C’è chi le chiama
“arrivate”. Chi “parvenu”. Chi “arrampicatrici sociali”. Giudizi di chi difende
ciecamente le fortune accumulate senza meriti o di chi non ha avuto né il
coraggio né la capacità di raccoglierne altrettante.
Eppure, la
Contessa era in tutto e per tutto un’”arrivata”. Una “parvenu”. E forse, era
anche un’arrampicatrice sociale. Ma se qualcuno avesse trovato il coraggio di
sfidare apertamente le sue sette ville, i suoi milioni in banca, le sue vaste
partecipazioni azionarie e dirglielo in faccia, se qualche nobile gli avesse
gridato il suo disgusto vis a vis, se qualche giornalista prevenuto gli avesse
fatto le solite domande volgarotte e antipatiche, la
Contessa gli avrebbe dato pan per focaccia. Decisamente.
Dopo il
baroccheggiante annuncio di Filini, bardato con quel suo vestitone
settecentesco rubato dalla bara di chissà quale nobile in chissà quale sacrario
della Francia meridionale, la Contessa fece il suo ingresso nel salone
principale del Minato Art Museum.
Il volto
ricoperto da profonde rughe, solcate non dagli anni ma dall’uso smodato di
trucchi chimici, tossici e cancerogeni. I capelli alla Marge
Simpson, tinti con una spenta sfumatura di rosso. Un naso prominente che
spiccava nel bel mezzo di un viso ossuto da strega delle favole.
Avanzava come una
pin up stagionata, una Silvana Pampanini scheletrica,
avvolta in uno strettissimo abito vermiglio che non lasciava spazio alla
fantasia, dal quale emergeva con violenza un seno vistosamente rifatto. Quell’abito,
su Jessica Rabbit, avrebbe fatto la sua porca figura,
così, invece, sembrava più una figura porca[1]. Gli
artisti, i politici, gli sportivi e le autorità della cittadina giapponese la
guardarono fissi con i loro occhi a mandorla. Fermi, senza proferire alcun
commento. La controparte italica, già abituata a quell’insolito spettacolo,
salutò la Contessa con inchini, riverenze e saluti servili.
La Contessa
Silvani Serbelloni Mazzanti
Viendalmare mostrò di gradire quegli atti di
sottomissione. Quelle pubbliche riverenze che la rendevano speciale, ben al di
sopra della massa degli inferiori e delle merdacce.
Perché la
Contessa Silvani Serbelloni Mazzanti
Viendalmare era la Contessa Silvani Serbelloni Mazzanti Viendalmare solo da pochissimi anni. Perché la Contessa
Silvani Serbelloni Mazzanti
Viendalmare, fino a pochi anni prima, era una
merdaccia come tutte le altre, forse peggio delle altre. Perché la Contessa
Silvani Serbelloni Mazzanti
Viendalmare, non più di trenta mesi prima, era solo
la ragioniera Silvana signorina Silvani, zitellona impiegata nell’Ufficio
Sinistri della Megaditta, che si vantava solamente di essere stata eletta dai
colleghi Miss 4° piano per due volte consecutive.[2]
Se insomma
qualcuno avesse osato accusarla di essere un’arrampicatrice sociale, la
Contessa, mescolando un contraffatto accento francese/nobiliare con la sua
inconfondibile parlata romanesca, avrebbe notato: «E Cenerentola, che era?». In
effetti, tutti avevano perdonato le principesse della Disney per aver rinunciato
allo status di proletarie fuggendo in compagnia del principe azzurro. Perché
non perdonavano lei per aver sposato sul letto di morte l’anziano vedovo Conte Serbelloni Mazzanti Viendalmare, senza figli e senza speranze?
Forse, tutti si
accorgevano della drammatica differenza tra la mora/rossiccia ex-impiegata e la
sofisticata e bionda vecchia Contessa, mancata tragicamente qualche anno prima.
Il triste complesso Diana/Camilla della corona inglese applicato alla nobiltà
della finanza italiana. Perché la vecchia Contessa era una donna di classe[3],
che si circondava del meglio ma esigeva il meglio da parte di tutti,
dall’ultimo dei giardinieri ad Amedeo d’Aosta, quando si trovavano sotto il suo
tetto. Una distinta signora che possedeva il 33% delle azioni della Megaditta, destinava
qualche migliaia di euro al mese per i «negretti e i disgraziati» (sue testuali
parole) e non si perdeva un’inaugurazione, un taglio di un nastro, un varo di
una nave.
Proprio lì,
secondo alcuni giornalistuncoli da strapazzo, avrebbe
firmato la sua condanna a morte. Uno scribacchino, un certo Marco Travalico[4],
aveva persino ricostruito la vicenda in una sbrodolante articolessa
di sei colonne.
La Contessa era
stata trovata morta nella cattedrale. Causa del decesso un forte trauma cranico,
provocato dal colpo di un vaso di piante ornamentali. Un delitto terribile, in
quanto alla Contessa, mentre era ancora in vita, confermò l’autopsia, erano
state tagliate con un’accetta tutte le falangi, parti del corpo che nessuno
avrebbe mai più ritrovato.
Qualcuno, in
particolare il cronista giudiziario, vi lessero analogie con l’incidente di
pochi mesi prima[5].
Anche la scena del delitto indicava il possibile responsabile.
“CRIMINI
VATICANI: PROVE INCHIODANO ARCIVESCOVO PER L’ASSASSINIO DELLA CONTESSA
SERBELLONI MAZZANTI VIENDALMARE”, aveva titolato il suo quotidiano, noto per
non voler ricevere finanziamenti pubblici. Un titolo ad effetto che innescò una
bufera mediatica durata solo per alcuni giorni, poi tutti se ne scordarono.
Nessuno poteva immaginarsi un delitto così efferato per mano di un arcivescovo.
E poi di prove, contrariamente a quanto aveva scritto il giornalista d’assalto,
proprio non ce n’erano.
In
effetti, però, da quel giorno, quel particolare arcivescovo alto e che
prediligeva le vesti antiche, aveva iniziato a mostrare un ghigno di feroce
soddisfazione, come Torquemada al tiepiduccio
per un fuocherello di eretici. Ma per tutti, dal più influente dei curiali
all’ultimo dei fedeli, si trattava solo di una spregevole speculazione.
Fatto
sta che il novantatrenne Conte Serbelloni
Mazzanti Viendalmare,
azionista di spicco della Megaditta, uno degli ultimi proprietari di navi
negriere ancora in attività, finanziatore di dittatori sudamericani e Grande
Ispettore Inquisitore Commendatore della famigerata loggia massonica P2, si era
ritrovato da solo. O meglio, poteva ancora contare su un vasto giro di troioni da sbarco. Ma donnini
come Moira la tigre del ribaltabile[6] o
la sempiterna Giovannona[7]
non potevano venir presentate al circolo del bridge.
Fu
così che i suoi occhi caddero sulla procace Signorina Silvani, ragioniera
geometra dell’Ufficio Sinistri che, come il dottor Jekyll
e mr Hide, alternava momenti
di squisita femminilità nobiliare ad episodi di burinismo
estremo. Una donna stranissima ma affascinante, che nei giorni di ferie era
capace di visitare una mostra dei macchiaioli toscani la mattina e di chiudersi
in una bisca a fumare e a bestemmiare il pomeriggio in compagnia di Arnaldo
detto “Er pantera” e Checco “Er pagnottaro”.
Il
vecchio Conte se ne innamorò, anzi, ne rimase folgorato, e iniziò a
corteggiarla selvaggiamente. Prima con bigliettini, poi con regalini via via più costosi, dal piccolo anellino col diamante
all’intitolazione a suo nome di un’Isola del Pacifico. C’è da dire che la
signorina Silvani finse solo giusto qualche resistenza, per non dare l’immagine
di sé come di una “preda facile”, per non rovinare insomma anche al vecchio Conte
il gusto della conquista galante. Ma in cuor suo la ragioniera geometra
dell’Ufficio Sinistri accolse la notizia come un 6 al superenalotto. Anzi, come
se di 6 al superenalotto ne avesse fatti trecento. Quello più o meno l’impero
economico di cui si stava parlando. Altro che le merdacce che la corteggiavano
da una vita dentro quel tetro reparto della Megaditta[8].
«Silvana,
vuoi sposarmi?» le chiese un giorno, a bordo di un megayacht sul lago di Como
così grosso che, non potendo passare per i piccoli affluenti del lago, era
stato elitrasportato da quattro mega elicotteri dell’esercito americano.
“Famose
ingroppà da sta mummia”, pensò leggermente schifata
ma immensamente felice. In realtà esitò qualche secondo, fingendo una timidezza
più consona alla protagonista quattordicenne puccettosa
di un manga shojo che a una cinquantenne
scommettitrice sui cavalli nelle bettole più sporche e luride della capitale.
Poi esclamò: «Sì, amore!».
Non
era bella, ma poteva piacere. Esistono ragazze/donne/anziane di questo tipo, le
conosciamo tutti. Oggettivamente sono brutte. Hanno dei difetti troppo evidenti,
sono troppo magre o troppo grasse, hanno un naso troppo grande, una fronte
troppo spaziosa, dei capelli troppo stopposi o dei dentro troppo storti perché
possiate, all’interno di una compagnia maschile, dire impunemente: «Quella è
proprio bella» senza scatenare polemiche asperrime in grado di rovinare le
amicizie. Il 99% degli uomini non si avvicinerebbe a queste signore nemmeno se
fossero le ultime donne rimaste sulla faccia della terra, nemmeno sotto
tortura.
Eppure,
queste bruttone oggettive non sono mai condannate a
un’esistenza solitaria, tutt’altro. Infatti, se il 99% del mondo maschile
volterà loro le spalle non tanto nel senso metaforico, ma proprio nel senso
fisico per non vedersele di fronte e rivedere la cena del giorno prima per
terra, ci saranno sempre e comunque alcuni disperati che vedranno in loro non
delle belle ragazze/donne/vecchiarde, ma le loro ragioni di vita.
I
seni cadenti diventeranno nella loro mente malata un petto prosperoso e
materno, il loro alito fognante un olezzo di fiori, i loro capelli stopposi una
chioma rifulgente di luce. Non parlate di altre donne a questi eterni perdenti,
non vi staranno ad ascoltare: la loro è una malattia mentale gravissima,
incurabile. È l’amore.
E
fu proprio questa malattia a portare alla morte il povero vecchio conte Serbelloni Mazzanti Viendalmare, 92 anni, senza figli e senza speranze. Quel
“sì” sul lago di Como gli risultò fatale. Un coccolone decise di portarselo via.
A quel punto la signorina Silvana Silvani temette seriamente di rimanere tale
per tutto il resto della sua vita da zitellona impenitente.
Costrinse
dunque il cappellano dell’ospedale Sant’Anna di Como a maritarli lì, sul letto
di morte del Conte.
«Ma
perché il matrimonio sia valido a tutti gli effetti», commentò un anziano
avvocato, ricoverato nel letto a fianco per un’angina pectoris, «deve essere
consumato!». La signorina Silvani si diede un manrovescio in fronte, un facepalm epico per la delusione. Il vecchio prete fece
cadere a terra il benedizionale, il Conte sul letto di morte invece annuiva
estatico, con un sorriso a 72 denti.
“E
famolo morì contento”, si sacrificò la nuova
Contessa, alzando gli occhi al cielo.
La
camera ardente fu qualcosa di eccezionale: le nobildonne guardarono con
disprezzo l’ex impiegata assurta a un ruolo di alta nobilità,
i nobiluomini invece rimanevano più a lungo a fissare il volto felice e soddisfatto
del fu Conte Serbelloni, come quello di un bambino
addormentato a cui la mamma ha appena rimboccato le coperte. In effetti, dati
gli ingenti quantitativi di Viagra ingeriti dall’uomo prima di spirare, gli
addetti della lussuosa impresa funebre ebbero qualche difficoltà a chiudere la
bara e permettere al Conte di gustarsi il meritato eterno riposo.
Fatto
sta che da un giorno all’altro la signorina Silvani si ritrovò ad essere la
Contessa Serbelloni Mazzanti
Viendalmare. Il suo incontro con l’esecutore
testamentario del marito fu un susseguirsi di “Mecojoni”
e “Limortacci”. Nemmeno nei suoi sogni più spinti si
era mai immaginata di ritrovarsi ad essere la donna più ricca d’Europa. Ma così
era avvenuto. Così la sorte aveva decretato.
Dopo
alcuni giorni di paradiso, si accorse del clima torbido vicino a lei:
maggiordomi compassati, i manager dei vertici societari, persino le cameriere
della megavilla la guardavano come una ladra. Non poteva non notare quegli
sguardi di riprovazione e persino di manifesto disprezzo quando le servivano la
cena, le riassumevano a fine giornata l’andamento delle sue azioni o le
portavano il tè delle cinque.
La
Silvana proletaria che ruggiva dentro di lei, la fiera popolana che aveva
trasformato il suo assenteismo cronico in lotta di classe, tornò a galla,
giorno dopo giorno. Quel 14 aprile entrò nella storia: persino il Sole 24 ore
ne parlò, con un caldo editoriale del direttore Roberto Napoletano. Un
repulisti, una vera e propria epurazione che vide eliminati nel corso di una
notte molti dei vertici della Megaditta ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica,
tutti i membri dei CDA delle controllate Serbelloni e
tutto il personale impiegato nelle sette ville di famiglia.
L’unica
testa a salvarsi fu quella del
Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam, potente
come il Re Sole e feroce come un drago rosso di Dungeon and Dragons.
Del resto, non era lui l’obbiettivo della vendetta della Silvani: anzi, il
feroce nobile, che sedeva su una poltrona in pelle umana sollazzandosi di
fronte all’acquario degli impiegati estratti a sorte, godette della perfidia
della parvenu, anzi, se ne rallegrò e la incoraggiò. “Una degna erede”,
commentò estatico ascoltando la drammatica diretta su Radio24, con un Oscar
Giannino spaventato e teso come un inviato della FOX in Iraq nel 2003.
Caddero
il Professor Guidobaldo Maria Riccardelli
e la sua cineteca d’eccezione, il Megadirettore Ereditario Visconte Cobram e le sue biciclette, persino il Direttore Onorevole
Cavaliere Conte Diego Catellani e la sue stecche di
biliardo.
Al
loro posto una nuova generazione di merdacce, profumate e rivestite, assumeva
le posizioni di comando, con titoli nobiliari vistosamente fasulli, cavalierati
di ordini medioevali ormai decaduti, pronti a sottomettere ad uguali torture
una nuova generazione di inferiori e sottoposti. Li scelse, forse con un
anelito di cameratismo, proprio tra coloro che nell’Ufficio Sinistri avevano
condiviso con lei per anni angherie, torture, proiezioni di film in
cecoslovacco e olimpiadi aziendali.
Il
geometra Luca Calboni, col titolo di Marchese Eroe
dei Due Mondi Fil. De. But. Gran Visir si ritrovò a
controllare la divisione attività illegali della Megaditta: l’ufficio Sinistri,
l’ufficio Raccomandazioni e Bustarelle, l’ufficio Ricatti e l’ufficio Impiegati
Smarriti. Il ragionier Fonelli
fu assurto al ruolo di Megadirettore generale dell’ufficio neocolonialismo e
schiavitù, dell’ufficio traffici di droga e del reparto tratta delle bianche.
Il ragionier geometra Renzo Silvio Arturo Filini, già
tragico organizzatore delle gite aziendali, arbitro delle sanguinolente Scapoli
– Ammogliati che così tante vedove e orfani producevano ogni anno, venne scelto
dalla neo Contessa come maggiordomo, primo consigliere e tuttofare. Un ruolo
che ricoprì con orgoglio: predisponeva meeting con pontefici e teste coronate
con la stessa nonchalance con la quale prenotava un pullman da trenta posti per
portare i colleghi alla fiera della salsiccia il sabato sera. Anche il povero
Fantozzi ebbe il suo riscatto: capo-cameriera della Megavilla, con vestito maiden d’ordinanza dei peggiori anime fan service mai
realizzati dai più pervertiti mangaka nipponici.
Dopo
però una buona azione – o almeno, aver sconvolto gli scenari di ciò che
rappresentava il 3% del PIL italiano per una stupida ripicca la percepiva una
buona azione – si sentì in credito con la sua coscienza. Un credito enorme, che
la rendeva tranquilla nello soddisfare tutti i suoi vizi.
Partì
con le cose legali, di quelle cose che si perdonano ai più abbienti perché così
“gira l’economia” e “aumentata il gettito fiscale”, grazie alle forti tasse sul
lusso imposte dai governi con l’acqua alla gola: cavalli veloci, auto di lusso,
gioielli, yacht e gigolò africani. E l’arte. Già, l’arte. Assieme ai cavalli la
sua vera passione. Solo che i cavalli poteva comprarli, l’arte, però, non
sempre.
Nelle
segrete della sua Villa di Portofino, in pochi mesi, aveva allestito un vero e
proprio museo, uno di quelli che se avesse voluto avrebbe potuto aprire al
pubblico, chiedere un biglietto e guadagnarci persino sopra. Ma quella era la
sua collezione privata, una collezione sterminata, una collezione – il suo
regno – che aveva tutta intenzione di
espandere. Con ogni mezzo.
Dopo
le prime aste, le prime offerte d’acquisto a qualche museo prestigioso, i primi
ricatti, le prime minacce, iniziò la sua carriera di committente. Non però una
committente come lo furono i Papi del rinascimento, in grado di ricoprire Roma
di tesori ineguagliabili, ma una committente di furti d’arte. Il suo appoggio
principale: la Belva Umana.
Un
feroce ladro di cui aveva tanto sentito parlare ma che non aveva mai visto di
persona: era Filini che curava i rapporti con lui. «Com’è questa Belva?» aveva
domandato una volta al suo tuttofare. «Assomiglia vagamente a Fantozzi. Più
giovane, più magro». «A chi? Alla merdaccia?» osservò schifata la Contessa.
«Strano eh?» commentò a bocca aperta il solito Filini. La Belva era puntuale,
precisa, pulita. Spargeva sangue solo se necessario. Un unico intoppo però
all’ultimo furto, pochi mesi prima. Quello del Paniccia
originale[9].
«Chiede
20 pippi[10]
in più per il piccolo problemino incontrato durante il suo lavoretto», informò
la Contessa un imbarazzatissimo Filini.
«Esticazzi? Lo paghiamo già abbastanza…»
la sua smisurata ricchezza non l’aveva resa una scialacquatrice. I soldi a sua
disposizione erano tantissimi, ma non aveva intenzione di gettarli al vento.
«Gli
dii quei soldi o ci mettiamo nei casini», la implorò
Filini.
«20
pippi? Mecojoni». La
replica della Contessa.
In
Giappone però non aveva badato a spese. Nonostante un incidente, anni prima, in
un ristorante nipponico[11],
amava la cultura del Sol Levante. E ci teneva a fare bella figura: ecco perché
le auto, ecco perché gli autisti, ecco perché il galà.
Arrivò
al suo posto, accompagnata da Filini. Alla sua destra il ragioniere, alla sua
sinistra il signor sindaco. Rimase in piedi e si rivolse agli invitati:
«Carissimi amici», pronunciò a bocca aperta, con un esagerato accento
nobiliare, «sono estasiata di avervi tutto qui, al Mirato art museum…». «Minato», suggerì Filini sottovoce. «Minato,
Mirato, stessa cosa…» si adirò leggermente la
Contessa, che tossì. Anzi, scatarrò.
«Ecco… Siamo qui insieme per ammirare questo fantastico
quadro del compianto artista italiano Osvaldo Paniccia!»
declamò sorridendo l’ex signorina Silvani.
«Veramente
è ancora vivo», suggerì sottovoce un serio Filini. La Contessa si girò verso di
lui, e commentò sottovoce. «Cioè quando schiatta vale de più?» domandò seria. «Uuuuuhhh», agitò il braccio in segno di soddisfazione
Filini. «Mazza aho…» commentò ridendo. Le compunte
autorità giapponesi li guardarono stupiti, tranne la vecchia Kaori Masamune, nobile 144enne imparentata
con la famiglia imperiale, che russava beatamente a bordo della sua sedia a
rotelle. Qualcuno, tra i più conosciuti, arrivò a pensare si trattasse di uno
scherzo, e iniziò a scrutare la stanza per cercarvi delle telecamere. Anche in
Giappone, infatti, esiste il format di Scherzi a Parte.
«Dunque,
cioè…», la Contessa non sapeva più che dire, «… ah sì… per magna’… Ho pensato», tornò a declamare e scandire
le parole con il suo accento pseudo nobiliare, «a dei bravissimi quanto
simpatici chef di un pittoresco locale romano». Brusii e sguardi allarmati tra
gli invitati. Quel “pittoresco” mise in allarme moltissimi, soprattutto della
delegazione italiana. «Prego!!!», urlò allegra, «le pietanze!!!».
Meimi
e Asuka jr si scambiarono un’occhiata di
preoccupazione. Poi si voltarono verso le porte delle cucine, allestite per
l’occasione in una saletta attigua. Alcuni omazzi in
canottiera e braghette bianche unte trascinavano stancamente un carrello cigolante
con due pentoloni. Uno di loro aveva addirittura una sigaretta in bocca. Meimi spalancò gli occhi, cercando lo sguardo di Asuka, troppo scandalizzato e sorpreso perché questo
potesse ricambiarlo.
Un
omino aveva portato una pianola portatile al centro della stanza, seguito da un
altro, vistosamente obeso e anziano, con una maglietta blu sudaticcia e i peli
del petto che gli spuntavano ispidi dal collo a V, con in mano una chitarra. Si
diedero un’occhiata complice e cominciarono a pigiare tasti e strimpellare.
La
cena con Sergio e Bruno era appena iniziata.
-
Avete appena letto il capitolo 21.
Con la narrazione sono al capitolo 28/29. Verso il fine settimana aggiungerò il
numero 22, dedicato a Sergio e Bruno, due colonne portanti di questa fiction.
Se questa fic
via piace, condividetela con i vostri contatti ma soprattutto lasciate un
feedback, anche breve, anche solo una parola. Ammetto però – lo so, mi sto
ripetendo – che questo esercizio serve prima di tutto a me, per riscoprire una
capacità che pensavo di non avere più.
Certo che un “mi piace” o un “mi fa
schifo” in più mi aiuterebbero a capire un po’ meglio.
-
Vi propongo un giochino:
Provate ad immaginare gli sviluppi
della storia. Chi vi si avvicinerà di più vincerà un “brofist™”[12] o una “fetta di torta”
virtuale a seconda del suo genere d’appartenenza.
Buona vita!
[1] L’italiano regionale del Nord-Est contiene questa locuzione.
[4] I bei tempi in cui Emilio Fede incuteva ancora timore
[8] Stiamo parlando ovviamente del geometra Calboni e la sempiterna merdaccia Ugo ragionier Fantozzi
[9] Suor Seira ce l’aveva già raccontato. Per sottrarre l’Osvaldo Paniccia la Belva aveva freddato due guardie giurate Un uomo di sessant’anni e un ragazzo di ventidue.
[10] Milioni, secondo il gergo di Fantozzi in Paradiso
[12] http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRBrGkMOBQyXRQoPvvB0znltbfO7IZS1LSRFa3Xwe8TqE7HOfNJ8A&t=1