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Autore: Cams117    27/08/2012    0 recensioni
Avete presente i diari? Quei libriccini sigillati che profumano di inchiostro Bic, carta buona e segreti profondi? La mia "storia", se così si può chiamare sarà una specie di diario, schietto, sincero. Il mondo come gli occhi pensosi della mia protagonista lo vedono. Psicologia, amore, qualche risata e un po' di dramma...
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Con chi me la prendo?



27/08

Vi è mai capitato di rimanere delusi da una persona dalla quale non vi sareste mai aspettati nient’altro che carezze? Vi è mai capitato che al posto di queste carezze siano arrivati dei pugni, forti, precisi, impeccabilmente andati a segno? Diretti nello stomaco, tanto da aver bisogno di vomitare e piangere. E non parlo i pugni reali, no… Questo è molto peggio. Sguardi mancati, occhi di cui ti fidavi che si offuscano, noncuranza che dilaga.

Un mese e mezzo sono stata via.

Segnatelo sulle vostre accuratissime, organizzatissime, inutilissime super agende: un mese e mezzo è niente, ma, se arriva al momento giusto, può cambiare tutto. Tutto ciò in cui credevi, tutto ciò a cui ti eri aggrappata per non affogare, per sopravvivere a te stessa, al tuo io da analisi psichiatrica che fermenta con i quaranta gradi all’ombra dell’estate italiana, è  morto, scomparso in una nuvoletta scialba di nostalgia e ricordi talmente insignificanti da essere ridicoli.

E io me la rifaccio con le mie povere unghie, doloranti per aver passato del tempo a scalzare nocciole dai loro gusci ostinati, seduta sulle scale ricoperte di muschio della mia casa. Me la rifaccio con la pelle troppo secca delle mie gambe che si squama, con i capelli sfibrati, con i miei occhi bruciati dal sole a forza di fissarlo, con le circonvoluzioni del mio cervello, che desidererei più liscio, a volte. Un po’ meno contorto, almeno.

Me la rifaccio con il mio Dio, lo prego, lo ringrazio, lo accuso. E poi lo dimentico, fino alla prossima domenica, chiaro. O fino al prossimo documentario sull’universo che daranno in tv, unico momento in cui mi rendo conto di quanto siamo incredibilmente insignificanti. Talmente insignificanti che non riusciamo a pensare all’insulsa finitezza delle nostre vite piccine per più di cinque secondi… per non rimanere sopraffatti, concludiamo la nostra sinistra elucubrazione con un sorriso cinico e schioccante che dovrebbe voler dire “cazzate!”… ma in realtà ce la stiamo facendo nelle mutande dalla paura. Una paura che comunque svanirà non appena torneremo ad occuparci, come uccellini indaffarati, dei nostri nidi vuoti e stantii. Futili e fumosi come il fuoco di una brace che si spenge troppo presto, troppo debole per riscaldare, ma abbastanza forte da farti rimpiangere il calore di cui hai appena avuto la possibilità di godere, ma che hai perso.

Me la prendo col mondo intero, con questi adorabili e idioti vecchini che nel parco vicino casa stanno facendo festa. Musica vomitevole e banale, cibo strusciato per terra. Sorridono con i loro sorrisi cariati o finti, sinceri per una sera, ipocriti per il resto dei 364 giorni, illudendosi che forse la morte non busserà alla loro casa tanto presto. Un giorno in più, una sera in più, una notte di cui si farebbe a meno…  perché poi ci si sveglia un po’ più vecchi. E penso che potrei anche avvertire i carabinieri visto che è già mezzanotte e mezzo e non hanno ancora finito di far baldoria, ma perché rovinare questo glorioso, sdolcinato, folkloristico, illusorio momento?  Tanto a me, che sono cresciuta a pane e ketoprofene, un po’ di mal di testa in più non dispiace.

Me la rifaccio, se possibile, anche con le emozioni, le cose astratte. Odio la parola, la sensazione, l’argomento e tutto ciò che riguarda l’ “imbarazzo”. Vi sono costretta tutti i santissimi giorni, per colpa di una sindrome che amo chiamare “testadicazzite” e da cui sono gravemente affetta. Un po’ come il maestro Troisi in “Ricomincio da tre”, penso che gli occhi di tutti, da Barack Obama al trippaio simpatico e sdentato di Piazza del Porcellino, vicino Ponte Vecchio, siano puntati su di me. Ogni tanto ho bisogno che una Marta mi ricordi che non importa essere così presuntuosi e ridicolmente insicuri. Che se anche inciampo nel niente di fronte alle persone la cui stima punto a conquistare, va bene lo stesso. Non sono peggiore di prima come persona e non finirò a fare il netturbino o qualche servizio socialmente inutile. Senza nulla togliere ai netturbini, che fanno il mestiere più giusto e necessario del globo terracqueo.

Credo poi che ci sia qualcosa che non vada nella mia lingua e me la prendo anche con lei. Magicamente e puntualmente, quando sono con le persone che mi stanno simpatiche, si blocca, non riesce ad articolare nient’altro che monosillabi. “Sì”, “eh”, “davvero?”, “ahah”… Oh sì, abbiamo anche uno splendido contorno di risate false e incredibilmente poco sentite. Tremolanti e ansiose mentre frugo nella mia testa alla ricerca disperata di qualcosa di intelligente da dire e che non arriverà, o almeno non al momento giusto, o che, anche se arriverà,  per un motivo o per l’altro non dirò. Sono più socievole con chi odio. Il totale menefreghismo di fronte alla loro insulsa opinione, di cui davvero non m’importa niente, mi spinge ad essere pungente, acuta, addirittura ironica. Mi diverto con chi mi sta sulle scatole. Mi soddisfa scorgere nuovi difetti che il mio occhio clinico ancora stentava ad inquadrare e amo poi riderne.

Ogni tanto, mentre sono per strada, mi guardo intorno e mi assale la consapevolezza di essere viva e insieme a questa, una frazione di secondo più tardi, arriva, incontrovertibilmente, la presa di coscienza della stupidità umana. Per quanto cerchi di bloccarla, lei si piazza di fronte ai miei occhi e ruota la mia prospettiva: in quel decimo di istante tutto mi appare chiaro e ridimensionato. Le case che si affacciano sulle strade sono tane di stupidi animaletti affannosi talmente occupati a squittire, apparire, correre di qua e di là in cerca di qualcosa da fare, che si dimenticano di vivere. Nella costante brama di attività succhiatempo su cui ripiegare per non fare i conti con la realtà di sé stessi, non si accorgono del tempo che passa e che mastica la loro pelle, che secca i loro occhi, che piega e infradicia le loro ossa. Prima che se ne rendano conto è già tutto passato. Momenti brutti, i più lenti, e momenti belli, i più rapidi.

Ecco, quando mi accorgo di questo mi fermo, cerco il sole in cielo e faccio una risata secca, che mi sembra di sentire anche ora. Ricomincio a camminare canticchiando i Death Cab, per sovrastare i miei pensieri neri, sgualciti dalle mille volte che li ho formulati. Canticchio e mi concentro sul ticchettio della suola di plastica delle ballerine sull’asfalto, assorta su un pensiero insignificante e poco pericoloso; entro nel locale, sorrido a Gabriele che ancora una volta mi ha chiamata “signorina”, con quel suo tono gentile e scattante,  e prendo le pizze che ho ordinato. Annuso il cartone caldo e fumante e, constatato per l’ennesima volta che sono buone e che “come Gabriele non le fa nessuno”,  mi dirigo verso casa. Cambio canzone e mi accorgo che sono una cinquantina di metri che non penso a nulla di importante o sinistro o fatale. Mi tiro su i jeans dal passante sul fianco e mi rallegro. Non sto pensando nemmeno un po’ agli stronzi che ogni tanto dal pianeta Namek arrivano qui sulla terra e che poi ci ritroviamo tra capo e collo, che mentono e fingono tanto spesso e tanto facilmente quanto noi poveri umani giriamo il caffè con la palettina della macchinetta scalcinata in biblioteca.

Ho tanta paura anch’io. Un po’ perché il caffè non mi piace e, Dio mio, come farò a vivere nel mondo reale senza caffè?, un po’ perché la pizza di Gabriele prima o poi finirà, un po’ perché in quel punto imprecisato tra la testa e il collo, anch’io sento una piccola, viscida sanguisuga verde che mi succhia sangue e forze e vita. Tipo zecca, che nasconde la testa nelle pieghe della pelle. E con lei me la prendo soprattutto. Che non mi lascia vivere.

Con tutti me la prendo, meno che con me stessa. 
  
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