo nella foresta di Silent Hill. 
Ripensandoci…erano tutte le vittime del primo arco di omicidi compiuto da Sullivan. I dieci cuori. 
  
Una volta uscito dall’ultima cella, trovò un altro giornale sporco a terra. Lo raccolse. 
  
“La polizia ha comunicato oggi che Walter Sullivan, arrestato il 18 di questo mese per il brutale assassinio di Billy Locane e di sua sorella Miriam, si è suicidato nella sua cella nelle prime ore del 22. 
Secondo il comunicato della polizia, Sullivan si sarebbe conficcato un cucchiaio nel collo recidendosi la carotide. 
Le guardie hanno trovato Sullivan morto per emorragia, con il cucchiaio infilato fino a 5 centimetri dal collo. 
Un vecchio compagno di scuola di Walter Sullivan del suo paese, Pleasant River, ha detto: 
  
 “Non sembrava tipo che ammazza dei bambini, ma ricordo che poco prima del suo arresto farfugliava dicendo cose come ‘Sta cercando di uccidermi. Il mostro…il Diavolo Rosso. Perdonatemi. L’ho fatto, ma non sono stato io!’.” 
  
Il compagno di scuola ha poi aggiunto: 
  
 “Ora che ci penso, era un po’ pazzo.”.” 
  
Henry chiuse il giornale e lo rimise a terra. 
  
“Il diavolo rosso..? Jimmy Stone?” subito portò una mano sul capo, confuso. “J-Jimmy? Ma che diavolo sto dicendo?” 
  
Perché aveva detto il nome di Jimmy Stone? Non sapeva spiegarselo, eppure quando aveva letto quel nome gli era venuto spontaneo. Come se sapesse che fosse così e basta. 
Il Diavolo Rosso…egli… 
Era così che si faceva chiamare. 
Si sentì turbato di avere dentro di sé quella consapevolezza. Un qualcosa che in teoria non doveva di certo sapere. Scosse la testa ed aprì la porta di servizio di fronte a lui. 
Una volta entrato, sgranò gli occhi non aspettandosi minimamente di non trovare una rampa di scale, o un corridoio… 
Henry si trovava in un cimitero. 
La maggior parte delle tombe erano sbiadite, senza alcun nome o epitaffio. Alcune erano persino spaccate. La nebbia gli affaticava non poco la vista e gli ci volle un po’ per esaminare l’ambiente. 
Henry si fermò solo quando una certa tomba attirò la sua attenzione. Sulla lapide vi era inciso un nome. 
  
Walter Sullivan 
  
Sgranò gli occhi quando vide che, ai piedi della lapide, ci fosse un largo fossato che conduceva verso il basso. 
  
“C-conduce da qualche parte?” 
  
Il ragazzo si affacciò dal fossato, ma era completamente buio e non riusciva a distinguere un bel niente. 
Si rialzò e sentì un groppo in gola. 
Doveva…saltare? 
Effettivamente l’unica via d’uscita in ogni luogo visitato era sempre stata in basso. 
Così era accaduto anche nella foresta precedente e ora…nella tomba? 
Così, ansimante e con il cuore palpitante, si decise a lanciarsi. Aveva una terribile ansia addosso, ma non poteva fare altrimenti. 
  
*** 
  
“Ah…” 
  
Henry alzò il capo, dopo essersi lanciato nel fossato del cimitero. Si trovava ora in una stanza buia e fredda. Decisamente piccola. 
Aveva perso per qualche attimo conoscenza, oppure era passato più tempo? La sua cognizione del tempo stava vacillando, in verità da un po’. 
Quando si mise in ginocchio sul pavimento, vide che affianco a lui vi era una sedia. Non ne comprese il senso e così continuò a girare il capo. Solo allora si accorse che la stanza era divisa da un lungo sbarrato di ferro che la tagliava perfettamente a metà. 
Henry corrucciò il viso quando dall’altro lato, seduto su un letto logoro in tenuta da prigioniero, vide un uomo. 
Era alto ed era anche piuttosto magro, anche se muscoloso e dalle spalle larghe. 
Aveva il volto trascurato, con un accenno di barba e dei lunghi capelli biondi e spettinati che scendevano fin sotto il collo. 
  
“Walter?” disse, non appena si accorse che effettivamente era proprio lui. 
  
Egli aveva il capo chino e rigirava fra le mani un cucchiaio, mentre era assorto nei suoi pensieri. 
Henry si alzò e si avvicinò alle sbarre cercando di capire se quell’uomo potesse vederlo. Sbandò quando vide che questi gli si rivolse mostrando i suoi occhi verde chiaro. 
Aveva un volto scavato e un sorriso appena abbozzato in viso. Henry si ritrasse e si allontanò appena. 
  
“C-che cosa fai qui?” gli chiese il moro con la voce leggermente tremolante, poi aggiunse. “Cosa ci faccio io qui?” 
  
Walter non rispose e rimase immobile ad osservarlo, al che Henry prese la sedia e l’avvicinò alle sbarre. 
Si ritrovarono così in silenzio, l’uno di fronte all’altro, separati da quelle sbarre. Il moro proprio non riuscì a comprendere cosa dovesse fare, dunque attese pazientemente che il biondo si pronunciasse. 
  
“Sei qui perché sei Colui che Riceve Saggezza.” gli rispose finalmente Walter, soave. 
  
Henry non disse nulla, si limitò solo a guardarlo severamente. Walter riprese parola, parlando con voce bassa. 
  
“Ti ricordi cosa succede adesso, vero?” gli chiese. 
  
Henry chinò appena il capo, cercando di comprendere cosa egli intendesse. 
  
“…la sacra Assunzione?” 
  
Walter annuì con la testa, compiaciuto della sua risposta. 
  
“Esatto. La sacra Assunzione per la discesa della Santa Madre.” 
  
A quel punto Henry schiuse le labbra per cercare di parlargli, ma Sullivan lo interruppe facendo un cenno con la mano. Portò l’indice all’altezza del mento e cominciò a recitare i ventuno sacramenti chiudendo gli occhi. 
  
“Il secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco,
 
sii poi liberato dai vincoli della carne, 
per ottenere il potere dei cieli.” 
  
Riaprì gli occhi e guardò Henry. 
  
“La carne è il vincolo che ci lega a questo mondo malvagio. Se vogliamo che la Santa Madre ritorni, dobbiamo innanzitutto sciogliere i vincoli dalla materia e divenire spirito.” 
  
“Cosa..?” 
  
Walter gli sorrise fulmineo. Il suo sguardo era atroce ed inquietante. Inquietante come un diavolo. 
  
“Osserva Henry…osserva l’uomo che diviene Dio!” 
  
A quel punto, inaspettatamente, Walter strinse il cucchiaio fra le mani e, con una violenza e veemenza inaudita, andò a colpire il suo stesso corpo ripetutamente all’altezza del collo, fino a graffiarlo e a ferirsi. 
Henry, in quel frangente di secondo, non appena vide il sangue di Walter Sullivan cominciare a fuoriuscire, ebbe una terribile fitta al cervello. 
  
“Argh!” urlò, provando un dolore accecante. 
  
Ebbe un forte senso di vertigini e nella sua testa cominciò ad avvertire dei terribili stridii, al che cadde dalla sedia e rimase a terra dolorante. 
Sentiva intanto Walter Sullivan urlare e il suo respiro farsi sempre più soffocato, ma perse di lì a poco i sensi, assieme all’ assassino morente… 
  
[Appartamento #202, South Ashfield Heights] 
  
“Henry, Henry!” 
  
“C-cosa?” 
  
Henry si ritrovò in un ambiente buio. Non vi era nulla, se non una luce opaca proveniente proprio sopra di lui. Sebbene fosse sdraiato a terra, aveva come la sensazione di galleggiare. Stava forse…sognando? 
  
“Henry!” 
  
La voce lo richiamò per l’ennesima volta, ed Henry aprì gli occhi riconoscendo quel tono femminile e determinato. 
  
“Eileen?!” 
  
Il suo volto si andò ad incrociare con quello di Eileen Galvin, la sua vicina di casa. Era chinata affianco a lui e sembrava preoccupata. La osservò sconcertato. Era proprio lei. Proprio come se la ricordava. Indossava una canotta rosa a strisce e una gonna di jeans corta. Aveva un’aria sobria ed Henry si specchiò nei suoi lucenti occhi acquamarina, contornati dalle leggere lentiggini. 
  
“Eileen…” 
  
Provò una dolce sensazione in corpo nell’averla lì, accanto a sé, e quasi si sentì…bene? 
Tuttavia la sua presenza lo turbò, tant’è che si rialzò e la guardò inquieto. 
  
“Cosa ci fai nell’altra dimensione? Tu non dovresti essere qui!” 
  
Le si rivolse preoccupato e fece per afferrarle una mano, ma subito la ragazza dai capelli castani prese a correre, sfuggendogli. Si voltò solo una volta, parlandogli con tono agitato. 
  
“Vieni Henry! Sta piangendo, lo sento!” 
  
E corse via. Henry subito allungò un braccio nel tentativo di fermarla. 
  
“Dove vai? Aspetta!” 
  
Ai suoi occhi poi, improvvisamente, tutto svanì. Eileen, l’ambiente nero… 
Si trovava di nuovo nell’appartamento 202. Proprio davanti alla porta con il quadro della prigione. Portò una mano sul capo, confuso. 
  
“E…Eileen…era davvero lei?” 
  
Aver visto Eileen aveva riacceso in lui il fortissimo desiderio di rivederla. Tuttavia quell’immagine… era stata una proiezione della sua mente, oppure era davvero stata risucchiata nel mondo di Walter Sullivan? 
Guardando a terra, si accorse che vi era un altro pezzo del pupazzo. Era un braccio. 
Henry lo raccolse e lo andò a posizionare sul fantoccio. 
Si chiese se, a quel punto, quel pupazzo non simboleggiasse in qualche modo Walter Sullivan. 
Il corpo era adesso completo, tuttavia mancava la testa. Questo rendeva impossibile riconoscere le sue reali sembianze. 
  
Si avvicinò alla terza porta. L’ultima rimasta. Quella che ritraeva proprio lei, Eileen Galvin. 
Strinse gli occhi, convinto che l’avrebbe incontrata. 
Certo, probabilmente avrebbe avuto a che fare con un ricordo di Walter, ma sapere che una parte di lei, anche se solo un’ombra, vivesse imprigionata lì dentro, lo turbò molto. 
Avvicinò l’orecchio e sentì che, al di là della porta, vi erano ancora quei sospiri sofferti. 
Quando fece per girare il pomello della maniglia, vide che la porta era chiusa a chiave. Tuttavia la chiave era comparsa inaspettatamente stesso nella serratura. Su di essa vi era appeso un portachiavi raffigurante la bambolina che lei stessa, da bambina, regalò a Walter Sullivan. 
Girò dunque la chiave ed entrò. 
  
[LUOGO SCONOSCIUTO III, aperto con la chiave con il portachiavi della bambola di Eileen] 
  
Me l'ha data Miss Galvin tanto, tanto tempo fa...  
Era più giovane allora. 
Sembrava così felice stringendo la mano di sua madre...  
Tieni, te la regalo. 
  
(Walter Sullivan, sulle scale del terzo piano di South Ashfield Heights) 
  
Sigh…Sigh… 
  
Aveva tanta paura e tanto freddo. Si chiese se quello fosse un dolore umanamente sopportabile. Perché semplicemente non ne poteva più. 
Le luci erano spente, in quello che in apparenza sembrava un appartamento come gli altri. Le pareti erano rivestite di una carta da parati floreale e l’ingresso era composto da una cucina sul verde opaco e un salotto con un divano sempre dai motivi floreali. Di fronte vi era un tavolo basso in legno e, affianco al televisore, c’era una poltroncina abbinata al divano. 
  
E un fantoccio con una maschera rossa a forma di becco dondolava sul soffitto. 
Delle lunghe forbici appuntite erano conficcate nel cranio. 
  
“Mamma!” 
  
Una donna di circa vent’anni era seduta sul divano, in lacrime, e un bambino dai capelli biondo cenere era seduto accanto a lei, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre lei gli accarezzava il capo. 
Lei era vestita in maniera molto sobria. Con una canotta a righe e una corta gonna di jeans. Ella piangeva ancora, mentre il suo corpo, lentamente, si rivestiva di uno strano bagliore rossastro che pulsava. 
I suoi occhi erano persi nel vuoto e continuava a piangere e a invocare la madre. 
  
“Sono qui per te, dove sei? Non riesco a trovarti!” 
  
Mentre singhiozzava, s’intravide nella penombra un uomo seduto di fronte a lei sulla poltrona. Aveva i capelli biondi, leggermente in disordine, e se ne stava lì in silenzio con le braccia poggiate sulle ginocchia ad osservare quella ragazza. 
  
Ad osservare la Madre. Eileen…Galvin. Si, era così che si chiamava. Aveva udito più volte il suo nome. 
  
E il fantoccio con una maschera rossa a forma di becco dondolava ancora, violentemente, sul soffitto. 
Sembrava provare molto dolore. 
  
  
L’uomo col cappotto strinse gli occhi appena, mentre non batteva ciglio nel vederla in quello stato di dolore. Eileen continuava ad accarezzare il capo del bambino, che aveva ancora quel viso privo di ogni emozione. Al contrario, era Eileen che dava voce ai suoi sentimenti, al dolore che il piccolo covava dentro. 
  
“Ah, ho paura! Fa male!” urlò lei. Chiaramente interpretando il bambino. 
  
Walter non si scosse, come fosse consapevole che ella non potesse interagire con lui. Del resto, quello era il suo mondo, vigevano le sue regole lì. 
Eileen cambiò tono e non fu più infantile e sofferto, ma si fece profondo e…inquietante. Mosse le labbra e prese a parlare. 
  
“Tu menti, silenziosa davanti a me. 
Le tue lacrime…ora non significano più nulla per me. 
Il vento soffia dalla finestra. 
Tuttavia, ora non c’è più niente che puoi fare. 
Quindi ora riposa, nei miei ricordi…” 
  
Sospirò, sempre con voce profonda. 
  
“…mia carissima Madre.*” 
*The Room of Angels 
  
Walter rimase a osservarla ancora, in silenzio. Osservava la sua vittima numero venti, quella che simboleggiava la Madre rinata. 
Eileen…per Walter era sempre stata così. Fin da quando lei era una bambina, per lui aveva sempre simboleggiato questo. 
  
Lei…sembrava così felice quel giorno, con sua madre, mentre la mamma la teneva stretta per mano. 
Lei…sembrava così felice quel giorno, con sua madre, mentre Eileen la teneva stretta per mano. 
  
Eileen era sempre stata così negli anni. Aveva sempre avuto quegli occhi ridenti e rassicuranti che a lui erano mancati nella vita. 
E l’aveva guardata, quel giorno, con gli occhi sgranati, incapace di dire o fare qualcosa. 
  
Non l’aveva dimenticata per diciotto anni. 
  
Walter era sempre stato un pezzo di carne ambulante. Buttato dalla società, rifiutato dalle stesse persone che gli avevano dato la vita. Uno scarto. Mera spazzatura. 
Nessuno si era accorto che vivesse e la vita gli aveva fatto incontrare persone che gli avevano fatto credere che fosse esattamente così. 
Del resto…non aveva ottenuto una lacrima di compassione dai propri genitori. Che speranze aveva di trovare affetto in qualcun altro? 
Era nato ed era stato condannato a morte. A questo punto, non sarebbe stato meglio evitargli la sofferenza della vita? 
Ne aveva vissute tante e questo aveva incentivato la sua ferocia e il suo essere schivo e disgustato dal resto degli esseri umani. 
  
Quella bambina poi…venne un giorno, all’improvviso. 
Da figlia, ai suoi occhi, si trasformò in madre. 
Lei scappò via dalla donna che l’aveva generata per andare da lui. Prese la bambolina che invece era lei a possedere e gliela regalò. 
  
Walter Sullivan dalla tasca, in quel momento, estrasse la bambolina logora che ancora teneva con sé dopo diciotto anni. 
  
“Miss…Galvin…” disse, poi le rivolse nuovamente lo sguardo. “Madre…” 
  
Un atto di clemenza da parte di una bambina lo costrinse in lacrime. Un pianto che mai più avrebbe rifatto nella sua vita. Quello fu l’unico pianto del carnefice, prima di divenire una feroce macchina macchiata di sangue. 
  
Se solo non fosse già stato troppo tardi… 

Eileen riprese a piangere, come se avvertisse le emozioni che Walter stava provando in quel momento. L’uomo col cappotto la continuò a fissare ancora, incessante. Lei intanto riprese a parlare.
 
  
“Sei io fossi morto, tu non avresti mai sofferto per me. 
Tu non mi sentirai mai dire: 
‘Mi dispiace’ 
E se da qualche parte stessi piangendo? 
Dov'è la luce? 
Non c’è più niente che puoi fare, adesso… 
Addio.*” 
  
*The Room of Angels 
  
E il fantoccio con una maschera rossa a forma di becco dondolava ancora, violentemente, sul soffitto. 
Sembrava provare molto dolore. 
Eppure era soffocato. Non era in grado di urlare la sua pena.
Solo tramite quell'immagine silenziosa, l'assassino dava voce a quel dolore mentale.

  
Walter, a quel punto, chinò il capo. Guardò le sue stesse mani tinte ancora di sangue. Screpolate, spaccate, devastate. Potevano essere il perfetto specchio della sua anima. 
Un ragazzo con una camicia bianca e dei jeans scoloriti si avvicinò, avanzando in quella penombra in quel corridoio macchiato ancora del sangue di Eileen. Guardò Walter che sembrava essersi accorto di lui. Henry osservò prima Eileen, poi Walter. 
  
“Quel che mi fai vedere, Sullivan, non mi rende colui che riceve saggezza.” 
  
Walter lo guardò di striscio, poi rivolse nuovamente i suoi occhi ad Eileen. 
  
“Perché, Henry? Tu cosa vedi qui?” disse, inarcando le sopracciglia. 
  
Henry, invece, lo fissò gelido. I suoi occhi pallidi risplendevano in quel buio. Stesso Walter deformò il suo viso nel vederlo in quel modo. 
  
“Non dovevi toccare Eileen.” 
  
Il moro parlò a voce bassa, ma questo bastò per far ritornare serio l’assassino. Come se si fosse appena accorto che anche lui potesse vedere Lei. 
All’improvviso egli chiuse gli occhi e svanì dalla poltrona, come se quella, in realtà, fosse sempre e stata solo un’ombra. 
Nello stesso tempo svanì anche il bambino, e anche Eileen si ‘spense’. 
La mano che prima era sul capo del bambino, cadde sulla gamba; allo stesso tempo chinò il capo abbandonandolo di lato come se stesse riposando. 
Il ragazzo le si avvicinò, inginocchiandosi di fronte a lei e guardandola in viso. 
  
“Eileen…mi dispiace.” le disse. 
  
Le accarezzò il viso. La sua pelle era fredda ed Eileen era in uno stato catatonico. Aveva gli occhi rivolti verso il vuoto e talvolta sussurrava ancora delle parole che destavano il tormento di Walter Sullivan. 
  
“Hen…ry…Town…Shend…” disse lei, con voce malsana. 
  
Henry sorrise malinconicamente, poi si alzò. Le accarezzò di nuovo il capo e uscì dalla porta dell’appartamento #303. 
  
*** 
  
[Appartamento #202, South Ashfield Heights] 
  
Una volta fuori, Henry si ritrovò nuovamente nell’appartamento del pittore. I tre quadri erano svaniti. Anche quello dal quale era appena uscito. 
Si riavvicinò alla bambola grigia posta sul buco simile a quello presente nel suo appartamento e, alzando gli occhi, si sorprese di vedere che questa ora fosse completa. 
Per farlo aveva dovuto viaggiare nuovamente nei ricordi di Walter Sullivan. Aveva dovuto ripercorrere il rituale dei suoi ventuno sacramenti. 
Eppure… 
Era davvero inquietante… 
  
Perché, sebbene avesse viaggiato nei ricordi di Walter Sullivan, la testa della bambola era quella di Henry Townshend. 
Strinse gli occhi nel vedere quella bambola che aveva le sue sembianze. 
  
“Una parte di me…è di Walter Sullivan?” disse. Toccò il suo collo sul quale era ancora inciso il marchio 21/21. “In me c’è la sua conoscenza? Questo è il destino del ‘segno finale’?” 
  
Ripensò a quelle parole, quelle di Walter Sullivan pronunciate nel mondo del palazzo. 
  
“Appartieni a questo mondo…appartieni a me.” 
  
Riportò alla sua mente anche il discorso affrontato con la strana voce nel suo appartamento. 
  
“Il dolore, la sofferenza, la rabbia…tutto è vivo lì e sono i costanti compagni dell’anima peccatrice. 
Ma Henry…anche tu fai parte del peccato di Walter Sullivan. Tu vivi come lui le pene del suo inferno.” 
  
A quel punto Henry alzò gli occhi e sospirò, leggermente affranto. 
  
“Io…io sono…” si fermò. “Mi dispiace…Eileen” 
  
In quel momento il tempo sembrò fermarsi. 
Una campana cominciò a suonare…i suoi rintocchi echeggiarono per tutta la palazzina di South Ashfield. 
  
Henry chiuse gli occhi e nella sua mente si figurarono i corridoi del suo condominio. 
Orride creature salivano le scalinate del palazzo, e uno strano sussulto lo percorse lungo tutto il corpo. 
Nella sua testa vide scorrere i vari ambienti visitati, fino a giungere nel suo appartamento. 
Vide la sua casa, la #302. Passò oltre il corridoio, oltre quella stanza murata dove Walter aveva sciolto i vincoli della carne ed era rinato. 
La sua mente prese a pulsare quando gli si mostrò l’orma nera. L’orma dove Walter avrebbe terminato i ventuno sacramenti. 
Infine…si mostrò anche Lui. 
L’uomo col cappotto trafisse Henry con lo sguardo, come se potesse vederlo attraverso la sua mente stessa. 
E lo stava aspettando. 
  
La campana continuava a suonare. 
Henry riaprì gli occhi, sistemò la pistola dietro la schiena, e s’incamminò verso l’appartamento #302. 
Da Walter Sullivan. 
  
  
[…] 
 
 
  
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