Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: CowgirlSara    26/08/2012    3 recensioni
Ognuno ha i suoi piccoli sporchi segreti. Anche le persone più insospettabili. Un omicidio, un prezioso violino. Una vecchia amica di John. E Sherlock a sciogliere i nodi.
Genere: Commedia, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
DLS
C’è voluto un po’ di tempo, ma sono riuscita a finire anche questa storia! Sono contenta.
Certo, non sarà una trama gialla degna di un vero scrittore e l’intreccio magari si risolve un po’ in fretta, però quello che m’interessava di più non era il giallo, bensì le interazioni tra i personaggi. Spero di essere riuscita a mantenere tutti abbastanza IC ed aver reso decentemente quello che m’interessava… Sta a voi dirmelo!
Il capitolo è lunghetto, ma spero che non vi annoi!

Buona lettura, a presto!
Sara


Capitolo 4

John scese le scale ancora un po’ assonnato. Erano quasi le otto del mattino e lui era stupito che Sherlock non avesse ancora cominciato col suo solito casino.
Arrivato in soggiorno lo vide sulla sua poltrona, in una posizione degna di un contorsionista del circo cinese. La Adler si sarebbe lamentata di come le sue doti fisiche fossero usate solo per dare la caccia ai criminali sui tetti di Londra. Ad ogni modo, Sherlock era arrotolato come un gatto e fissava il vuoto con espressione concentrata.
John lo raggiunse, fermandosi davanti a lui e piegandosi poi sulle ginocchia per incrociare con i propri occhi il suo campo visivo. Dopo un secondo di perplessità, rivelato dalla fronte aggrottata, lo sguardo trasparente di Sherlock ridivenne limpido e fissò gli occhi blu divertiti di John.
“Hai pensato abbastanza?” Gli domandò dolcemente il dottore.
“Hm, credo di sì.” Fece tranquillo il detective, prima di rimettersi seduto normalmente. Watson si tirò su, mettendo le mani sui fianchi.
“Ti faccio un paio di uova?” Domandò quindi.
Holmes piegò leggermente il capo di lato, come se stesse ponderando l’offerta, poi annuì. “Ho fame.” Affermò quindi.
“Bene.” Sentenziò il medico, mentre si dirigeva in cucina. “Toast e uova in arrivo.”
“Cosa farei senza di te.” Ironizzò nel frattempo Sherlock.
“Probabilmente moriresti di fame.” Affermò John ironico. “O finiresti disidratato, avvelenato da un tassista pazzoide, oppure avvinghiato ad uno psicopatico su un tetto, o…”
“Ho afferrato il concetto della tua indispensabilità nella mia vita, John, grazie.” Lo interruppe l’altro, mentre lui ridacchiava davanti al tostapane.
Pochi minuti dopo erano seduti uno davanti all’altro e Sherlock stava mangiando la sua colazione con particolare gusto. John lo fissò perplesso per un attimo.
“Da quanto era che non mangiavi?” Si trovò a chiedergli.
“Mangiare è noioso.” Biascicò lui a bocca piena, mentre un’altra forchettata si avvicinava già alle sue labbra.
“Da come lo stai facendo, non sembra.” Fece il dottore, divertito, sorseggiando il suo the.
“Purtroppo, pare che sia necessario alla sopravvivenza di questo corpo e non posso permettere che la mancanza di nutrimento privi l’umanità di una mente come la mia.” Replicò tranquillo Sherlock, versando nella tazza un paio di cucchiaini di zucchero.
“Ottimo.” Commentò il dottore. “Hai concluso qualcosa con le tue riflessioni di stanotte?” Chiese poi, cambiando argomento.
“Hmhm.” Annuì il detective, mentre finiva le sue uova e ripuliva il piatto con l’ultimo pezzo di toast. “Riassumiamo i fatti.” John annuì.
“Holly Barnes è stata trovata morta nel pomeriggio di giovedì.” John annuì ancora seguendo attento il ragionamento di Sherlock. “La morte risale con tutta probabilità a quella stessa mattina - tre le otto e trenta e le dieci, afferma il medico legale – cosa sappiamo di quello che ha fatto la vittima tra le prove in teatro del mercoledì sera e l’ora della sua morte?”
“Potrebbe aver avuto un appuntamento con Stevens o un altro dei suoi amanti.” Ipotizzò John.
“No, non potrebbe.” Sottolineò l’amico. “Noi sappiamo che ce l’aveva.”
“Lo sappiamo?” Fece interrogativo il dottore.
“Certo!” Sbottò Sherlock con una manata sul tavolo che fece vibrare i piatti. “Quando abbiamo parlato con Gwendolyn e Matthew, lei ha affermato che Holly dichiarò di avere un appuntamento, la sera delle prove… Gliela hai fatta tu la domanda…”
“Oh, sì!” Esclamò John ricordandosi. “Scusami…”
“Tranquillo, non pretendo…” Replicò serafico l’altro, appoggiandosi contro lo schienale della sedia. “Tra l’altro, da quella domanda, abbiamo scoperto anche un’altra cosa…”
“Sì?” L’interrogò John.
“Gwendolyn sapeva della relazione tra la sua amica ed il suo fidanzato.” Rivelò glaciale Sherlock. “Quello che, ancora, non possiamo sapere è se ne fosse a conoscenza da prima o lo abbia scoperto di conseguenza alla morte di Holly.”
“Cosa cambia?” Domandò Watson.
“Molto.” Rispose drastico Holmes. “Se lo sapeva da prima, sarebbe un ottimo movente, se lo ha scoperto dopo, le ragioni…” Si bloccò all’improvviso.
“Sherlock?” Lo chiamò l’amico aggrottando la fronte, si preoccupava sempre quando faceva in quel modo.
Sherlock si alzò dal tavolo velocemente, poi si diresse verso la sua camera da letto.
“Sherlock!” Lo chiamò ancora il dottore, seguendolo.
“Conosco il mio nome, John!” Sbottò l’altro, tra rumori di ante che sbattevano e cassetti aperti con foga. Watson si affacciò nella stanza, giusto per vedere Sherlock togliersi la maglietta e cercare d’infilarsi una camicia pulita il più velocemente possibile.
“Che stai facendo?” Gli domandò poi, stancamente.
“Devo parlare con Stevens, c’è da chiarire qualcosa riguardo ai tempi” Affermò il detective. “Vestiti, andiamo a Scotland Yard.” Gli ordinò poi.

Sherlock fece la sua entrata nell’ufficio investigativo di Scotland Yard sventolando il suo cappotto tra le scrivanie, senza preoccuparsi di urtare qualcosa o qualcuno. Sally Donovan sentiva di odiarlo perfino di più, quando arrivava come se fosse il padrone di casa.
Il Freak era uno stronzo, pieno di se da far vomitare e davvero non capiva come Lestrade gli perdonasse ogni cazzata, uscita improbabile o cattiveria arrivasse da quella bocca impertinente. Il dottore c’era da capirlo, povero Cristo, praticamente pendeva dalle sue labbra; era come uno di quei cagnolini scodinzolanti e fedeli che tentano di morderti appena allunghi una mano verso il padrone.
Cosa mai ci trovavano in lui? Sì, ok, le costava ammetterlo ma il Freak era sexy. E il dottore voleva decisamente scoparselo. Quanto a Greg, beh, non si poteva mai sapere al giorno d’oggi…
Non c’erano, altrimenti, motivi validi per cui quei due prendessero per oro colato ogni cazzo di sentenza emettesse il dio degli strambi. Il fatto che, poi, le sue deduzioni si rivelassero credibili era relativo. Non era mica del tutto convinta che quella storia del finto Moriarty fosse una bugia…
Holmes era un pazzo. Un pazzo sexy e con un bel culo, ma pur sempre da manicomio. E un giorno li avrebbe trascinati tutti nella merda con se. Per questo se ne teneva ben lontana.
La poliziotta sbuffò, quando lo vide spalancare la porta dell’ufficio di Greg e farlo saltare sulla poltrona mentre aveva il caffè in mano. Per un pelo non si sporcò i pantaloni.
“Santo cielo, Holmes!” Sbottò l’ispettore, pulendo la scrivania dal liquido marrone. “Sono ancora a stomaco vuoto…”
“Devo solo parlare con Stevens.” Annunciò Sherlock.
Greg sbuffò e si appoggiò allo schienale della sedia. “Stamattina alle otto è comparso davanti al giudice, che gli ha concesso la libertà su cauzione.” Spiegò poi.
“Cosa?!” Esclamò il detective. “Ed è uscito?”
“Sì.” Annuì stancamente Lestrade. “La fidanzata ha pagato e lo hanno rilasciato.”
Sherlock scambiò un’occhiata significativa con John, che era rimasto finora in silenzio, poi tornò a rivolgersi a Greg.
“Devo trovarlo, potrebbe essere fondamentale per risolvere il caso.” Dichiarò quindi.
“Non ho idea di dove possano essere, mi spiace.” Fece il poliziotto, allargando le braccia.
“Ah, dovrebbero abolire la polizia, vista la vostra utilità!” Esclamò spazientito Sherlock, prima di girarsi per andare via. Lestrade roteò gli occhi. “Andiamo, John, facciamo da soli, come sempre!”
“Buona giornata, Greg.” Salutò il dottore, prima di seguire il suo iperattivo coinquilino.
“Che Dio t’assista, John.” Gli augurò di rimando l’ispettore. Entrambi ridacchiarono.
Sally, seduta al suo tavolo, fece un versaccio. Ecco fatto. Anche per oggi Sua Maestà aveva emesso il giudizio supremo e se ne era andato, col suo valletto a reggergli il mantello. Si chiese se qualcuno sarebbe mai riuscito a metterlo a posto.

Saliti sul taxi, John guardò Sherlock e lui lo incitò a chiedere con un cenno distratto.
“Dove andiamo, ora?” Chiese il dottore.
“A casa di Gwendolyn.” Rispose l’investigatore, aggiustandosi il cappotto sotto il sedere con uno strattone. “È importante che io parli con Stevens e se c’è anche lei tanto meglio.” Precisò poi, i suoi occhi implacabili rivolti alla strada.
John sospirò, rassegnato a non ricevere ulteriori spiegazioni.

La porta, stavolta, gli fu aperta da una distinta cameriera di mezz’età. Sherlock praticamente la travolse entrando, mentre John – costernatissimo – si scusava alla meglio.
Quando furono nel salone dove avevano preso il the la prima volta, seguiti dalle poco velate proteste della donna, Sherlock si fermò, osservando attentamente in giro e chiese della padrona di casa.
“Miss Gwendolyn non è qui.” Rispose indignata la cameriera, lisciandosi il grembiule di pizzo. “E nemmeno il Signor Stevens, perciò se ne vada o chiamo la polizia!” Aggiunse decisa.
Sherlock la ignorò, continuando a camminare su e giù sopra al prezioso tappeto, preso da chissà quali riflessioni.
“Sherlock…” Tentò John. “Possiamo rintracciarli più tardi, che ne so, magari Lestrade ha i loro numeri…”
Holmes, però, non diede segno di averlo ascoltato. Si fermò, invece, accanto al violoncello, posato sul suo sostegno vicino ad un pianoforte a parete. Lo osservò per un lungo momento, come se avesse la vista a raggi X. Poi si riscosse e si girò verso gli altri due presenti.
“Devo sapere dove sono.” Pretese, fissando la cameriera.
“Ma… ma io non ne ho idea.” Balbettò lei, annichilita dallo sguardo deciso di Sherlock. Vuoi vedere che ora funziona anche con le babbione… pensò John.
Sherlock fece due passi verso la cameriera e la prese per le spalle, piantandole in faccia quei due fari assassini.
Devo sapere dove sono.” Ripeté, scandendo le parole.
La donna sbatté le palpebre come ipnotizzata. “Miss… Miss Gwendolyn ha le prove in teatro…” Biascicò lei, non si capiva se impaurita o vittima dell’inesorabile fascino di Sherlock.
“Ci va in macchina o con la Tube?” Chiese allora l’investigatore; lei tacque. “Con quale mezzo va in teatro?!” Insisté lui, scuotendola leggermente.
“Sherlock, dai…” Intervenne John, preoccupato come sempre per i metodi bruschi dell’amico.
“Con la macchina.” Rispose infine la cameriera.
Sherlock mollò le spalle della donna, facendola barcollare un po’ e ricominciò a muoversi a caso per la stanza, con atteggiamento nervoso.
“Dobbiamo sapere dove lascia la macchina…” Diceva, apparentemente rivolto più a se stesso che a John. “Pensa, pensa! Quella zona di Londra…”
“Lo so io.” Lo interruppe il dottore; lui lo guardò aggrottando la fronte. “C’è un solo parcheggio, al Covent Garden, convenzionato con gli artisti.”
“E tu come lo sai?” Domandò sospettoso Holmes.
“Ti ricordi Jade, quella con cui uscivo tempo fa?” Una smorfia di Sherlock lo confermò. “Beh, è una ballerina del Royal Ballet.”
“Finalmente una delle tue inutili fidanzate è servita a qualcosa.” Commentò atono il consulente investigativo.
John ritenne inopportuno far presente che uscire con una ballerina aveva molti lati positivi, non ultima la loro capacità di assumere posizioni contorsionistiche, tanto Sherlock non avrebbe capito. E poi stavano già lasciando la casa.

Erano di nuovo su un taxi, diretti al Covent Garden. John non aveva ancora capito a cosa era dovuta l’improvvisa urgenza di Sherlock per trovare Gwendolyn e Matt, ma si era rassegnato già a dover aspettare la brillante spiegazione dell’amico, sempre che avesse voluto dargliela.
Era preso in queste riflessioni quando il cellulare squillò nella sua tasca. Lo prese, sotto lo sguardo inquisitore di Sherlock, e scoprì con gioia che la telefonata era di Angela.
“Angela!” Esclamò allegro, rispondendo.
“Ciao, John.” Rispose dolcemente lei.
“Come stai?” Le domandò il dottore, con un tono galante che fece storcere la bocca a Sherlock.
“Molto bene, e tu?” Replicò lei.
“D’incanto ora che ti sento.” La donna rise, all’altro capo del telefono.
“Senti…” Riprese Angela. “…ti ho chiamato perché ho molta voglia di vederti.”
“Anche io.” Fece morbido John, interrompendola.
“Quanto sei dolce…” Commentò lei. “Che ne dici se ceniamo di nuovo insieme, in un ristorante questa volta?”
“Sarebbe magnifico.” E non mentiva, voleva veramente passare un’altra serata con lei e rimediare al mezzo casino dell’altra volta.
“Che ne dici di venerdì sera?” Suggerì Angela.
“È perfetto.” Acconsentì John.
“Ti spiace se prenoto io’” Chiese ancora la donna; John fu un attimo preoccupato a proposito del livello economico di un ristorante scelto da lei, ma poi si disse che per una volta poteva anche non guardarsi nel portafogli.
“Non preoccuparti.” Le disse quindi. “Mi togli dall’imbarazzo di dover scegliere il posto.”
“Non ti farò spendere troppo, promesso!” Affermò allegramente lei.
“Non vedo l’ora di rivederti.” Confessò allora John, con tono romantico. Sherlock trattenne un conato, lo odiava quando faceva il melenso.
“È lo stesso per me, John, davvero.” Replicò Angela con dolcezza.
Si salutarono, mettendoci un po’ troppo per i gusti di Holmes, poi John rispose il cellulare e guardò l’amico con un’espressione un po’ ebete.
“Possiamo tornare alle cose serie, adesso?” Fece Sherlock un po’ scocciato.
“Queste sono cose serie! Angela…” Il detective lo bloccò afferrandogli il braccio in una morsa d’acciaio.
John alzò gli occhi dalla mano che lo stringeva, per incrociare lo sguardo di Sherlock. Non poté, però, dirgli quello che pensava sulla brusca interruzione del discorso, perché l’altro gli puntava addosso due stalattiti di cristallo verde, così trasparenti e affilate da trapanargli il cervello.
“È stata lei, John.” Sentenziò la voce di Sherlock, tanto profonda da sembrare proveniente da un girone dell’averno.
“Chi? Angela?” Biascicò confuso il dottore. Holmes roteò gli occhi spazientito e lo lasciò andare, per rimettersi seduto composto.
“Santo cielo, John, che devo fare con te?” Sbottò quindi, vagamente arreso.
John incrociò le braccia e guardò fuori dal finestrino. Si sentiva offeso e non gli capitava spesso, con Sherlock. Sapeva che il suo coinquilino era dotato di un tatto elefantino. Ma c’erano volte, come quella, in cui gli dispiaceva essere trattato come un idiota. Perché spesso voleva convincersi di essere, agli occhi di Sherlock, un tantino più importante del resto delle sue conoscenze. Una specie di prescelto, per qualche insondabile e inspiegabile motivo.
“Di chi parlavi? Di Gwendolyn, vero?” Fece dopo un po’, mentre si avvicinavano alla meta. Era consapevole che l’unico modo per farsi perdonare da Sherlock era aprire la strada alle sue deduzioni, farsi spiegare tutto. Anche se gli rompeva essere sempre quello che s’ingoia l’orgoglio.
Holmes si girò verso di lui, lo sguardo più vivo e brillante. “Certo, ovviamente!” Esclamò.
“Spiegami tutto.” Lo incitò John, perché alla fine adorava ascoltarlo.
“Ripensa all’arma del delitto.” Esordì Sherlock. “Uno strumento antico… ma sappiamo per certo che non si tratta del Guarnieri, né del violino di Holly, e allora cos’altro?”
“Un violoncello.” Affermò Watson.
“Un violoncello.” Confermò l’altro annuendo. “L’ho guardato, è risalente alla stessa epoca del violino di Holly, legno pregiato… è stato pulito, ma credo che un’analisi più approfondita rivelerà legno scheggiato e tracce di sangue.”
“Sherlock, però, ragiona.” Intervenne il dottore. “Se lei se ne fosse andata dall’appartamento della Barnes con la custodia di un violoncello, qualcuno l’avrebbe notata…”
“Non è detto.” Sostenne Holmes. “Quello è un comprensorio di lavoratori, a quell’ora del mattino molti sono già al lavoro, o diretti sul posto, e non è detto che qualcuno abbia fatto caso ad una ragazza elegante con un violoncello… Comunque sarà il caso d’interrogare nuovamente i vicini.”
“Come pensi che sia successo?” Domandò John, nonostante si fosse fatto un’idea abbastanza precisa da solo. Sherlock sollevò le sopracciglia.
“È stato un delitto d’impeto, lo hai detto tu.” Watson annuì. “Presumo che le due donne abbiano avuto una discussione durate le prove che facevano insieme – Stevens ci ha detto che lo facevano ogni giorno – e che questa sia degenerata in un gesto incontrollato da parte di Gwendolyn…”
“E il movente è la gelosia…” Commentò l’altro, mentre il taxi si fermava vicino al parcheggio del Covent Garden. Pagarono e scesero.
“Secondo te, Gwendolyn ha scoperto la tresca quel mattino, oppure lo sapeva già?” Chiese il dottore, mentre attraversavano la strada per entrare nel garage.
“È indifferente, a questo punto.” Affermò Sherlock deciso. “Non è un delitto premeditato, potrebbe averla aggredita per l’ennesima discussione sul tradimento, oppure perché ha scoperto del bambino quello stesso giorno, fatto sta che l’ha uccisa lei.”
“E lo hai capito solo dallo strumento?” L’interrogò l’amico.
“Beh, vedere il violoncello mi ha fatto ricollegare molte cose.” Rispose incurante il detective, entrando nel garage ed esaminando l’area per riuscire ad evitare la guardiola. “Lei che, nel nostro interrogatorio, si premura di dirci che ha visto la vittima per l’ultima volta molti giorni prima del delitto, il suo contegno pieno di rabbia – ovviamente nei confronti della morta e del suo fidanzato – e la ferita sul polso, sotto l’orologio…”
“Una ferita sul polso?!” Esclamò Watson stupito.
“Sì.” Annuì Sherlock. “Probabilmente causata dalle corde del violoncello mentre uccideva Holly, possono essere molto taglienti.”
“Incredibile!” Esclamò allora, John.
Sherlock si girò appena verso di lui, con un sorrisetto storto. “Ah, quindi sono ancora interessante?” Fece sornione.
“Beh, sei il migliore, lo sai.” Dichiarò tranquillo John.
“Modestamente.” Commentò lui, tirandosi su il bavero del cappotto. “Era un caso noioso, comunque, banale delitto per gelosia, però… potrebbe diventare più interessante ora.” Aggiunse, con un cenno verso l’interno del garage.
John aggrottò la fronte. “Perché?” Chiese sospettoso.
“Credo che voglia uccidere anche Stevens.” Affermò Sherlock serio. “Dobbiamo trovarli, ora.”

L’entrata di un furgoncino abbastanza ingombrante distrasse a sufficienza la guardia, da permettere ai due di entrare nel garage. Sherlock riuscì anche a dare un’occhiata al registro, per scoprire dove parcheggiava la Parker-Lloyd.
Con gesti e sguardi dalla complicità collaudata, l’investigatore incitò John a seguirlo verso gli ascensori, mentre il furgone era ancora davanti alla guardiola. Veloci e silenziosi, sfuggirono al controllo e s’infilarono nel primo mezzo disponibile.
“Hai la pistola?” Domandò Sherlock, mentre selezionava il secondo piano interrato dalla pulsantiera. John si toccò il retro della cintura.
“Certo che ho la pistola.” Rispose annuendo. “Mi fai sempre preoccupare quando scatti all’improvviso… Perché lo chiedi?”
“Gwendolyn potrebbe essere armata.” Dichiarò l’altro, fissando i piani che scorrevano sul piccolo schermo dell’ascensore.
“Armata?!” Esclamò il dottore.
“Hmhm.” Annuì Sherlock. “Un revolver calibro 38, per la precisione.” Aggiunse, davanti alle porte scorrevoli che si aprivano su un parcheggio grigio dalle luci sbiadite.
“E come diavolo fai a saperlo?” Domandò allibito John.
“Oh, non pretendo certo che tu abbia notato la vetrina delle pistole, in casa sua, né la mancanza di un’arma alla nostra seconda visita.” Affermò impassibile lui. “Un revolver Colt, presumo, che stava tra una Beretta semi automatica e una Mauser della seconda guerra mondiale…”
“Tu, seriamente, a volte mi fai paura…” Ammise sconcertato il medico. Sherlock gli rivolse un mefistofelico sorriso soddisfatto.
“Il suo posto è il D36.” Gli disse quindi. “Dividiamoci.” Aggiunse, indicando a John la direzione opposta alla sua. Watson annuì.
Cominciarono a spostarsi, coprendosi con le colonne o tra le auto parcheggiate. Sherlock non riusciva a trovare la lettera D, mentre John ci s’imbatté quasi subito.
Stava aggirando l’ennesima colonna, quando si accorse di qualcuno che si muoveva in un punto poco illuminato, a causa probabilmente di un paio di neon fulminati. La ragazza, puntando il grosso revolver, trascinava l’uomo, pallido e impaurito.
“Gwendolyn!” Chiamò John.
Lei sussultò, allentando la presa sulla giacca di Stevens, poi guardò nella direzione di Watson, lo vide, alzò la mano che teneva la pistola e sparò.

Sherlock, dall’altra parte del parcheggio, sentì la voce di John indistinta, non capì cosa diceva, però lo sparo lo avvertì nitidamente. Quando il rimbombo finì, sentì qualcosa cadere con un tonfo sordo. Il detective, in quel momento, pensò seriamente che il cuore gli avrebbe trapassato la cassa toracica per esplodergli nella gola in una profusione di sangue e viscere.
Senza pensare, senza alcuna riflessione logica, preda soltanto della paura, corse in direzione di John, premurandosi solo di non essere troppo scoperto al tiro della Colt. Si bloccò dietro ad una colonna quando vide sul muro una striscia verde con la lettera D.
“John!” Chiamò forte, un’incrinatura inspiegabile nella voce. “JOHN!” Ripeté concitato.
“Sherlock!” Gli rispose infine l’amico.
Holmes si appoggiò alla colonna, prendendo un lungo sospiro, con una mano appoggiata sul petto. Si disse che, se John si era sentito la metà di così, mentre lui era sul quel cornicione, per ripagarlo avrebbe dovuto fare ben altro che comprare il latte. Socchiuse gli occhi, cercando di recuperare il suo proverbiale autocontrollo.
Aveva ancora gli occhi chiusi, quando sentì qualcosa sbattergli contro. Li aprì e vide John studiare la situazione oltre la colonna, con cautela e la pistola in pugno, respirando forte, praticamente appoggiato contro di lui. Soppresse la voglia di abbracciarlo.
“Che cosa è successo?” Domandò il consulente.
“Mi ha sparato, ma ha sbagliato mira ed ha preso un bidone dei rifiuti, che è caduto.” Rispose il dottore, continuando a scrutare dietro la colonna.
“Capisco…” Commentò Sherlock. Si era fatto venire un colpo per un bidone… Se fosse stato padrone di se avrebbe capito che quello che cadeva non era un corpo umano! Emozioni, buah!
“Cosa facciamo, adesso?” Chiese nel frattempo John.

“Dio mio, fate qualcosa, vi prego!” Supplicava Stevens, piangente e inginocchiato per terra.
“Sta zitto!” Lo minacciò la donna, puntandogli l’arma alla testa.
“Gwen, credimi, io ti amo!” Continuò lui, ignorando che così faceva solo aumentare la sua rabbia.
“Smettila di mentire!” Replicò infatti lei, sempre più furente.
“Gwendolyn, ascolti.” Intervenne Sherlock da dietro la colonna, la voce alta e autorevole. “Lasci andare Stevens, ha ancora una possibilità, l’omicidio di Holly è colposo, lo sappiamo… potrebbe avere una condanna mite, si fermi adesso.”
John trovò il discorso di Sherlock ragionevole, ma… terribilmente privo di umanità. Quella ragazza era sconvolta, probabilmente piena di sensi di colpa, tradita su tutti i fronti, pronta a tutto. Non era il modo, dovevano trovare un’altra maniera per convincerla.
“Andatevene!” Minacciò la donna, sventolando la pistola contro di loro.
“Gwen.” Il tono dolce con cui John aveva pronunciato il nome, fece voltare Sherlock verso l’altro lato della colonna che li riparava, solo per vedere che l’amico se ne era discostato e camminava, mani e pistola alzate, verso la donna. Fece velocemente lo stesso, superando il nascondiglio.
“John.” Lo chiamò; lui spostò appena gli occhi per guardarlo di sfuggita.
“Lasciami fare, Sherlock.” Gli chiese. “Ho avuto anche dei kalashnikov puntati in faccia, sai?”
“Non fare sciocchezze…” Esalò l’investigatore, mentre studiava con gli occhi la situazione, cercando una soluzione che traesse d’impaccio il medico.
“Gwen, mi ascolti.” Riprese Watson, dirigendosi verso la ragazza. “Guardi, adesso poso la pistola…” E si chinò a terra per lasciare la Browning, lei lo seguì con un cenno nervoso. “Non voglio farle del male, voglio solo parlare.”
Sherlock, nel frattempo, stava velocemente calcolando quanto gli ci sarebbe voluto per buttarsi a terra, recuperare l’arma di John, sparare a Gwen e risolvere tutto, senza che lei avesse il tempo di ammazzare il dottore. Probabilità scarse, tempo di reazione insufficiente, alta percentuale che John venga colpito comunque, troppo rischio…Stupido, stupidissmo John!
“Io la capisco, Gwen.” Affermava Watson in quel momento, a pochi passi da lei. “So come ci si sente ad essere traditi e abbandonati da qualcuno che si ama…”
Sherlock, a quell’affermazione di John, si sentì personalmente e fastidiosamente tratto in causa.
“La mia migliore amica e l’uomo che amavo!” Esclamò Gwendolyn, lasciandosi andare alle lacrime.
“Sì, so cosa le hanno fatto.” Annuì comprensivo John, sempre con le mani in alto. “E so anche che non voleva uccidere Holly.”
“È stato un incidente! Io l’ho colpita ed è caduta… su quel tavolo e poi… c’era un sacco di sangue…” Raccontò sconvolta la ragazza. “Ma se lo meritava, quella puttana traditrice!”
“Non peggiori le cose, adesso, Gwen.” Le disse paterno il dottore. “Lasci andare Matt e forse avrà ancora speranza.” Tentò poi.
“Io lo amavo e lui mi ha tradita! Mi ha mentito e l’ha messa incinta!” Gridò però lei, minacciando ancora il povero ragazzo, ormai ridotto ad una larva d’uomo dalla paura.
“Lo lasci andare, Gwen.” Insisté dolcemente John. “Può ancora salvare qualcosa di se stessa, se lo lascia andare…”
“Non so che cosa devo fare…” Mormorò lei, piangendo disperata.
“Mi dia la pistola.” Le suggerì lui con delicatezza. “Mi dia la pistola e si sfoghi.” Aggiunse, allungando una mano verso la sua, che teneva ormai blandamente l’arma.
Gwen scoppiò in un singhiozzo più forte, mentre John le sfilava il revolver dalla mano, poi si accasciò tra le sue braccia e lui la seguì per non farla cadere. La ragazza cominciò a piangere ancor più disperatamente tra le sue braccia. Il dottore allungò un braccio all’indietro e Sherlock gli fu subito accanto per recuperare la pistola. Stevens, nel frattempo, si era allontanato di qualche metro con un gemito sordo.
Holmes restò qualche istante ad osservare John che, inginocchiato a terra, abbracciava con comprensione l’assassina rea confessa. Per un fuggevole attimo, invidiò la naturale empatia di Watson verso il genere umano. E si domandò per l’ennesima volta, quanto lui dovesse aver sofferto e quanti dubbi avesse avuto, durante la loro lontananza. Era giusto che Sherlock si sentisse in colpa.
Durò poco, ad ogni modo, perché il consulente investigativo riprese immediatamente il suo aplomb e chiamò quegli incapaci di Scotland Yard.

Un paio di ambulanze e qualche auto della polizia riempivano lo spazio davanti all’entrata del garage, illuminando il crepuscolo con i loro lampeggianti, mentre Sherlock e John sedevano pacifici sul cofano della macchina di Lestrade. Una scena familiare, dopotutto.
“Abbiamo consegnato un altro assassino alla giustizia.” Affermò John, incrociando le braccia.
“A quanto pare.” Commentò Sherlock, mani in tasca e bavero alzato. “Le daranno delle attenuanti, è un omicidio colposo ed era chiaramente fuori di se.”
“Lo spero.” Fece il dottore, ancora pieno di pietà per la donna.
“Del resto, anche la vittima non era esattamente innocente…” Continuò Holmes tranquillo; John lo guardò male.
“Stai parlando di una povera ragazza incinta a cui hanno fracassato la testa, Sherlock.” Puntualizzò quindi, indignato. Lui si limitò a stringersi nelle spalle.
Passarono qualche minuto nuovamente in silenzio, osservando Stevens seduto sul retro di un’ambulanza con sulle spalle la classica coperta arancione da shock. Ridacchiarono, quando un ricordo comune attraversò la mente di entrambi.
“Sembravi preoccupato, prima.” Disse infine John, rompendo il silenzio, con tono furbo.
“Quando?” L’interrogò vago l’amico, senza guardarlo.
“Quando credevi che Gwen mi avesse sparato.” Spiegò Watson.
“Oh…” Fece Sherlock. “Credevo ti avesse sparato.” Si limitò a dire, come fosse ovvio.
“Quindi, ti preoccupi per me…” Ipotizzò il dottore, senza nascondere un sorrisetto compiaciuto.
“Sei mio amico, non dovrei?” Replicò Sherlock, sempre laconico.
John sorrise. Lui guardava da tutt’altra parte, ma il dottore osservò il suo profilo chiaro contro lo sfondo dei palazzi scuriti dalla sera. Una bella persona con un brutto carattere, ecco cosa era Sherlock. E lui lo adorava, c’era poco da fare.
“Anche io ti voglio bene.” Gli disse infine, con un sorriso dolce, provocando un’espressione perplessa sul viso tutto spigoli del suo coinquilino preferito.

******

Il mattino dopo, John canticchiava in cucina, lavando i piatti della colazione, mentre Sherlock era apparentemente assorto nella lettura dei quotidiani sulla poltrona.
“Qualche cosa d’interessante?” Domandò il dottore, asciugandosi le mani con uno straccio sulla soglia del soggiorno.
“Hn, l’economia crolla e nessuno che si decida ad uccidere un banchiere!” Rispose Holmes, sbatacchiando le pagine indignato. John ridacchiò, gettando lo straccio su una sedia.
“Vado a farmi la doccia.” Annunciò quindi. “Dopo esco per la spesa, se vuoi…”
“Credo che andrò al Barts.” Replicò l’altro, sempre dietro al muro di carta.
“Ok.” Annuì Watson, prima di salire di sopra.
Quando Sherlock fu sicuro che John fosse al piano superiore, abbassò il giornale e scrutò la stanza.
La giacca di pelle del dottore era appesa accanto al suo cappotto, dietro la porta. Il laptop abbandonato sul divano, si sarebbe presto spento per mancanza di batteria. E il cellulare…
Gli occhi da felino predatore di Sherlock spaziarono velocemente nella stanza, spingendosi fino alla cucina, per riuscire ad individuare il telefono del proprio coinquilino. Che lo avesse portato di sopra? No, lo dimenticava sempre giù… e allora? Ah! Eccolo…
Si alzò elegantemente, facendo frusciare la vestaglia di seta, il giornale abbandonato per terra, e si diresse in cucina. Su un angolo del pensile, vicino al bollitore elettrico, stava l’apparecchio di cui aveva bisogno.
Lo prese e lo studiò un attimo, ripetendosi che stava per fare un’azione necessaria. Era inutile parlarne con John, non avrebbe capito le sue buone intenzioni. Non senza rimanere profondamente ferito da quello che lui poteva rivelargli. E questo non era ciò che Sherlock voleva.
Era perfettamente cosciente di aver ferito John innumerevoli volte, ma questo non senza aver ferito ugualmente se stesso. Quindi, per evitare dolore ad entrambi, era meglio che soffrisse un po’ qualcun altro.
Aprì il cellulare, digitò velocemente il messaggio e lo inviò. Poi si premurò di far scomparire ogni traccia delle sue azioni. Fu particolarmente attento. Il coinvolgimento emotivo poteva essere causa di errori e lui non poteva permetterselo.
Rimise il telefono nella stessa esatta posizione in cui lo aveva trovato e tornò alla sua poltrona, soddisfatto. Ma continuò a chiedersi perché nessuno uccideva un banchiere in modo sanguinario e fantasioso. C’erano momenti in cui Jim gli mancava davvero molto.

«Ho bisogno di parlarti. 6 PM al parco dove ci siamo incontrati. JW»

Angela era ancora stupita di aver ricevuto quel messaggio da John. Perché voleva incontrarla solo un paio di giorni prima del loro appuntamento?
Ad ogni modo, quel mercoledì sera, mentre il sole si abbassava rosso dietro i tetti di Londra, era andata nel parco dove si erano rincontrati dopo quindici anni.
Si avvicinò alla panchina dove si erano seduti, guardandosi intorno, ma di John non c’era traccia.
Poco dopo, vide comparire una figura familiare dal fondo del giardino. Era un uomo alto, con un lungo cappotto scuro; incedeva verso di lei guardandola negli occhi, con andatura elegante. Il viso di cera fisso in un’espressione dura.
“Signor Holmes…” Mormorò sorpresa, in fondo si erano visti solo quella sera a teatro.
“Buonasera, Angela.” Fece lui, con fredda educazione. “O dovrei dire Mrs. Kubler?” Aggiunse con un’occhiata retorica.
Angela, colpita, fece un passo indietro e spalancò gli occhi. Trascorse un attimo prima che si riprendesse, come previsto da Sherlock.
“John sa che sono sposata con James.” Affermò quindi la donna.
Sherlock sorrise maligno. “Ci sono molte altre cose che John non sa, Mrs. Kubler.” Disse, calcando sul titolo della donna, mentre le dava le spalle e faceva qualche passo intorno alla panchina. “Ma si da il caso che io sia Sherlock Holmes e che niente mi sfugga.” Aggiunse, tornando a dedicarle un’occhiata glaciale.
“Non capisco cosa vuole…” Tentò Angela, mentre lui le tornava davanti.
Sherlock sapeva essere imponente, se il caso lo richiedeva: postura nobile, mani in tasca, grande aiuto da spalline e bavero del cappotto. Gli piaceva incutere un certo timore.
“Le sarà sembrato un segno del destino, incontrare il buon vecchio John quella sera, vero?” Le chiese, col tono di chi sapeva già la risposta.
“Mi ha reso molto felice, sì.” Si difese lei, anche se il motivo le sfuggiva.
“Oh, sì, soprattutto tenendo conto che lei era appena uscita da una visita alla clinica Brown & Ross, specializzata in assistenza alla gravidanza e… inseminazione artificiale.” Lei spalancò la bocca, ma
non disse nulla. “Ora, considerato che lei non mi sembra incinta, deduco che le sue visite siano rivolte all’altra specializzazione…”
“Non sono affari suoi!” Esclamò indignata la donna. Lui la fissò quasi con odio.
“Li ha fatti diventare affari miei, Mrs. Kubler.” Sentenziò quindi. “Dicevamo…” Riprese come se nulla fosse, continuando a camminarle intorno. “… il suo desiderio di maternità inappagato l’ha portata a tentare più volte l’inseminazione artificiale in una delle più rinomate cliniche di Londra, ma non è accaduto nulla… La famiglia di suo marito è ricca e prestigiosa, quindi presumo che non vi manchino i mezzi per tentare ogni strada, ma…”
“La prego…” Supplicò Angela, ma niente avrebbe potuto impietosire Sherlock.
“Ma conosco le famiglie come quella, il sangue conta ancora qualcosa a quei livelli e quindi…” La fissava implacabile. “…immagino che non si voglia sentir parlare di inseminazione eterologa o di adozione…”
Angela sospirò arresa. “Mio marito e suo padre sono inflessibili: deve essere un Kubler, ma…”
“Il problema è di James.” Concluse Holmes, lei lo guardò stupita, ma poi annuì.
“Non capisco cosa c’entri tutto questo con John.” Disse la donna, scuotendo il capo.
“Oh, c’entra molto, invece.” Fece Sherlock, prima di allontanarsi di un paio di passi. “Quella sera, uscita dall’ultima, deludente, visita in clinica, lei incontra per caso John Watson.” Cominciò a spiegare il detective. “Un vecchio compagno di università, cui lei aveva voluto moderatamente bene, che l’aveva aiutata senza chiedere niente in cambio e che, lo sapeva bene, quindici anni fa era perdutamente innamorato di lei.”
“Io… io non…” Provò ad intervenire, bloccata dalla mano di Sherlock sollevata a mo’ di stop.
“Mi lasci finire, poi potrà smentirmi, oppure no.” La pregò poi. “John Watson, dicevamo, un uomo pieno di belle qualità, intelligente, simpatico, gentile, generoso, coraggioso…”
“John è una bellissima persona.” Affermò Angela, prima di essere nuovamente trafitta da un’occhiata feroce di Sherlock.
“Questo lo so benissimo, non c’è bisogno che me lo dica lei.” Replicò con tono pericoloso. “Per questo le impedirò in qualunque modo di fargli del male.”
“Io non voglio fare del male a John…” Replicò blandamente Angela.
“Quindi nega di aver pensato di usarlo per concepire un figlio e poi far credere ai Kubler di averlo fatto con suo marito?” Le domandò gelido l’investigatore.
Angela, a quelle parole, spalancò gli occhi e barcollò, come colpita da una spinta, poi si appoggiò alla spalliera della panchina e si sedette, cominciando a singhiozzare.
“Oh, mio Dio…” Esalò la donna, aggrappandosi alla propria borsetta.
Sherlock era di nuovo davanti a lei, le mani in tasca e nessuna espressione sul volto di marmo.
“So che è in crisi con James e che lui non vive più a casa da un po’.” Affermò Holmes, sorprendendola ancora una volta. “Ma so anche che ne è ancora innamorata – debolezza facilmente intuibile dal fatto che non ha tolto fede e anello di fidanzamento…” Li indicò al suo dito, mentre lei lo fissava incredula. “…sono puliti, curati, chiaro segno di affezione al matrimonio, li portava anche quella sera a teatro, quindi mi spieghi perché? Perché voleva fare questo a John?”
“Non lo so.” Negò lei, con le mani sul viso, poi le posò ai lati delle gambe, sul bordo della panchina. “Sono impazzita, volevo un figlio a tutti i costi… Quando ho rivisto John mi è sembrato che il destino finalmente fosse dalla mia parte, avrei avuto un bambino bellissimo e loro… i Kubler, avrebbero creduto che somigliasse a me…”
“La smetta, non sono qui per consolare donnette.” Intervenne duro lui, lei sospirò e prese un fazzolettino dalla borsa. “Cosa pensava di fare? Stare con lui finché non rimaneva incinta, poi lasciarlo e tornare da James, facendogli credere che il figlio fosse suo? John è un uomo buono e non si merita di essere usato in questo modo.”
“Oddio, lo so!” Esclamò lei sconvolta, quell’uomo sembrava leggerle nella mente. “Non so cosa pensavo, ero fuori di me!”
“Mi ascolti bene.” Le ordinò allora Sherlock, obbligandola a guardarlo. “Lei dirà a John che non potete vedervi più, trovi una scusa sufficientemente valida e tagli i rapporti…”
“Glielo dirò a cena…” Fece Angela.
“No, non ha capito.” Disse autoritario Holmes. “Non voglio che lo veda mai più, lo chiamerà per parlargli e poi sparirà dalla sua vita.” Spiegò serissimo.
“E se io non volessi farlo?” Replicò debole la donna.
“Mi creda, non vuole mettersi contro Sherlock Holmes.” Le garantì lui, un’espressione che garantiva fosse disposto a tutto e privo di scrupoli.
“Perché lo fa?” Gli chiese allora Angela, mentre finiva di asciugarsi il viso.
“John Watson è mio amico e nessuno può permettersi di farlo soffrire.” Rispose Sherlock, e per una volta lei vide delle emozioni nei suoi occhi di ghiaccio. Era sincero.
“Farò come vuole, Signor Holmes.” Acconsentì infine Angela, con un sorriso amaro. “E troverò la mia soluzione altrove.”
“Bene, non abbiamo altro da dirci.” Fece lui, annuendo. “Addio, Mrs. Kubler.” Salutò quindi, prima di girarsi per andare via.
“Signor Holmes.” Lo richiamò però lei; tornò a guardarla. “John è un uomo molto fortunato.” Affermò la donna, lui la fissò interrogativo. “È fortunato ad avere qualcuno che lo ama così tanto.” Spiegò quindi, alzandosi.
“Io non ho parlato di am…” Tentò di replicare l’uomo.
“Addio, Signor Holmes.” Lo salutò Angela, interrompendolo, quindi, con un sorriso rassegnato ma composto, si allontanò da lui senza aggiungere altro.
Sherlock rimase a fissare la sua schiena allontanarsi, mentre i lampioni iniziavano ad accendersi.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta, anche se sarebbe stata dura per John. Stasera gli avrebbe suonato qualcosa di dolce, col Guarnieri che non aveva ancora restituito – per la gioia delle coronarie di Lestrade. Sarebbe passata anche questa, ci avrebbe pensato lui.

*****
 
Una giornata particolarmente limpida splendeva su Londra, quel giovedì. Era quasi mezzogiorno e il sole era piacevole su quel campo da golf.
John chiuse il cellulare con una smorfia amara. Bella giornata, sì. Tranne che per il suo umore. E per la sorte del poveraccio steso a faccia in giù sull’erba.
Scese la collinetta, diretto alla porzione di campo occupata dal gruppetto di yarders e da Sherlock, mentre la scientifica, con le tute azzurre, montava un gazebo.
La notizia che aveva appena ricevuto non era delle migliori, ma erano cose che capitavano. L’amarezza sarebbe passata e non era giusto far pesare un problema del tutto personale sull’indagine in corso. Si avvicinò agli altri, mentre Sherlock era chinato sul corpo.
John si fermò accanto a Greg ed osservò la vittima. Era un uomo di mezz’età che indossava una perfetta e molto firmata tenuta da golf, completa di cappellino bianco e arancione. Lo avevano appena voltato e si poteva vedere bene il foro insanguinato sul petto della polo bianca. Beh, proprio bianca… e anche la faccia…
“Perché è verde?” Domandò il medico perplesso. Sherlock roteò gli occhi tacendo.
“I campi da golf usano dei coloranti per rendere l’erba più verde.” Spiegò Lestrade.
“Ah… ecologico…” Commentò Watson. “Allora, come è successo?” Domandò quindi.
“Un colpo d’arma da fuoco al petto.” Rispose Anderson. “Una nove millimetri…”
“Non sono certo che si tratti di una nove millimetri.” Intervenne Sherlock interrompendolo.
“Oh, andiamo!” Sbottò il poliziotto. “Il foro è perfetto, ho misurato il diametro! Non può che essere così!” Aggiunse piccato.
“Bene, allora cerca il bossolo e quando lo avrai trovato ne riparleremo.” Proclamò Holmes, prima di dargli le spalle e incamminarsi, seguito da John. “Ah…” Fece poi, girandosi di nuovo. “È qui da ieri sera.” Rivelò con nonchalance.
“Come accidenti fai a dirlo?” Esclamò Greg.
“Tutta la sua parte posteriore è bagnata, è rimasto esposto al getto dell’irrigazione automatica.” Spiegò tranquillamente Sherlock. “Se fosse venuto stamattina per giocare non sarebbe successo e poi… c’è un’altra cosa che ci dice che non era qui per giocare: dov’è la sua attrezzatura?”
I poliziotti e anche John si guardarono intorno, seguendo il gesto ampio delle braccia di Sherlock: nessuna giardinetta, nessuna borsa da golf, niente mazze e palline in tutto il prato.
“Riflettete.” Consigliò quindi il consulente, mentre lasciava il luogo del delitto.
Lui e John camminarono affiancati per un po’, attraversando il campo da golf verso la palazzina in stile tudor sede del club.
“Chi era, prima al telefono?” Chiese distrattamente Sherlock, mentre attraversavano un green.
“Ah, sì… scusa se mi sono allontanato…” Biascicò John, guardando dentro la buca della bandierina.
“Figurati.” Glissò l’altro, con un cenno della mano.
“Era Angela.” Confessò quindi il dottore. “Non ci vediamo più, domani sera.”
“Ha spostato l’appuntamento?” Sherlock tentava di sondare il terreno senza dare a vedere che era piuttosto interessato.
“No, veramente lo ha disdetto… per sempre.” Rispose Watson, osservando con espressione delusa il laghetto alla sua destra.
“Oh…” Commentò Holmes, senza aggiungere altro.
“Sembra che stia provando a far pace col marito, sai… Cose che capitano, non pensavo certo lo lasciasse per me…” Affermò John, fingendosi indifferente con un’alzata di spalle.
“Mi dispiace.” Disse Sherlock, atono.
John si fermò, obbligandolo a fare lo stesso, poi lo guardò, prima sorpreso, poi con un sorrisetto sarcastico. “Non è vero.” Sentenziò quindi, prima di scuotere il capo e riprendere a camminare.
“Potresti fare finta di crederci, per una volta.” Soggiunse l’altro e Watson scoppiò a ridere, accompagnato poco dopo da Sherlock.
Bene, il piano aveva funzionato. Angela lo aveva mollato, John non sospettava minimamente dei veri motivi e lui lo aveva fatto ridere. Quella donna con suo marito. E John con lui. Ogni cosa tornava al suo posto.

******

Sherlock era davanti al camino, voltato verso il divano ed inquadrava nel mirino il centro esatto dello smile giallo sulla parete di fronte. La freccia scoccò esattamente nel momento in cui John attraversò la porta di casa, conficcandosi nel muro con un rumore sordo.
“Quella è una balestra?” Domandò il dottore, immobile davanti all’entrata; ormai non si stupiva più delle armi assurde che poteva trovare in mano al proprio coinquilino.
“Hmhm.” Annuì Sherlock, mentre ricaricava l’attrezzo. “Balestra professionale da tiro.” Spiegò quindi, asciutto.
John alzò retoricamente le sopracciglia e si spostò in cucina, assimilando tranquillamente la novità, come qualcuno dalla vita normale accetterebbe delle tende nuove.
“C’entra qualcosa con l’omicidio del campo da golf?” Chiese ancora Watson, mentre posava sul poco spazio libero del tavolo quello che aveva in mano.
“Hmhm.” Annuì ancora Sherlock.
“Ma non era stato ucciso con una calibro nove?” S’informò John.
“Stesso diametro, arma diversa.” Rispose flemmatico il detective, continuando ad esaminare il mirino.
“Mrs. Hudson ti ha mandato una torta al rabarbaro.” Annunciò allora il dottore.
“Oh!” Fece Sherlock, voltandosi improvviso verso l’interlocutore. “Adoro le torte al rabarbaro di Mrs. Hudson!” Esclamò poi, lasciando la balestra ed andando a controllare il dolce.
John sorrise. Quelle torte erano una delle poche debolezze culinarie di Sherlock e la cosa non finiva di intenerirlo, cosa strana parlando di un odioso sociopatico grande e vaccinato.
“Metto su il the.” Affermò nel frattempo Sherlock, sorprendendo piacevolmente Watson, che però pensò che non avrebbe potuto goderselo insieme all’amico.
“Mi dispiace, ma… sto uscendo.” Il dottore fu costretto a dirlo a malincuore.
Il detective si girò verso di lui con espressione seria. “Qualcuno che conosco?” S’informò.
“Beh, ecco… sì, insomma…” Balbettò incerto John. “È il compleanno di Sarah, andiamo a bere qualcosa al pub, con altri suoi amici.” Confessò infine.
Sherlock, dentro di se, sentì qualcosa alleggerirsi. Appena aveva sentito parlare di un’uscita il suo cervello l’aveva collegata ad Angela, considerando vanificato il suo intervento. Invece non era andata così. E lui era sollevato.
“Capisco.” Commentò infine, con la sua solita impassibilità, celando come sempre i suoi pensieri tumultuosi.
“Vuoi… venire anche tu?” Domandò delicatamente John; Sherlock sbuffò un sorriso.
“Non credo che Sarah ne sarebbe felice.” Rispose poi, mentre accendeva la teiera. “Preferisco la torta di Mrs. Hudson.”
“Beh, allora… vado a cambiarmi.” Annunciò il dottore, facendo per dirigersi alle scale, ma si girò di nuovo. Sherlock lo guardò interrogativo. “Lasciamene una fetta, ok?” Disse, indicando il dolce.
Holmes sollevò le sopracciglia. “Non lo so, se torni presto.” Replicò furbo.
Il dottore rise, iniziando a salire le scale. “Questo è un ricatto!” Sbottò allegro.
“Forse sì.” Soggiunse Sherlock, la risata di John si perse sulle scale. “Basta che torni…”
“Hai detto qualcosa?” S’informò Watson, affacciandosi dal pianerottolo superiore.
“No, niente.” Fu la risposta pacata di Holmes.
Sherlock Holmes era un uomo che aveva passato la vita a costruirsi un’impenetrabile barriera fatta di ferrea logica, ignoranza delle emozioni e lucida deduzione. Non riusciva a capire – e questo lo confondeva – come qualcuno di così privo di logica, sentimentale e umano come John Hamish Watson fosse riuscito ad infiltrarsi fino a raggiungere un nucleo nascosto e vulnerabile del suo io. Evidentemente gli doveva essere sfuggita una falla, una crepa piccola e nascosta e lui se ne era approfittato. Eppure, nonostante avesse provato a farne a meno, imponendosi un monacale distacco, alla fine aveva dovuto arrendersi all’evidenza. Per quanto fallibile, illogico e comune lui fosse, Sherlock non poteva vivere senza John.
Ma questo, probabilmente, non glielo avrebbe mai confessato. Perché anche lui preferiva avere i suoi piccoli, sporchi segreti.

FINE


NOTE
-    non ho idea se ci sia un parcheggio interrato al Covent Garden, anche se presumo di sì (io ci son stata con la metro, quindi…), ad ogni modo, fate finta che ci sia, mi serviva ^_-
-    non so come mi è venuta l’idea della torta al rabarbaro, non so manco come si fa, però mi piaceva associarla a Mrs. Hudson!

Infine, un grazie di cuore a chi ha letto, messo nei preferiti, seguiti, ecc. questa storia e, soprattutto, a coloro che hanno lasciato un commento! Spero che sarete in tanti anche stavolta!
Un bacio!

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: CowgirlSara