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Autore: Msstellina001    26/08/2012    5 recensioni
Vi siete mai chiesti cosa accadde ad Arizona Robbins durante i suoi primi mesi al Seattle Grace Hospital, tutto quello che le accadde sin dal suo primo giorno e che negli episodi televisivi non hanno fatto vedere, ma hanno solo accennato? Ho pensato un po' e mi sono fatta una mia idea!
Ammetto però, che è la prima volta che scrivo, quindi non aspettatevi chissà cosa!
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione
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UN CAFFE’ AL GIORNO TOGLIE LA RABBIA DI TORNO
 
“Jenny Williams, anni cinque, ricoverata per convulsioni prolungate e ripetute,non è stata fatta ancora nessuna diagnosi, l’anamnesi completa ci è già stata mandata dal pronto soccorso, ha avuto un ulteriore attacco dieci minuti fa ed è stata trattata con Diazepam”.
Il mio specializzando aveva appena finito di presentare il caso della mia ultima paziente di quella mattina, io mi apprestai a controllare la cartella della bambina prescrivendo tutti i vari esami che le avrei fatto eseguire dai miei specializzandi.
“Allora Jenny, adesso vedi questi signori qui?” La bambina fece sì con la testa senza riuscire a parlare, io proseguii, rivolgendomi più a lei che a sua madre: “Adesso ti prenderanno un po’ di sangue e ti faranno qualche piccolo test, così appena mi daranno i risultati verrò subito da te e ti dirò cos’è quella brutta cosa che ti fa tremare tutta, ok?”
“Ma fa male?” Mi sentii chiedere dalla bambina con una vocetta spaventata.
“Tranquilla, non sentirai nulla, e poi se farai la brava, come sei stata finora, ci sarà una sorpresa per te!”
La bambina sembrò rassicurarsi, affascinata dalla prospettiva di chissà quale regalo, ma sembrava volesse chiedermi qualcos’altro, ma forse si vergognava troppo per farlo, così la incoraggiai a parlare regalandole un altro sorriso raggiante:
“Mi piacciono tanto le tue scarpe! Le posso provare anch’io?” Fece con quella sua voce lieve.
Io le sorrisi, mentre sua madre con gli occhi mi chiedeva scusa, io le dissi: “Molto meglio, te ne troverò un paio della tua misura e te le regalerò!”
Non c’era niente di più bello da vedere, che quegli occhi marroni che brillavano dalla contentezza.
“Bene! Signora mi dispiace ma ho un intervento adesso, se ha qualche domanda si rivolga pure ai miei abili specializzandi, altrimenti verrò da voi più tardi”.
Uscii dalla stanza con ancora in mente la faccina allegra e paffutella della bambina. Adoravo i miei pazienti, i miei piccoli umani, era grazie a loro se riuscivo ancora a sorridere dopo che mio fratello era … dopo che mio fratello se ne era andato. Guardare i sorrisi che ti facevano, anche se pativano mille dolori, come lottavano contro ogni ostacolo, mi aveva fatto capire che nella vita bisogna sempre guardare al futuro, che il dolore esiste, ma per nessuna ragione al mondo ci si deve abbandonare a esso.
C’è chi pensa che i pediatri siano tutti “coccole e sorrisi”, nessuno capisce quanto la pediatria sia da duri, si vedono bambini che soffrono ogni giorno, il loro futuro è tra le tue mani, una vita intera da regalargli.
Mi piace concentrarmi sui miei piccoli umani, faccio del mio meglio per dargli ciò che hanno bisogno e molte volte lotto contro un mostro che è difficile da sconfiggere, ma quando ce la faccio, quando finalmente quell’essere immondo, non cerca più di attentare la vita dei miei pazienti, la gioia che sanno regalarti i bambini mi ripaga di ogni fatica e ogni sforzo.
Mi incamminai verso il bancone per prendere la cartella. L’immagine del mostro si riaffacciò sulla mia mente, pensare a certe cose pochi minuti prima di un intervento non è la cosa migliore. Stavo per fare un intervento che non ero d’accordo di fare, il primo giorno di lavoro, per le mie idee avevo già litigato con la Bailey e per via dei miei pattini a rotelle mi sentivo molto osservata mentre andavo per i corridoi, un gran bel primo giorno non c’è che dire.
Aprii la cartella e rileggendo gli esami già svolti e le procedure cui era stato sottoposto quel bambino, ero ancora fermamente convinta che quell’intervento fosse uno sbaglio. Se si continuava così, nel peggiore dei casi, quel bambino, rischiava di rimanere con dieci centimetri d’intestino. Questa procedura non l’avevo scelta io, ma il mio predecessore e l’ultima cosa che volevo fare era passare per una “perfettina so-tutto-io”, quindi avevo deciso di non cambiare approccio, ma fare un intervento che non si è convinti di fare, mi avevano sempre detto che era la cosa più sbagliata da fare.
Arrivai in sala operatoria e cominciai a lavarmi, mi piaceva l’odore di quel posto, la sala operatoria può far paura, ma in realtà molte volte è il posto più sicuro che esiste sulla faccia della terra.
L’acqua mi scorreva tra le mani, donandomi una sensazione di freschezza, proprio quello che serve per calmare i pensieri. Si aprì la porta all’improvviso ed entrò la Bailey, quando si accorse di me, si arrestò, ebbi come la sensazione di essere trapanata dal suo sguardo scrutatore, ma non ero disposta a tollerare oltre questo comportamento, soprattutto da una specializzanda, così mi girai e la fissai dritta negli occhi a mia volta.
S’instaurò una strana lotta di sguardi, ognuna delle due sapeva che chi avesse distolto lo sguardo per ultima avrebbe avuto la supremazia sull’altra, quasi la sfidavo a rivolgersi a me con qualcuna delle sue famose frecciatine un po’ scorbutiche, ma non lo fece, si limitò a fissarmi. A interrompere quella lotta che si era creata, ci pensò Karev che entrò nella stanza per lavarsi anche lui.
Distogliemmo lo sguardo l’una dall’altra contemporaneamente e finiti di esserci disinfettati entrammo in sala, indossammo i camici e ci appestammo al bambino che l’anestesista aveva già sedato.
Una volta aperta la pancia del bambino, mi resi conto che la situazione era proprio disastrosa, come mi ero immaginata e lo feci presente ai miei colleghi:
“Accidenti, guarda qui che disastro? Gli rimarranno forse dieci centimetri d’intestino quando avremo finito.”
Feci con il tono più sicuro che potessi avere, anche se sentii lo stesso che la mia voce tremava lievemente.
“Calma, calma, non possiamo provare con la tecnica di Bianchi per vedere se possiamo salvarne di più?” Ribatté prontamente la Bailey sempre con quel suo tono un po’ superiore. Io cominciavo a non tollerare oltre il suo comportamento, avevo sperato che la lotta di sguardi di qualche ora prima l’avesse calmata un po’, che le avesse fatto capire quale era il suo posto, ma a quanto pare non era servito a nulla e così sempre cercando di rimanere il più calma possibile le cercai di fare capire quello che lei si ostinava a non voler afferrare:
“L’intestino è morto e il fegato è cirrotico, non c’è più niente da salvare.”
“Sì, ma-”
“DOTTORESSA BAILEY, ” le dissi cominciando a spazientirmi, alzando la voce “questo bambino doveva essere messo in lista per il trapianto almeno un anno fa, è un miracolo che sia ancora vivo.”
Le mie parole finalmente ebbero l’effetto che avevo desiderato, perché la Bailey ammutolì, cominciando a fissarmi con uno sguardo spaventato.
Prima di uscire dalla sala commissionai dei prelievi per testare la funzionalità epatica di Jackson.
Lo avevo detto che era un approccio sbagliato e adesso questo bambino rischiava la vita, per colpa di un dottore incompetente.
 La rabbia che avevo cercato di domare cominciò a impossessarsi di me, uscii dalla sala buttando in malo modo il camice dentro il secchio, mi lavai alla svelta e uscii dalla sala. Da ora in avanti si sarebbe fatto di testa mia.
Andai di persona a riprendere i risultati al laboratorio, odiavo sbagliare, odiavo far soffrire un paziente inutilmente, odiavo ancora di più che il ragazzo non stava male per un errore commesso da me, ma per l’errore di qualcun altro.
Avevo bisogno di un caffè, era l’unica valvola di sfogo che avevo, quando ero stressata, arrabbiata, stanca, io bevevo caffè. Approfittando del fatto che i risultati ci avrebbero messo un po’ a essere prodotti me ne andai verso la caffetteria, erano le due del pomeriggio quindi la trovai molto affollata, presi il mio caffè e già al primo sorso, l’umore tornò un po’ più normale, mi appoggiai ad un tavolino gustandomi la mia bevanda, guardandomi un po’ attorno.
Il dottor Shepherd stava attraversando la caffetteria parlando con un dottore dai capelli rossi, poi si fermò a parlare a un tavolo, dove era seduto il dottor Sloan e un’altra ragazza che mi dava le spalle, mi soffermai su di lei a lungo.
C’era qualcosa che mi attirava, aveva il camice da specializzando, una folta chioma di capelli scuri, che mi ricordavano quelle notti buie senza luna, in cui amavo passeggiare per le strade isolate immergendomi nel silenzio che mi circondava.
Avrei quasi voluto infilare la mia mano tra quei capelli, sentirli morbidi sulle mie dita. In più notai, aveva un modo di comportarsi, strano. Come se cercasse di farsi più piccola, e di non farsi notare. Non muoveva il viso introno, come se avesse paura di incrociare lo sguardo di qualcuno, quando riuscii a guardarla in volto, notai che aveva  due bellissimi occhi, profondi e leggermente affaticati.
 Avevo lo strano impulso di alzarmi e andare ad abbracciarla, ma no, non potevo permettermelo.
 Non potevo permettermi di prendermi una cotta per una sconosciuta qualsiasi. Avevo Meg per ora, poi ce ne sarebbe stata un’altra e poi un’altra e un’altra ancora.
 Anzi prima di Meg avevo Jackson e pensando al mio piccolo umano mi alzai e mi diressi in laboratorio, imponendomi di non girarmi a guardare verso il tavolo della specializzanda.
Quando ricevetti i risultati, il quadro di Jackson si fece ancora più grave, il fegato non funzionava in pratica più, quel bambino sarebbe sopravvissuto molto poco se non gli avessimo trovato degli organi al più presto.
Tornai a reparto per aggiornare la cartella di Jackson, mentre i miei specializzandi mi osservavano e mi vedevano scuotere la testa molto contrariata. La rabbia stava cominciando a tornare.
Sentii i passi della Bailey avvicinarsi e, infatti, poco dopo parlò rivolgendosi a Karev:
“Perché scuote la testa?”
“La funzionalità epatica di Jackson.” Cominciò a risponderle Karev.
Io intervenni:
“Questo ragazzo va messo in lista per il trapianto, oggi.”
“Solo l’intestino o”chiese la specializzanda.
“No anche il fegato.” Continuai io senza lasciarla terminare, ma la Bailey, di nuovo, non era d’accordo, infatti, disse con tutta la "faccia tosta" che aveva:
“Credo che dovremmo sentire un altro parere.”
Cominciavo proprio a non sopportarla più. Presi un foglio e le scrissi il nome del mio primario alla Hopkins, di lui mi fidavo e lui si fidava di me, ma era solo una perdita di tempo, tempo prezioso per il bambino.
“Norman Mckay alla Hopkins” dissi porgendole il bigliettino “primario di chirurgia pediatrica, gli dica che è da parte di Arizona, quando le dirà che Jackson ha bisogno di un trapianto, cosa che farà dopo due minuti, mettetelo in lista.”
Avevo cercato di mantenermi tranquilla, ma un po’ della mia irritazione doveva aver cominciato a trapelare, infatti, la Bailey ribatté:
“Non ha ragione di essere sgarbata con me”.
Di tutte le cavolate che avevo sentito quella, era la più grande:
“Veramente sì, non ha fatto che mettermi in discussione da quando sono arrivata e la capisco, si fidava del dottor Kelly, io sono un’estranea con la coda di cavallo, ma non sono io il problema, è il paziente. QUINDI perché non la smette di pensare a me e non si concentra sul paziente? A Jackson serve un trapianto e se continuiamo a perdere tempo, non ce la farà.”
Detto questo me ne andai. Avevo assolutamente bisogno di un altro caffè.
La giornata proseguì, quasi normalmente, ebbi due emergenze in pronto soccorso, e cominciai la terapia a Jenny, ordinai in internet le scarpe per lei, e poi finalmente venne la sera.
Meg si presentò come aveva detto a fine turno, mi lasciò giusto il tempo di mettere a posto le mie cartelle, poi mi prese la mano e come una furia mi trascinò fuori dall’ospedale verso questo famoso bar.
“Ricordati che io questa notte son reperibile, quindi non posso fare tanto tardi e, sinceramente, avrei preferito passare la serata noi due sole, non tu io e altre mille persone al bar!” Le dissi un po’ contrariata.
Odiavo quando la gente decideva per me. Le decisioni che mi riguardavano, anche quelle più sciocche, dovevano essere mie e non manipolate da altri. Soprattutto non da qualcuno che neanche conosceva i miei gusti.
Lei continuando a camminare si mise a ridere e disse:
“Tranquilla non faremo tardi, poi vedo che sei di cattivo umore e non c’è niente di meglio che sfogarsi assaporando un po’ di cocktail di Joe!”
“Avrei preferito assaporare qualcos’altro …. anzi … qualcun’altro, per sfogarmi!” Le dissi con il  mio tono malizioso.
Lei mi guardò, poi con un largo sorriso mi disse:
“Tranquilla, per quello abbiamo le nostre amate stanze dei medici di guardia! Se sei reperibile, tanto vale andare a dormire direttamente in ospedale!”
“Perfetto, ma ti avverto, che non ho molta voglia di dormire!”
“Ancora meglio allora, perché neanche io ho molto sonno!”
La serata si faceva ancora più interessante della giornata!
Intanto eravamo entrate nel bar, che era affollatissimo. Sembrava che tutto l’ospedale si fosse riversato in quel locale. Era arredato come la maggior parte di tutti i bar, un gruppo di persone giocava a freccette, molte altre erano appoggiate al bancone del bar, cercando di fare le loro ordinazioni e altre ancora erano sedute ai vari tavoli con i bicchieri in mano.
Meg mi trascinò verso un gruppo di ragazze, che scoprii poi, com’era facile da immaginare, erano tutte dottoresse e infermiere dei vari reparti dell’ospedale.
La serata proseguì fino a tardi, risi e scherzai molto. Credo che una ragazza ci provò anche con me, ma Meg mi controllava così stretta che avevo poche possibilità.
Alla fine quando ormai erano le due di notte passate, decidemmo di tornare in ospedale, le misi la mano in una spalla e la tirai via, ma eccola lì.
Nel momento in cui mi girai per andare verso la porta, vidi la specializzanda della caffetteria.
Era seduta al bancone, intenta a fissare Joe, accanto a lei, il dottor Sloan si era appena alzato per raggiungere un’altra ragazza, con la quale andò via insieme. Vidi la specializzanda voltarsi verso una ragazza bionda, ma subito distolse lo sguardo, come se fosse spaventata e tornò a fissare Joe. Sarei voluta andare verso di lei e darle qualcosa di meglio che un barista da fissare, ma Meg ormai premeva per andarsene.
Quanto a me, cercai di ripetermi che della specializzanda non doveva importarmi nulla, ma andare via da quel locale senza averle detto anche solo un ciao, fu la cosa più difficile della mia vita, come se una forza magnetica mi attraesse verso di lei. Una forza misteriosa, ancora più potente della gravità.
Ma con un ultimo sguardo alle mie spalle uscii dal locale, in fondo avevo tutto il tempo del mondo.
 
 
Ecco il secondo capitolo. Vorrei ringraziare chi ha letto la storia e soprattutto chi ha recensito. Grazie a Elizabeth che è stata così disponibile. Spero che questa parte vi piaccia più della prima, sto cercando di migliorarmi. Fatemi sapere cosa ne pensate. Grazie mille.
  
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