19
Era mezzogiorno passato quando Haruka si decise ad
alzarsi dal letto. A passi da zombie si diresse nel bagno e quel che vide nello
specchio la convinse che aveva bisogno di restaurare tutta la facciata prima di
rimettere piede in mezzo alla gente. In effetti aveva un paio di occhiaie belle
livide, dalle quali gli occhi le sporgevano come quelli di un
calamaro.
“Conciata così al massimo posso cospargermi di succo
di limone e fare il pezzo più saporito della frittura di paranza!” Considerò prima di dare un’occhiata al
resto,é a quanto pareva la
notte insonne aveva prodotto altri effetti collaterali. E restando nella
metafora mangereccia si poteva affermare senza fallo che i suoi capelli, che dalla testa le partivano sparati in
tutte le direzioni, molto ricordavano il ciuffo dell’ananas. Il colorito poi più che eburneo richiamava piuttosto
molto da vicino quello del tofu appena condensato.
“Adesso prima mi faccio una bella doccia fredda,
seguita da un ricco caffè, magari via endovena, dopodiché una visita dal
barbiere e il gran finale con
l’acquisto di un abito da sera consono. Speriamo solo che non mi tirino fuori
uno di quei completi che si vedono sulle bamboline che mettono sopra le torte
nuziali.”
Sperò inarcando dubbiosa un sopracciglio. Non amava
molto il classico e aveva sempre sospettato che tra l’eleganza ed il pacchiano
ci fosse un filo molto esiguo. Ergo non avrebbe voluto trovarsi dalla parte di
quest’ultimo. Comunque non c’era che dire, nonostante tutto si era svegliata di
buonumore e questo non fece che migliorare quando le telefonò Hitomi
comunicandole l’esito del suo invio floreale.
“E’ andata Haruka, Shanaya Yamamay graziosamente
accetta il tuo invito. Nel biglietto le ho scritto che la raggiungerai a bordo
alle otto, ce la fai ad essere lì verso le sette?”
“Alle sette? Scusa e che ci devo fare lì un’ora prima
del previsto?” Chiese mentre tentava di domare a colpi di spazzola le ciocche
sovversive, al momento sembrava ci fosse in atto un golpe tra il ciuffo e il
resto dei capelli.
“Stamani ho ordinato per te presso la maison di
Armani vestiario ed accessori, li troverai ad aspettarti in cabina poiché ne ho
prenotata una a tuo nome. Ti cambierai una volta là, tanto non mi sarei
aspettata comunque che da casa tua al porto saresti arrivata impeccabile,
giacché presumo ci andrai in moto.”
“Non avendo altro mezzo di locomozione... ad ogni
modo, prima che facessi tutto tu, avevo pensato di prendere un taxi. Però
riflettendoci la tua soluzione mi pare più appropriata. Grazie Hitomi, se
l’unica stella del mio cielo!”
“Adesso
non metterti a fare la ruffiana, se l’ho fatto è solo per salvaguardare anche il
mio culo! Ché conoscendoti saresti
stata capace di presentarti ad una serata simile con un paio di jeans strappati
e una giacca di pelle! E non è della figuraccia che avresti fatto che mi
preoccupavo, piuttosto della reazione della signorina Yamamay. Ricordati chi è e
vedi di non fare passi falsi.”
“Sai cosa Hitomi? Ci avevi mai riflettuto che il
nostro capo ha lo stesso cognome di una famosa catena di negozi che vendono
intimo? Secondo te sarebbe appropriato se mi rivolgessi alla mia ospite
chiamandola Signorina Mutanda? In fondo l’assonanza c’è.”
“Non t’azzardare!”
“Su, non farti venire la tachicardia, scherzavo. Ma
ora dimmi, a quale banchina devo dirigermi e soprattutto, come riconosco Perizoma-san?”
“Haruka! Piantala, che se ti scappa un lapsus simile
davanti a lei potremmo finire a spasso tutte e due.”
“Probabilmente a vendere mutande, sarebbe un
contrappasso ideale.”
Haruka ridacchiò al sibilo inorridito di Hitomi,
avrebbe dovuto piantarla sul serio, quest’ultima aveva ragione ad avvertirla, se
una perla del genere le fosse uscita innanzi a quella ragazza, molto
probabilmente avrebbe chiuso anzitempo la propria carriera. Pure non riusciva a
smetterla di fare la spiritosa, era incredibile quanto fosse allegra, sembrava
che finalmente si fosse tolta un peso e le pareva di fluttuare
stamattina.
“Ha detto che ti verrà incontro, quindi non c’è
problema. Lei conosce perfettamente la tua faccia, quel che mi preoccupa è che vorrebbe
aggiornarsi anche sul resto.”
“Non ti angustiare vecchia mia, dimentichi forse
il sesto senso, modello virgin allarm, che ho
sviluppato in Spagna? Come la pollastra s’attizza, me la squaglio. Ti assicuro
che al primo cambiamento di temperatura della concupiscente, sarò già lontana.
Non voglio mica rischiare altri palpeggi in fuori gioco. Mi rendo conto
però che il tuo pessimismo è giustificato, del resto la notte del 24 qualsiasi
ragazza sana di mente vorrebbe da me un bel pacco regalo!”
“Haruka trattieni la tua naturale cretineria e per un
attimo rifletti. Il problema sta proprio qui, se quella s’accorge che sei
tutta dinamite e niente miccia, il che sta a significare che una volta
scartato il tuo involucro non troverà una mazza, saranno guai. Fa la
brava, altrimenti potrai dire addio ai tuoi sogni di gloria. Per cui vedi di
fare la galante, ma mantieniti a distanza di sicurezza e soprattutto fai quel
che devi fare in fretta e poi vattene subito, perché per te quella barca è più
pericolosa del Titanic!”
“Okay, vorrà dire che, onde evitare qualsisi rischio
iceberg, mi farò servire persino i
drink senza ghiaccio. A scopo cautelativo!”
“Oggi sei troppo gioconda per i miei gusti, posso
solo sperare che la prospettiva di finire in mezzo ad una strada sia un
deterrente efficace per te.”
“Più efficace di quella possibile cozza? Credi a me
Hitomi, andrà tutto bene. Mi recherò al party, incontrerò chi devo e poi
riaccompagnerò quel mitilo alla scogliera dalla quale proviene. Facile
no?”
“Come dici tu.” Assentì docile la donna mentre tra sé
e sé rideva maliziosamente. Haruka non aveva proprio idea di quel al quale stava
andando incontro. Quasi certamente l’indomani si sarebbe mangiata le mani,
altroché! Shanaya era un tocco di ragazza e chissà se le sue ammonizioni
avrebbero retto innanzi a tanta avvenenza. “Allora ti saluto, divertiti stasera
e mi raccomando, occhio a quel che fai.”
“Tranquilla è tutto sotto controllo.” La rassicurò,
dopodiché infilò il soprabito e si
accinse a recarsi dal coiffeur per darsi una sistemata. Era così ottimista che
mentre l’ascensore la portava al pianoterra si mise addirittura a canticchiare a
tema.
Bravo, bravissimo,
bravoooo! Là, là, là, làààààààà!
Tutte mi cercano! Tutte mi vogliono! Sono il factotum della città ah ... Sono il
factotum della città, de la città... della città ...
lààààààààà!!!
Eseguì il finale mentre le porte si aprivano e ,
davanti al portiere di turno che la guardava allibito, fece un mezzo inchino
insolente. Dopodiché ridendo euforica uscì all’aria aperta, nonostante il cielo
plumbeo sentiva che quella sarebbe stata una fantastica
giornata!
Dall’altra parte della metropoli, precisamente in una
villa a strapiombo sul mare, all’interno del proprio budoir, un’altra ragazza
pensava alla festa che s’approssimava e il suo umore era tutt’altro che
radioso.
Michiru si scrutò nello specchio e sospirò triste.
Non che fosse particolarmente infelice quel giorno, benché in un occasione
simile fosse costretta a trascorrere una notte magica come quella della vigilia
in mezzo a degli estranei. Piuttosto, se quell’ingaggio non le fosse parso
doveroso e la sua coscienza non l’avesse spinta ad accettarlo, avrebbe preferito
essere da sola giacché Sachiko latitava nel cuore dell’Europa e lei non aveva
nessuna intenzione di trascorrere le feste con suo padre e la sua concubina.
Pure avrebbe suonato, quantunque si chiedesse dove avrebbe trovato l’ispirazione
e lo stimolo per farlo.
E sospirando nuovamente si voltò, avendo notato nello
specchio l’ingresso del nuovo residente a casa Kaiou.
“Ligea vieni qui.” La chiamò chiedendosi se stavolta,
dopo due giorni d’inviti di quel tipo, questa le avrebbe fatto la grazia di
acconsentire ad una sua richiesta. E ancora una volta fece un buco nell’acqua,
Ligea come sempre l’ignorò, proseguendo come se non avesse affatto parlato e a
passi felpati si diresse verso il suo letto dove s’accomodò senza tanti
complimenti. Poi, quasi volesse altresì irriderla, voltò il capo verso di lei e
fissandola imperscrutabile le sbadigliò in faccia.
Quella gatta, rifletté ancora una volta, le ricordava
molto qualcuno e non solo per le medesime iridi verdi o per il suo manto
chiaro. E così come per l’altra, anche l’arrivo della felina era stato
imprevedibile, essendo questa la conseguenza dell’inusuale strenna natalizia di
suo padre, benché quest’anno non si sarebbe aspettata di averne. Eppure l’altro
giorno si era presentato a lei con intenti riconciliatori, porgendole un cestino
dal quale proveniva un gran baccano. E quando successivamente l’uomo aveva
afferrato che sua figlia non era intenzionata ad intendere ragioni, non senza
strepitare, s’era rassegnato. Ma lui se n’era andato e la micia era
rimasta.
Era una semplice gattina di pochi mesi, pure la
convivenza si era rivelata difficile sin dal primo momento, poiché Ligea non
aveva nessuna intenzione di venire a patti con lei, esattamente come colei la
quale spesso veniva equiparata. E a rimarcare ancora di più quell’assonanza
c’era il fatto che ormai era diventata la gatta la padrona della situazione. Due
giorni soltanto, ma erano stati sufficienti a Michiru per comprendere che non
aveva alcun trasporto nei suoi riguardi e che faceva quel che le pareva,
nonostante la cosa non andasse a genio a lei, che sarebbe dovuta essere quella
che comandava. Piuttosto sembrava addirittura che lo facesse apposta per
irritarla. Non le riconosceva nessuna autorità, combinava ogni sorta di sgarbi e
se faceva tanto di accarezzarla, qualora avesse la residua illusione che con un
po’ di dolcezza l’avrebbe resa meno riluttante, per tutta risposta l’amabile
animaletto le si rivoltava contro infuriata sfoderando le unghie.
Più che il nome della sirena mitologica, pensò amara,
avrebbe dovuto darle quello di Haruka. Giacché, proprio come quest’ultima si
comportava. E se suo padre gliel’aveva regalata attendendosi che le facesse
compagnia, aveva fatto fiasco su tutta la linea. Ligea non le si metteva neppure
in grembo, figuriamoci venirle incontro o far le fusa per lei. In compenso un
paio di volte l’aveva gratificata con una sorta di vicinanza magnanima che però
si era limitata allo starsene sulla poltrona di fronte alla sua. Sì, il nome Haruka le sarebbe stato a
pennello, decisamente.
Adesso dormiva e come al solito si era acciambellata
sul suo letto, dove non avrebbe dovuto essere.
Michiru abbozzò un sorriso triste e lasciò perdere la
gatta per concentrarsi cu altre incombenze. Svagata prese ad osservare le varie
mise che la cameriera aveva tirato fuori dall’armadio e collocato lì
intorno perché scegliesse cosa indossare per l’evento serale. Depressa fissò le
varie combinazioni di colori e modelli senza che queste risvegliassero in lei la
minima reazione, come se fossero anonimi abiti e non le costose vesti di
sartoria che erano. Normalmente le piaceva mettersi in ghingheri e presentarsi
adeguatamente al suo pubblico. Se non fosse stata così inane avrebbe speso ore a
provare e riprovare le varie
toilette finché non fosse stata
soddisfatta del risultato. Oggi, come ieri, come il giorno prima ancora e
quell’altro che l’aveva preceduto, tutto le sembrava opaco, senza vita.
Abito lungo? Decolleté quadrato? Capelli legati o
sciolti? Quanta futilità. Ché per quel che concerneva la vivacità rasente il
suolo che l’animava, avrebbe potuto tranquillamente infilarsi dentro un sacco di
patate e non avrebbe fatto differenza. E proprio qui stava la questione,
ultimamente pareva che niente fosse in grado di scuoterla dall’apatia che la
stava sommergendo. Dopo inutili tentativi di creazione aveva riposto
momentaneamente i pennelli nella loro scatola e davvero non sapeva dove e quando
li avrebbe riesumati. Quanto al violino, non eseguiva da tempo immemore melodie
allegre. Appena prendeva l’archetto in mano ne scaturivano inevitabilmente suoni
melanconici che diventavano progressivamente interminabili nenie colme di
sconforto. Motivi che eseguiva a scopo evocativo, poiché credeva, fortemente
voleva credere, che quelle note potessero superare la distanza e richiamare a sé
la persona cui le dedicava. Ma fino a quel momento aveva fallito e l’unica
attività che sembrava darle sollievo era quella di passare ore ed ore a nuotare
in piscina.
Perciò trascorreva le sue interminabili giornate a
galleggiare sull’acqua di quello spazio coperto e circondato da vetrate che le
consentivano la vista del panorama marino. Se fosse stato meno freddo avrebbe
cercato l’abbraccio del mare, ma proprio perché la glacialità delle onde le
avrebbe ricordato la medesima di colei la quale era causa di quell’umore tetro,
preferiva restare nel grembo caldo della grande vasca.
Purtroppo oggi non aveva affatto tempo da spendere in
quel metaforico ventre materno
poiché, nonostante sarebbe stata una delle ultime ad esibirsi, segno di
quanto fosse tenuta da conto dall’organizzazione, avrebbe comunque dovuto essere
tra le prime a salire sull’imbarcazione. Una volta a bordo si sarebbe truccata,
avrebbe indossato la sua coda di pavone e avrebbe fatto la ruota che
implicitamente esigevano da lei durante il party antecedente al concerto. Certo
gli chaperon non le sarebbero mancati, né sarebbe stata incapace di sostenere le
conversazioni brillanti che in genere aveva in queste occasioni, solo si sentiva
cadere le braccia. Ma doveva farlo,
se non altro perché le donazioni sarebbero state fatte tramite una sorta di asta
benefica. Ogni artista avrebbe ceduto la propria esibizione al miglior offerente
e se davvero voleva aiutare coloro che abbisognavano di generosità, doveva
essere briosa, effervescente, persino davanti a quegli individui tronfi. Dopo
sarebbe pure potuta ripiombare nei suoi stati torpidi, ma stasera doveva dare
l’impressione di non essersi mai divertita tanto prima d’allora.
E a questo scopo una buona volta, finalmente decise
quale vestito indossare, indicandolo con un gesto alla domestica che subito lo
ripose nella sua scatola per non farlo gualcire. Dopodiché aggiunse le scarpe e
i monili con i quali si sarebbe adornata. E qui ci fu un momento d’interdizione
da parte sua giacché per quella sera non avrebbe potuto portare la collana che
ultimamente aveva sempre al collo. Era un ciondolo che nel suo interno cavo
ospitava quell’unico capello biondo che era segno tangibile del passaggio di
Haruka nella sua vita. Era diventato una specie di talismano per lei e
separarsene, seppur per una sera, le appariva come se le avesse voltato le
spalle.
“E proprio la notte di Natale.” Pensò rattristata.
Perché non riusciva a darsi pace? Forse se avessero avuto un epilogo, persino se
fosse stata una conclusione negativa, avrebbe potuto lasciarsela alle spalle. Ma
così no.
Soprattutto dopo quell’incubo che aveva avuto notti
prima. Aveva sognato infatti che Haruka se n’era andata perché ,vittima di un
male incurabile, preferiva attendere la fine lontano dalle occhiate
compassionevoli degli altri. Il che, considerato quanto potessero essere labili
le visioni oniriche, era perfettamente in linea col personaggio. Ma la coerenza
del suo inconscio non le aveva impedito di svegliarsi con un grido strozzato e
di tirarsi le ginocchia al petto.
Abbracciandole senza riuscire a trattenere le lacrime, dolorosamente si chiese
se davvero, nel caso in cui fosse stato questo il motivo scatenante, avrebbe
preferito sapere o no. La sua ignoranza in tal senso era protettiva, finché
restava nel territorio dell’incerto infatti tali terrificanti pensieri non avevano
conferma. Il che non era affatto darsi una risposta. Ad ogni buon conto, da quel
momento in poi, aveva avuto cura di includerla sempre nelle sue preghiere e
sperava ardentemente, insieme al suo ritorno, che stesse bene. Nient’altro, né
gloria, né amore o il minimo accenno a
sé.
Per cui proprio non riusciva a disgiungersi da quel
pendente, quindi si risolse a tenerlo al collo fin quando avrebbe potuto,
dopodiché se lo sarebbe legato al polso, continuando a sentirne il contatto
sulla pelle. Haruka doveva essere con lei quella sera, nonostante tutto.
Fece cenno che portassero da basso quegli scatoloni e
si preparò ad uscire, non prima però di fare l’ennesimo
tentativo.
“Io vado Ligea.” Annunciò alla gatta, la quale si
limitò a muovere impercettibilmente l’orecchio e socchiudere un occhio, come a
voler dire che ne prendeva atto, ma che non gliene poteva fregare di meno.
Michiru, nonostante tutto riuscì a sorriderne, era innegabile, un pezzetto
dell’essenza di Haruka sicuramente era
trasmigrato in quell’animale!
La lasciò sul letto, sperando che non le riducesse a
brandelli le lenzuola con le unghie e da ultimo prese la custodia che conteneva
il violino. Era ancora indecisa sul brano da suonare quella sera. Debussy?
Chopin? O Vivaldi? Le sembravano tutti troppo smaccatamente leggeri per il peso
che portava dentro. La delicatezza di quegli autori poco si adattava alla forza
con la quale avrebbe voluto tenere avvinto il ricordo. Incerta salì sull’auto
che l’attendeva e mentre si dirigeva verso il porto si rilassò sui comodi sedili
chiudendo gli occhi. A questo punto una folla d’immagini le invase la testa.
Haruka assisa sulla bike che stillava sudore intanto che le sue gambe
instancabili parevano non avvertire la fatica; Haruka che pensava a chissà cosa
mentre un ghigno divertito le stirava i lineamenti ; Haruka incurante del
professore e della lezione che stava tenendo alle prese con gli sguardi che
tentavano d’intercettare il suo; Haruka che correva nel parco saettando accanto
a quante passeggiavano, senza fermarsi mai con nessuna; Haruka che con parole
sprezzanti fustigava l’ambiente che la circondava; Haruka che senza una parola
si disperdeva nel nulla, senza voltarsi indietro.
E questo era una parte che aveva vissuto di lei, poi
vennero le rappresentazioni di quanto poteva solo immaginare.
La vide bambina insieme a sua madre in una stanza
spoglia, ma al contempo caotica, dove ovunque stazionavano orpelli che
testimoniavano la natura errabonda delle due. Fregatene, le pareva
d’udire che le ingiungesse la donna, è quel che sei la cosa che davvero
conta, il resto è superfluo.
Poi la immaginò abbandonata in un angolo di una casa
borghese, volontariamente lontana dalla sua famiglia adottiva. Si figurò il
volto infantile ma già fermo, più che determinato a mantenere le distanze da
quella gente che non sentiva comune a lei. Delineò quegli occhi verdi, più
grandi allora di quelli che aveva conosciuti, assottigliarsi e diventare via,
via sempre più duri mentre passava da un posto all’altro, da una famiglia
all’altra. La vide infine quasi simile all’attuale, monolitica e definitivamente
introversa, nell’atto di fare la conoscenza dei gioviali e provvidenziali Meiou.
Ma a quel punto le ferite non potevano più rimarginarsi, ormai erano diventate
cicatrici e se le sarebbe portate per sempre addosso.
Michiru riaprì gli occhi, la consapevolezza era
calata su di lei, adesso sapeva cosa avrebbe suonato. Invero, quale brano più de
Il volo del calabrone avrebbe potuto rappresentare l’eterno errare, la
forza instancabile, le tremende giravolte che Haruka aveva compiuto da un
continente all’altro? Nessuno altro probabilmente, quindi la decisione era
presa. Avrebbe vibrato sulle corde del violino quel pezzo infernale,
difficilissimo, ma di ode a quella che nelle difficoltà era arrivata fino a lei.
Sarebbe stata la sua serenata, il suo personale omaggio a quella creatura,
perché non si sentisse sola, ovunque fosse, in quella notte d’immensa
lontananza.
E sulla passerella che dalla terraferma la portava
alla nave Michiru fu stimolata dal vigoroso grecale che proveniva dal mare,
soffiava imperioso e pareva essere scaturito dal nulla. Alzava le onde creando
una leggera spuma e allo stesso tempo giocò a lungo con i suoi capelli e con le
falde del cappotto. Era gelato, ma nonostante ciò, quando se ne sentì avvolgere,
per la prima volta dopo tempo sentì rinascere la speranza.
Il vento è tornato e il mare sta cambiando. Pensò
portando la mano al seno e stringendo istintivamente il medaglione. Si era al
crepuscolo e il sole luccicò con un debole barbaglio bucando momentaneamente la
cappa di nubi. Michiru si portò all’interno, era stata solo un’illusione?
Chissà, intanto avrebbe partecipato a questa stupida festa e forse non sarebbe
cambiato nulla, eppure si sentì invasa da un irragionevole senso
d’aspettativa.
Haruka controllò l’ora e silenziosamente tentò di
soffocare un’imprecazione. Accidenti a lei e a i suoi impulsi irragionevoli! Se
quando aveva finito di farsi tagliare i capelli fosse filata dritta a mangiar
qualcosa e poi al parcheggio dove aveva lasciato la moto, non avrebbe perso
tutto quel tempo. A quest’ora avrebbe dovuto già trovarsi all’imbarcadero,
invece eccola impelagata nell’ennesima situazione della quale poteva dar la
colpa solo a sé stessa. Magari avrebbe dovuto aspettare prima di buttarsi a
corpo morto in quel negozio, però davanti a quella vetrina proprio non aveva
saputo resistere. Un paio di Manolo
Blahnik erano il sogno di ogni femmina vittima della moda e quelle, doveva
ammettere, sebbene non fossero affatto nel suo stile, erano un gran bel paio di
scarpe. Tacco alto, fibbie che s’intrecciavano alla caviglia, d’un color argento
appariscente ma non volgare. In breve sarebbero state divinamente ai piedi di
Michiru e, pensò con un ghigno astuto, presentarsi a mani vuote nella notte
principe dei doni, poteva essere una gran brutta figura. Non che pensasse di
potersela ingraziare in quel modo, ma si dava in caso che non appena aveva
immaginato la violinista con quei sandali addosso, non era riuscita a
reprimersi. Al che era cominciata
la bagarre, in breve si era trovata in balia di tre commesse un po’ sgualdrine
che , oltre a lanciarle ognuna a suo modo un segnale invitante, l’avevano
bersagliata con una serie di domande alle quali non sapeva dare risposta. Che
misura aveva Michiru? Eh, vallo a sapere, ecco un’altro quesito che avrebbe
dovuto aggiungere al lungo elenco che stava formulando. Per cui tentò di
cavarsela descrivendo alle tre l’altezza e la corporatura della ragazza. Si dava
il caso però che questi dati non fossero necessariamente indicativi, spesso, le
fece notare una del trio con modi inequivocabili, ad un’altezza media poteva
corrispondere un piede piccolo o una fetta spropositata. Sicuro di non sapere
che numero avesse la propria fidanzata?
E vallo a spiegare a quella che non si trattava di
questo. Inoltre si stava impicciando o l’aveva detto così, tanto per dire?
Difficile dirlo, ma intanto che decideva di prenderle lo stesso, optando per una
grandezza media, veniva succintamente informata che qualora avesse dovuto
cambiarle, per lei, per
lui, non avrebbero fatto
nessuna difficoltà.
Ma certamente e magari se vengo da sola è meglio
ancora eh?!
Pensò Haruka ironica, ma anche abbastanza onesta da
riconoscere che quelle lusinghe la compiacevano come non mai. Grosso errore, il
suo narcisismo le aveva fatto perdere un mucchio di tempo, ché se non fosse
rimasta lì a flirtare sarebbe stata un pelo meno in ritardo. Ma tant’è, cominciò
a correre come una forsennata in direzione del parcheggio.
Filò a tutta birra per le strade cittadine pregando
ardentemente di non incappare in pattuglie dei vigili urbani o in rilevatori
elettronici di velocità e ad ogni semaforo scalpitava nervosamente. Quando
finalmente arrivò sulla strada costiera si rilassò un pochino, poteva farcela,
la nave con le sue luci scintillanti appariva in lontananza. Ancora qualche
chilometro e sarebbe entrata in porto, una bazzecola per la cilindrata che stava
cavalcando. Ma proprio mentre formulava tale pensiero e dava ulteriore gas,
superando di nuovo e abbondantemente il limite di velocità imposto, la sua buona
stella decise di allontanarsi per un break. Mancava pochissimo all’imbocco della
zona portuale quando con orrore sentì le sirene che si avvicinavano, seguite
dall’apparire delle temute luci lampeggianti negli specchietti retrovisori. E
non poté far altro che fermarsi. E, intanto che due poliziotti le verbalizzavano
l’infrazione, condita da un rimprovero piuttosto severo, e le appioppavano una
multa salata, tanto che gli zeri del totale si perdevano in una fila
interminabile, la iattura raggiunse
il suo clamoroso zenit. Il che voleva dire che si vide sequestrare con un fermo
amministrativo la sua adorata moto. E le toccava pure attendere l’arrivo del
carro-attrezzi che se la sarebbe portata via. Furibonda si sedette in compagnia
dei militi sulla balaustra del litorale e da lì poté assistere indisturbata allo
spettacolo della partenza della nave.
“Bingo!”
Esclamò mollando un pugno vigoroso al parapetto. E ora che avrebbe fatto?
Di rinunciare ed andarsene non se ne parlava proprio. Si guardò intorno in cerca
di una soluzione, ci sarebbe stato qualcuno disposto ad affittarle una moto
d’acqua, un motoscafo, una maledetta zattera! Macché, il posto era deserto,
neanche una schifosissima barca di pescatori puzzolente di pesce che potesse
darle un passaggio!
Arrivò il convoglio e, accompagnato dalla scorta dei
poliziotti, tristemente si portò via l’unico mezzo di locomozione del quale
disponeva... e se pure non l’avesse fatto? Mica poteva legarci dei galleggianti
e sperare di raggiungere la nave con quella!?
Pensa Haruka, cazzo, pensa!
S’ingiunse saltando giù dal muretto e cominciando a
camminare frettolosamente verso destinazione ignota.
Un momento! Si disse bloccandosi di colpo. Si era ricordata di
quel che aveva visto al margine della strada quando aveva imboccato per il
lungomare. Decine di negozi che vendevano attrezzature marittime, li aveva
notati con la coda dell’occhio. Si ricordava perfettamente delle colorate boe di
segnalazione e delle mute da sub che avevano in esposizione. E che vorresti
fare? Comprarti una muta? Haruka ricordati che non sai nuotare accidenti a
te!
Nuotare no. Si disse condiscendente. Ma col windsurf sono una
stramaledetta fuoriclasse! Esclamò mentre il vento che veniva dal
mare con un alito più forte le scompigliava i capelli. Fortuna che l’abito di
gala l’aspettava in cabina e che quel mattino aveva indossato un paio di scarpe
da ginnastica. Afferrò saldamente i manici della borsa che conteneva il dono dal
quale erano partite tutte le sue sfighe e prese a correre nella direzione dalla
quale era venuta, mettendoci uno slancio che nelle gare che aveva sostenuto in
precedenza non aveva impiegato mai. A lunghe e potenti falcate si diresse verso
la meta ultima, fregandosene altamente del giubbotto che aveva abbandonato per
strada a causa dell’impaccio e del calore che le procurava. Così fu che il
negoziante che stava a momenti per chiudere, tanto quello già era un periodo di
vacche magre, figurarsi se per Natale venivano a fare acquisti da lui, si vide
piombare in negozio una furia bionda dal volto congestionato e dal fiato rotto.
Ché Haruka aveva corso senza risparmiarsi e senza lesinare quanto a velocità per
più di cinque chilometri.
“Voglio una tavola e una vela da windsurf!” Ringhiò
piegandosi e poggiando le mani sulle ginocchia. Era sfinita e aveva una moquette
in bocca, tanta era la sete.
“ P- prego?” Chiese l’uomo impaurito, convinto
com’era di trovarsi innanzi ad un rapinatore che ancora doveva tirar fuori la
pistola.
“Una vela ed una tavola, subito. Come cazzo sono, non
ha importanza la marca o il modello, me le dia immediatamente!” Sbraitò senza
ancora riuscire a rialzarsi.
“Ma, non saprei...” Tergiversò questo indeciso o meno
se chiamare la polizia, al che Haruka si eresse in tutta la sua temibile altezza
e fulminandolo con lo sguardo, tirò fuori il portamonete dalla tasca.
“Glieli pago oro!” Assicurò sbattendo pesantemente la
carta di credito, pericolosissimo veicolo di spese nelle sue mani bucate, tant’è
che se n’era sempre giudiziosamente negata l’uso fino ad oggi, sul bancone
innanzi a lei. ”Mi dia anche una muta, non importa quale e se ce l’ha solo rosa
confetto! E già che c’è, anche dell’acqua, me lo quoti pure al costo dello
champagne!”
A questo punto l’uomo capì l’antifona e cominciò a
radunare quanto gli era stato chiesto mentre Haruka ingollava l’acqua come se
fosse appena stata salvata dall’arsura del deserto del Gobi. Pagò senza fiatare
l’ammontare esorbitante del complessivo, quel tizio si era rivalso su di lei di
tutte le mancate vendite dalla fine dell’estate in poi, e telefonò alla
capitaneria di porto. Chiese di essere messa in contatto con la plancia
dell’Albatros, meno male che si era ricordata il nome col quale avevano
battezzato quella bagnarola dei mari, e una volta in comunicazione con uno degli
ufficiali, tanto fece e tanto disse che riuscì a persuaderli a prenderla a bordo
in quel modo anomalo. Si trattava solo di portarsi in prossimità della barca, un
gioco da ragazzi! Ma il vento, quel vento che da sempre sentiva come fido
alleato, non l’avrebbe tradita. Non stavolta almeno.
Dopodiché si fece dare anche uno zainetto, che pagò
contanti, ove riporre il vestiario che ancora aveva addosso e la scatola con le scarpe per Michiru. Indi
si recò nel retrobottega a cambiarsi. Rabbrividendo di freddo, che quel
maledetto le aveva dato una muta che le lasciava le braccia e metà delle gambe
scoperte, si fece aiutare a portare la tavola e la vela sulla spiaggia vicina. Così , salutata dagli
incoraggiamenti che l’uomo grato, adesso sì che era anche per lui Natale, le
rivolgeva, mise in mare il windsurf e s’accinse a quell’impresa
disperata.
“Ce la puoi fare. Ce la farai cazzo!” Mugugnò tirando
su l’albero dall’acqua ed
afferrando il boma cominciò a caracollare in attesa di prendere un po’ di vento
che le consentisse l’avanzata iniziale. E quando infine sentì le spinte
dell’aria farsi più consistenti, si spostò sulla tavola inclinandosi in modo
opportuno e iniziò a fendere le onde.
Si era fatto buio ormai, ma non se ne diede pensiero, orientandosi con le
luci di poppa della grande nave che era in lontananza alla sua destra. Il vento
non la stava deludendo, continuava a soffiare esuberante e la spingeva sempre
più veloce verso il traguardo
finale. Sorrise raggiante
muovendosi sulla tavola in modo da sfruttare ancor di più quel grecale
provvidenziale e il suo sorriso divenne un ghigno compiaciuto quando s’accorse
che stava attirando un bel po’ d’attenzione. Infatti pareva proprio che gran
parte dei passeggeri si fosse
riversata sulla murata della nave per assistere alla sua singolare impresa. E
quando arrivò in prossimità del boccaporto che avrebbe dovuto accoglierla nelle
viscere del vascello, grida
d’incitamento e applausi festosi accolsero il suo approdo.
Eccomi Michi, sto arrivando. Mormorò saltando in acqua ed afferrandosi alle mani
protese dei marinai. Riuscirono persino a recuperare il suo windsurf
arpionandolo e accostandolo sul fianco della nave. Ci avrebbero pensato i membri
dell’equipaggio a tirarlo in secca,
Haruka ebbe cura di prelevare solo lo zaino che si era irrimediabilmente
infradiciato.
Con espressione di scusa pregò l’ufficiale che
l’accolse di perdonarla per il suo arrivo quanto mai balzano e, buttandosi sulle
spalle la coperta che questi le porgeva, lo seguì nei meandri della nave. Quando
arrivarono al ponte da dove si dipartivano i corridoi che portavano alle cabine
una piccola folla plaudente l’attendeva e Haruka, con la faccia di bronzo che la
contraddistingueva, levò in alto le mani unendole nel gesto del vincitore. Gli astanti risero deliziati e intanto
che sorrideva soddisfatta, Haruka con lo sguardo frugava tra la miriade di volti
in cerca di uno solo. Purtroppo non lo trovò.
Cercò di consolarsi, tentando di domare la delusione,
dicendosi che Michiru non era proprio il tipo che si sarebbe scapicollata per
assistere a quella bagarre. Frattanto una figura ignota emerse dal gruppo
avanzando ancheggiante verso di lei. Una gran bella figura, doveva ammettere.
L’esaminò partendo dai piedi. Slanciata, fisico da mannequin, belle tette. Poi
passò alla faccia, e neppure lì nulla da eccepire. Una cascata di capelli
ondulati del colore del miele le ricadeva sulle spalle scoperte. Una chioma
selvaggia, strinata da ciocche più chiare, che incorniciava un volto parecchio
avvenente. Naso all’insù, occhi cerulei e ben distanziati, labbra piene e
morbide... insomma, proprio una bella figa. La quale, quando le arrivò
dappresso, si fermò e sorridente le porse la mano con il palmo
all’ingiù.
“Ciao Haruka,
sono Shanaya Yamamay.”
Ah!
Pensò Haruka in quella cruciale
manciata di secondi. Hai capito quella carogna di Hitomi? Non me l’aveva
detto mica che qui avrei trovato la playmate del paginone
centrale!
E poi, riavendosi dalla piacevole sorpresa,
riacquistò i suoi modi urbani. Prese la mano che le veniva offerta e chinandosi
in avanti la sfiorò appena. A quanto pareva avrebbe dovuto aspettare un po’
prima di vedere Michiru, per cui, perché nel frattempo non intrattenersi con
questa
cavallona?
“Avremmo dovuto conoscerci prima Shanaya.” Cominciò
sorniona strizzandole l’occhio. E quest’ultima, strizzandoglielo di rimando,
affermò: “Meglio tardi che mai.”
“Giusto. Ora, se vuoi scusarmi un attimo, andrei a
cambiarmi. Ti spiace avviarti mentre mi rendo
presentabile?”
“Figurati Haruka, ti attendo al bar, ma tu non farti
aspettare troppo, mi raccomando.” Concluse maliziosa e dandole la schiena nuda,
giacché aveva una scollatura vertiginosa,
cominciò ad allontanarsi lasciandosi dietro una scia di profumo molto
conturbante. Gli ormoni ipersviluppati di Haruka reagirono all’istante, malgrado
lo scopo primario che l’aveva condotta lì.
“Non cominciare senza di me!” Fece quest’ultima
malandrina occhieggiandole il fondoschiena da paura appena, appena celato dalla
veste succinta. A questo commento Shanaya si limitò a lanciarle un’occhiata
parecchio esplicativa da sopra la spalla e se ne andò
ridacchiando.
Domine dei che femmina! Si disse Haruka continuando a rimirarla
con tanto di bocca aperta ed incurante del fatto che fosse diventata quasi
bluastra dal freddo. E molto, molto galvanizzata si diresse verso la stanza che
Hitomi le aveva fatto preparare. Certo che aveva presente il motivo per il quale
si era quasi ammazzata per venire a questo party, doveva vedere Michiru, doveva
parlarle. E l’avrebbe fatto non appena avesse potuto, subito, quando l’avrebbe
intercettata però. Intanto poteva tranquillamente farsi un giro con quella,
quando le sarebbe ricapitato un simile pezzo da novanta da aggiungere al suo
palmares ?
Fischiettando entrò nella cabina e lo stava ancora
facendo quando emerse dal bagno ripulita e con i capelli lavati di fresco.
Addomesticò le chiome ribelli, lasciando comunque campo libero alla frangia, che
pareva piacere molto alle donne e prese a vestirsi. Tutto poteva dire alla sua
manager tranne che fosse priva di gusto. Lo smoking che le aveva preso infatti,
sebbene fosse elegante, era moderno. Dalla linea adeguata, ma non imbalsamata.
Applicò i gemelli ai polsini, dopodiché tastò la rigidità del colletto alla
diplomatica della camicia. Perfetto, esattamente come voleva che fosse. Prese il
papillon e lo annodò lasciandolo un po’ disordinato, in modo che fosse lampante
che il suo era un cravattino vero, non una di quelle burinate posticce. Infine indossò la giacca attillata e più
che appagata si rimirò allo specchio.
Ah, come potrà resistermi?
Ridacchiò alla domanda retorica e constatando che non
le mancava nulla si avviò verso il salone dei rinfreschi, senza chiedersi in effetti a chi si
riferisse precisamente con quel commento.