La mano di un'amica, stretta nella mia, era un miracolo che mi commosse.
Avrei versato mille lacrime per quelle dita di pelle morbida e anima d'osso, e più tardi lo feci: accartocciata sul mio letto come la plastica ustionata da una fiamma, piansi per quella mano familiare e per le infinite altre cose che mi bucavano il cuore.
Avevo l'impressione che l'affetto per le persone, da solo, mi togliesse il respiro, ma in realtà tutto era un dolore e una felicità troppo grandi da trattenere tra le dita, e pensavo alla mano fantasma che si era infinata tra le mie costole per lasciarmi quel germe di consapevolezza.
Guardai troppe cose, tutte insieme: il cielo che cambia colore, la magia del corpo che ubbidisce agli ordini della mente, il pelo del mio cane, la bellezza del disordine, della possibilità, del futuro. Pensai che non ne avrei mai avuto abbastanza, mai, mai.
Quel giorno l'insetto raccolto dall'erba mi parve qualcosa di troppo maestoso per passare inosservato, e cercai di imprimerne la forma nella mia anima, così a fondo da influenzare quello che ero e che sarei stata, per tutta la vita.
Volevo che quel momento fosse un tesoro inestimabile, la carezza di un Dio sulla fronte.
Volevo commuovermi per sempre, zuppa di lacrime e meraviglia, scossa da una gratitudine pulsante, sommessa e perpetua come il battere del mio cuore.
Non volevo dimenticare come mi sentivo, e con quel pensiero stringevo forte le dita della mia amica, sforzandomi di non piangere.
Guardavamo la bara di una ragazza come noi.