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Autore: Cloe Gallagher    28/08/2012    1 recensioni
Questa one-shot forse un po' straziante vede come protagonista Remus Lupin in preda al dolore della morte di Sirius Black.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Lasciai cadere il fiore bianco sulla ceramica bagnata dalla pioggia. Erano passate poche settimane dalla morte di Sirius, eppure non c’era stato giorno in cui non avessi visitato quel cimitero. Ovviamente la tomba era stata solo una formalità, anche perché il corpo di Sirius non venne mai ritrovato dopo quella notte al Ministero della Magia, ma secondo me e il resto dell’Ordine era bene che avesse anche lui un luogo dove essere ricordato e compianto. Si trattava del cimitero di Godric’s Hollow, proprio sotto il mio volere perché mai avrei permesso che Sirius prendesse parte alla cappella dei Black, dopo tutto quello che gli avevano fatto passare.
Era alla sinistra della tomba di James e Lily.
Mi strinsi nel mantello subito dopo essermi accucciato davanti alla lapide bianca ormai rovinata con gli anni. Ne erano passati quasi quindici, ma il dolore era ancora vivo in ogni parte di me. Se mai da giovane mi avessero chiesto cosa mi aspettassi dal futuro, non avrei mai immaginato la separazione dai miei migliori amici. Eppure i Malandrini non c’erano più. Sembrava già tutto finito dopo quel 31 Ottobre del ’81, quando Peter non solo ci aveva traditi, ma aveva anche lasciato che Sirius venisse incolpato al posto suo. Non ci credevo ancora, o meglio, non volevo crederci. Pensavamo che la fiducia fosse la base migliore su cui costruire un’amicizia solida e indimenticabile. E lo era stata per molto tempo, solo che ormai i ricordi avevano il sapore agrodolce della nostalgia, sebbene accompagnati da un lieve sorriso amaro.
La leggera pioggia estiva punzecchiava il mio viso stanco e segnato dalle cicatrici, e ormai non potevo più distinguere se quelle che scivolavano lungo le mie guance fossero gocce o lacrime. Con tutte quelle perdite mi sentivo spaesato. Sapevo che il dolore non  mi avrebbe mai abbandonato, ma si trattava di qualcosa di più profondo. Più leggevo i loro nomi sulle lapidi che avevo davanti, più sentivo di aver perso una parte me, una grandissima parte di me. Ero vuoto. A mala pena trovavo la forza di alzarmi da quella scomoda posizione. L’unica cosa che mi faceva andare avanti era la voglia di riscatto, non avrei lasciato che le persone più importanti della mia vita fossero morte invano. Lì, davanti a quello che restava di me, decisi che avrei dato di tutto, anche la vita, pur di onorare i miei amici. Così mi alzai, decidendomi finalmente ad aprire l’ombrello sgualcito che avevo lasciato a terra. Diedi un’ultima occhiata alle lapidi. L’ andare via mi faceva capire quanto fosse reale quel senso di abbandono. Ma indietreggiai a piccoli passi, fino a quando mi voltai completamente con un peso nel cuore. Non ero ancora pronto per andare via, così mi avvicinai al grande cipresso che occupava gran parte del terreno lì vicino. Magari il dolore sarebbe alleviato lontano dalle tre lapidi. Ma non lo fece. Mi sentivo quasi in colpa per essere io quello ancora in vita. Perché gli altri e non me? Loro avrebbero meritato di vivere tanto quanto lo meritavo io. Ormai quei pensieri erano all’ordine del giorno. Ninfadora mi aveva detto che io non c’entravo niente, che è successo perché doveva succedere, e che dovevo andare avanti.
Andare avanti.
Non potevo iniziare una vita con lei se nemmeno io sapevo cosa farne della mia. La amavo, ne ero certo, ma non potevo rischiare ancora. E se avessi perso anche lei? Se invece di visitare quel cimitero per i miei amici, lo avessi fatto per mia moglie? Non avrei sopportato un’altra perdita. Eppure continuavano a dirmi che in tempi di guerra come quelli, l’unione sarebbe stata la nostra unica forza per andare avanti.
Ma lei meritava di meglio.
Cosa aveva da offrirle un lupo mannaro come me? Troppo vecchio. Troppo povero. Troppo pericoloso.
Perciò preferivo essere io quello a soffrire.
L’oscurità aveva ormai inghiottito la cittadina da qualche ora, e se non fosse stato per la debole luce dei lampioni offuscata dalla leggera nebbia, avrebbe regnato il buio più pesto.
Era incredibile come l’ambiente fosse in sintonia con il mio stato d’animo, perché quello che provavo era oscuro e freddo, così lontano dalla positività che spesso mi caratterizzava.
Decisi di smetterla di torturarmi con tutti quei pensieri e che sarebbe stato meglio andare via, non sapevo dove, ma, se fosse stato possibile, il più lontano da quel dolore che mi perseguitava.
Aprii il cancello cigolante, lasciandomi alle spalle un’altra parte di me. Riuscii a sentirla abbandonare la mia anima fino a farmi assaporare il triste e freddo sapore della solitudine.
   
 
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