Anime & Manga > Sailor Moon
Segui la storia  |       
Autore: LaLadyNera    26/08/2012    2 recensioni
Falce di luna.
Rossa.
Bassa all’orizzonte.
Entro Mezzanotte sarebbe scomparsa, ma non era un problema, tanto non l’avrebbe comunque vista, nel fitto del bosco.
Il villaggio dormiva.
Passò di proposito davanti all’abitazione di Motoki: luci spente. Probabilmente aveva pensato che non l’avrebbe fatto veramente.
Raggiunse con passo svelto i limiti del bosco. Non si guardò nemmeno alle spalle; fischiettando imboccò il primo sentiero che si trovò davanti.
Peccato, non si apprezzano mai sul serio le cose se non l’ultima volta che le si vedono.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Disclaimer e informazioni generali:


Contrariamente al titolo, che può apparire buffo e simpatico, questa storia affonda le radici in una delle più “orrorifiche” e antiche leggende della mia terra, la Maremma toscana. 
Leggende di fantasmi e pirati, di principesse e di… gallinelle dalle uova d’oro! 
E proprio da quest’ultima (da non confondere con l’opera di Esopo) ho tratto ispirazione per il mio racconto, cambiando ciò che c’era da cambiare per giocare un po’ con le parole e le coincidenze.
Ammetto che originariamente era stato pensato per essere una oneshot, ma riflettendoci bene ho poi optato per dividerlo in tre parti (spero!) sia per tenere viva la suspance, sia per non rischiare di correre troppo e fare un lavoro approssimativo.  
Sappiate, dunque, che la trama di base non è farina del mio sacco, che i personaggi appartengono a Naoko Takeuchi, e che non ho alcuno scopo di lucro nello scrivere appoggiandomi al mondo di Sailor Moon. 
Però, insomma, qualcosa di mio ce l’ho messo, e quindi spero che vi piaccia. Se vi va lasciatemi una recensione, ne sarei felicissima.
Ci terrei a dedicare questo mio lavoretto alle persone che mi hanno sostenuto sin da quando mi firmavo “Franceschita”, e che so di avere in qualche modo “deluso” con la mia scomparsa dal fandom di Sailor Moon… una cosa che non mi sarei mai aspettata e che, in qualche modo, ho comunque gradito.
Un grazie particolare va alle ragazze che in questi due anni di “crisi dello scrittore” mi hanno contattata per farmi forza e per esprimere il loro gradimento per quel poco che facevo; e un super grazie, infine, al mio ragazzo, che mi sostiene tutti i giorni, anche e soprattutto nei momenti bui.
Ho chiacchierato anche troppo, grazie per la vostra attenzione.
Buona lettura e tanti saluti.


Francesca, aka LaLadyNera.




Legenda:


Città di Nikko: è meta turistica molto amata perché fra le più antiche e ben conservate del Giappone, patrimonio dell'UNESCO. Si trova a circa 140 km a nord rispetto a Tokyo
Città di Edo: è il nome antico della città di Tokyo
Tatami: tradizionale pavimentazione giapponese composta da paglia di riso pressata e disposta in rettangoli ad incastro
Mononofu: è il termine arcaico che veniva utilizzato per indicare i samurai
Miko: sono le sacerdotesse che abitano i templi shintoisti fin dagli inizi
Hadajuban: è una sottospecie di canotta dal tessuto molto sottile e traspirante, usata spesso col kimono
Amaterasu: è l'antica dea, o dio, del sole shintoista. Non si hanno riferimenti precisi riguardo al sesso, ma si riteneva che fosse antenato diretto della famiglia imperiale giapponese
Katana: è la spada giapponese per antonomasia



LA CONIGLIETTA D’ORO




“La paura del pericolo è mille volte più terrificante del pericolo stesso.”
Daniel Defoe.



PARTE PRIMA



Il villaggio di Nikko, a cinque giorni di cammino dalla più vasta città di Edo, era circondato da meravigliosi boschi di latifoglie, da torrenti impetuosi, da cascate scroscianti e da specchi d’acqua placidi.
D’autunno le sue ciglia selvagge si coloravano di sfumature infinite, graduali, minime, che nonostante la loro quasi totale impercettibilità venivano sospirate e festeggiate dai contadini e dai cacciatori, come dai signori e dai soldati.
Non che l’autunno fosse una stagione gradevole, tutt’altro: le ore di sole erano scarse e pallide, le piogge abbondanti, i venti soffiavano da nord e la neve presto e all’improvviso avrebbe addormentato tutto sotto il suo manto candido e gelato.
Ma il rosso, il rosso delle foglie e l’ocra intenso valevano la pena di dormire un po’. 
Tanto ci avrebbe pensato il ciliegio, con i suoi fiori minuti e mielosi, a riportare il sorriso e il torpore sotto a un acero.
L’autunno, e il bosco, meritavano malinconia e occhi assenti.
I rami e le chiome stanche raccoglievano canti, poesie d’amore recitate come se il cuore stesse esplodendo di dolore e nostalgia.
Arrosti e vino. Balli e musica.
Ma c’era un giorno, un solo giorno, l’ultimo del decimo mese dell’anno, in cui era preferibile tenersi alla larga dal bosco e astenersi dalla voglia di ridere e saltellare abbracciati fra le radici nodose. 
Per non cadere in tentazione, per non perdersi.
Non che dopo non si tornasse. Si tornava eccome. 
Ma se proprio era inevitabile perdersi, allora sarebbe stato meglio non tornare mai.


Il pannello di carta di riso scorse sul pavimento in tatami senza alcuno sforzo.
-La cena non è ancora pronta, fratello. Ti chiamerò io.
Una donna dalla bellezza marcata, una quasi donna, con un qualcosa di ragazzina, ancora. 
Rei.
Una quasi sacerdotessa, amante dei corvi e del fuoco.
Le ciocche dei suoi capelli lucenti e neri erano perfettamente lisce, abbandonate sulla schiena con misurato ordine.
Teneva gli occhi sulle ciotole e sui coltelli, li faceva viaggiare fra uno e l’altro con velocità e attenzione.
-Vado a caccia.
Iridi violacee incontrarono iridi blu.
Scurissimo. Mare in tempesta.
-Non stasera Mamoru, e lo sai.
La voce era dura, molto diversa da quella che aveva usato in precedenza. Aveva cura di usarlo solo con lui, il suo tono dolce. Ma anche quello severo le apparteneva.
-Non iniziare. Io vado.
Gli si piazzò davanti, nascondendogli la porta con il corpo e le braccia aperte.
-Nostro padre… vuoi finire come lui? Vuoi far finire me come nostra madre?
Si riteneva un uomo di poche parole e di pochi debiti, non incline all’ubbidienza e alle intromissioni. 
-Nessuno ti ha chiesto di rimanere. Non ho bisogno di essere badato come un bambino. 
Rei abbassò le braccia per incrociarle al petto, sotto al seno nascosto da una lunga tunica bianca, la metà inferiore cremisi.
-Ti credi grande e grosso, ma al mondo ci sono cose superiori a te. Il fatto che tu sappia maneggiare una katana non ti salverà.
Era un mononofu con la passione per i lupi e per i cervi: i primi li ammirava, i secondi li uccideva.
Non ne aveva mai assaggiato un pezzo, li donava a chi piaceva fare festa sotto gli alberi, in autunno. 
Non sapeva perché, ma in primavera, sotto ai ciliegi, nessuno voleva mai mangiarli.
-La superstizione appartiene agli sciocchi, sorella… e io non sono uno sciocco.
Lei sbuffo. –No, hai ragione: sei qualcosa di più, di uno sciocco. Sei irrispettoso e arrogante, e queste sono colpe. Essere privi di ragione è una disgrazia.-
Lui era alto e proporzionato, con le spalle larghe e i muscoli sviluppati cosicché fossero un dono, non uno svantaggio. I capelli corvini, cortissimi ai lati della testa, più lunghi e folti al centro e sulla fronte.
I lineamenti decisi e fermi.
Del lupo pareva avere l’essenza.
Lei gli somigliava, ma più per una questione d’imitazione, che di natura.
-Non dovresti mancarmi di rispetto in questo modo. Sono il maggiore, e il capo di questa casa. Non dovrei nemmeno farti parlare. E ora, fammi passare.
Provò a cambiare tattica.
-Ti voglio bene, Mamo-chan. Se non vuoi farlo per i nostri genitori, fallo per me. Aspetta domani, non cambia niente per te.
Le braccia le erano ricadute lungo il corpo e la voce era sottile.
-E’ una scommessa, Rei. Non voglio perdere.
La rabbia tornò a infiammarle lo stomaco.
-Motoki… Lo sa che giorno è oggi, vero? C’è solo un animale che avrà la tua attenzione stanotte!
La fece spostare di un poco poggiandole una mano sulla spalla, applicando poca forza. Incontrò resistenza, e allora spinse di più.
Lei non incespicò nemmeno, tornò solamente a guardarlo adirata.
-Lo sa benissimo che giorno è oggi: un giorno come un altro, per me, ma per gli altri no. Sono stato sfidato, non ho fatto altro che accettare. Non ci vedo nulla di male. E poi, non ho paura di una coniglia.
Le lacrime salirono senza controllo, annebbiandole la vista.
-E’ per questo che vai… nessuna caccia…
-Non mi avresti lasciato andare, se ti avessi detto la verità. E questa ne è la prova. Ho dovuto mentirti.
Alzò le spalle, mentre parlava. Era solo una perdita di tempo, per lui.
-Lei… ti troverà… e il dolore troverà di nuovo la via di questa casa…
Mamoru rise.
Aprì la porta, ma si fermò sull’uscio.
-Dormi bene sorellina. Sogni d’oro.
Fu l’ultima stilettata. 
S’inginocchio sul pavimento di paglia pressata, nascondendosi il viso fra le mani mentre lui usciva.


Falce di luna. 
Rossa. 
Bassa all’orizzonte.
Entro Mezzanotte sarebbe scomparsa, ma non era un problema, tanto non l’avrebbe comunque vista, nel fitto del bosco.
Il villaggio dormiva. 
Passò di proposito davanti all’abitazione di Motoki: luci spente. Probabilmente aveva pensato che non l’avrebbe fatto veramente.
Raggiunse con passo svelto i limiti del bosco. Non si guardò nemmeno alle spalle; fischiettando imboccò il primo sentiero che si trovò davanti.
Peccato, non si apprezzano mai sul serio le cose se non l’ultima volta che le si vedono.


Spada e arco sarebbero stati un intoppo per qualsiasi cacciatore inesperto o svogliato - senza considerare il pugnale incastrato nello stivale - nel percorrere una strada immaginaria, e non più un passaggio nella vegetazione scavato e battuto, ripulito ad ogni cambio di stagione.
Ma lui si divertiva. Si divertiva sempre, nello sfidare se stesso e gli altri.
Nei suoi vestiti ben confezionati, comodi e resistenti, era niente risalire il fianco del colle più basso, buio e nero, umido, carico di odori e rumori.
Nella notte non c’era autunno, non c’erano colori, tutto era uguale e nulla era spaventoso.
Anche se era l’ultimo giorno del decimo mese dell’anno. 
Il sudore era abbondante e caldo sulle tempie e lungo il collo, sotto al cotone marrone del suo hadajuban, ma avrebbe scalato anche la montagna più alta di quel bosco, se gli fosse stato richiesto.
Il fulcro della questione, tuttavia, non era quello.
L’altezza di una cima non gli avrebbe mai dato tanto onore quanto quello che avrebbe guadagnato all’alba del giorno che sarebbe nato di lì a poche ore.
Non ci sarebbe stato divertimento più grande, e soddisfazione più appagante, che vincere sulle leggende e le stupide credenze popolari, ridendone fino alle lacrime.
Lei era la sciocca, Rei. Ma le voleva bene.
Forse, se avesse dimostrato al villaggio intero che la storia della coniglia non era altro che una novellina buona solo per spaventare i bambini cattivi, lei avrebbe rinunciato a voler divenire una miko, scegliendo una vita di privazioni, a favore di ciò che aveva sempre sognato, come suo fratello maggiore: che diventasse una moglie, e soprattutto una madre. 
Per farlo divenire zio, per portare un po’ di gioia e luce limpida nella sua esistenza.
Sorrise, il viso a pochi centimetri dal terreno, le dita affondate nell’erba nello sforzo, leggero, di raggiungere il luogo che lo avrebbe reso immortale.


Quando la lama riuscì a strigare il fitto intreccio di arbusti e rovi ricurvi, si ritrovò col fiatone fuori dal tetto naturale che gli alberi avevano creato sulla sua testa fino a quel momento.
I graffi sul viso e le mani bruciavano pur sanguinando appena.
Poggiò i palmi sulle ginocchia, piegandosi un poco in avanti e strizzando gli occhi, respirando avidamente aria che sapeva sorprendentemente di temporale.
Solo dopo aver deglutito più volte, decise di guardarsi attorno.
Il volto imperlato dal sudore si distese in un sorriso.
La cima.
Lo capì soprattutto dalle rovine del tempio di Amaterasu, poche decine di metri distante.
Ce l’aveva fatta, ma fu costretto ad ammettere alle segrete del suo orgoglio di ritrovarsi sorprendentemente stanco.
Non importa, ho tutto il tempo che voglio per riposarmi…
Il cielo sopra di lui tuonò, secco, gettando la sua ombra a percuotere la terra.
Da lontano sentì le prime gocce infrangersi sulle foglie e fra i cespugli, sprigionando sentori che gli ricordavano le estati della sua adolescenza passate sulla costa ovest ad allenarsi come soldato.
Quando anche la polvere ai suoi piedi iniziò a bagnarsi, divenendo di un colore più intenso, volse il viso alle nuvole pesanti, lasciando che l’acqua lavasse via il sangue e la terra. Aprì la bocca e bevve.
La radura respirava insieme a lui.
Lasciando che la pioggia appiccicasse i suoi capelli alla fronte, si avviò a passo lento verso il tempio, abbandonato a se stesso e alle intemperie.
Era molto antico, da secoli disabitato, ma le mura rimaste in piedi creavano un profilo che faceva intuire che quel luogo sacro doveva essere stato maestoso e importante, con torri e finestrelle lunghe e strette, e un portone in quercia e ferro battuto. Come voleva la tradizione, come diceva la leggenda.
Quel che rimaneva della casa del dio Sole non era che un quadrilatero di mura in roccia ancora piuttosto alte, franato un po’ su un lato, e l’accenno di un pinnacolo interrotto nemmeno a metà dalla parte opposta di una torre rimasta invece quasi del tutto intatta.
Durante l’anno non era proibito avventurarsi fino a lì, e alla fine dei conti non lo era nemmeno quella notte; ma se si osava anche solo pensarlo, le donne irrompevano in pianti disperati, in lamenti, e gli uomini ti portavano in un angolo appartato, posandoti mani legnose sulle spalle, per raccontare la fine degli sciocchi che in passato avevano tentato quella follia. 
Semplicemente era contro il buon senso, ed era meglio non parlarne.
Lui c’era già stato, fra quelle pareti diroccate e umide, ricoperte da edera. 
Con suo padre. Da ragazzo. 
Sembravano passate decine di anni.
Togliendosi i capelli dagli occhi entrò nel buio delle rovine.


La fortuna doveva essergli favorevole.
Nell’unico angolo appartato, quello più ad est, aveva trovato un piccolo cumulo di legna asciutta. Sembrava essere lì solo e appositamente per lui.
Lo fece prendere fuoco con facilità, e seduto vicino alle fiamme, si fissò sulla danza ipnotica del rosso e del giallo. Sinuosa e imprevedibile.
Ombre lunghe e tremanti si stagliavano davanti e attorno a lui, ma pareva non vederle.
Era concentrato su niente, eppure la sua espressione tradiva una certa serietà, come se stesse riflettendo su qualcosa di vitale importanza ed estrema gravità.
Si accorse trasalendo che la notte aveva smesso di piangere all’improvviso.
Tutto sembrava illuminato da una luce tenue e pallida, ma comunque splendente. Cercò la luna, ma le nuvole scure, in movimento veloce, suggerivano che già doveva essere morta dietro all’orizzonte.
In più l’aveva visto uno spicchio di luna, solo poche ore prima, ed era rosso… come il sangue…
Confuso tornò alle fiamme.
Il fuoco era diventato bianco come il latte, e lui non aveva mai visto niente di simile.
In piedi, i sassolini scricchiolavano sotto ai tacchi dei suoi stivali e la spada nel suo pugno brillava di quel candore inspiegabile.
-Maledizione…
Il cuore gli batteva forte nel petto, il sangue correva rapido nelle orecchie. I muscoli delle gambe gli facevano male, scossi dall’adrenalina, così come quelli delle braccia.
Non è possibile, sta calmo. E’ solo una leggenda, una stupida leggenda. Ricordati chi sei!
Decise di non tentare nulla. Alla fine il suo scopo era solo quello di sopravvivere.
Si strinse nel mantello, unendo le mani all’impugnatura della sua arma.
La pace di quel luogo era sinistra, inquietante, come se il Male scivolasse sibilando fra i fili d’erba, avvicinandoglisi silenzioso. Avrebbe preferito trovarsi in qualsiasi altro posto del mondo, e non sapeva perché: avevo solo smesso di piovere.
Ti stai suggestionando da solo, Mamoru, non fare il codardo… Non sei più un bambino…
L’idea che potesse essere tutto vero non gli parve più cosi impossibile, ma era una voce irrazionale, la voce del cuore, e quella voce era portatrice di illusioni e menzogne. Ogni uomo d’onore lo sapeva.
Cercò di ingoiare, ma non aveva saliva.
Solo sangue, selvaggio, nelle vene, negli organi impazziti, nel cervello stordito dalla paura.
La luce si faceva più intensa, sempre più bianca, e aveva la sua fonte fuori dalle mura, da dove era venuto, come una fiaccola che si fa strada nell’oscurità, facendosi lentamente ma costantemente più vicina.
La katana gli cadde dalle mani, e non poté non trasalire.
Era lei
La coniglia. Anzi, coniglietta, da quanto pareva tenera e docile e soffice.
D’oro.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Sailor Moon / Vai alla pagina dell'autore: LaLadyNera