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Autore: NicholeSanderson    29/08/2012    2 recensioni
Da piccola Nichole vive il divorzio dei suoi genitori, a causa dei problemi di alcolismo del padre, che l'abbandona quando lei è solo una bambina. A sedici anni, poi, viene abbandonata anche dalla sua assente madre, che preferisce seguire il suo nuovo compagno e la sua carriera da imprenditore. Così Nichole viene riaffidata al padre, trasferendosi da Seattle, sua città natale, fino ad arrivare in California, in un piccolo quartiere di Torrance. A complicare le cose, poi, è il suo incontro con Frankie, la ragazza della casa azzurra in fondo al viale. Anche lei vive una situazione familiare piuttosto complicata, oltre ad avere una difficile vita condita da tanti problemi. Anche se il loro rapporto all'inizio sarà confuso e strano, presto entrambe si renderanno conto di aver bisogno l'una dell'altra, in qualcosa di più di una semplice amicizia.
http://nicholesanderson.blogspot.it
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Nichole! Come stai? Come va con papà?»
Erano passati otto giorni da quando ero in California, e quella era la prima telefonata da parte di mia madre. Sembrava frettolosa, come se dovesse togliersi questo gran peso.
«Sto bene. Papà è fantastico.»
«Sì certo, bene, sono felice per te.» disse distrattamente.
Annuii, e cominciai ad innervosirmi.
«A te come va?»
«Oh, meravigliosamente. Jim è un uomo fantastico. Tuo padre beve ancora?»
«No. Ha trovato una nuova compagna che presto abiterà qui da noi.»
«Bene... oh! Davvero? Una nuova compagna? Lui?»
«Uhm-uhm. È molto simpatica, e ha due figlie.» dissi con freddezza.
«Benissimo. Tesoro, ora devo proprio andare. Ti chiamo... quando posso. Ciao! Salutami tuo padre. Ti voglio bene!» riattaccò.
Certo – pensai – Si vede.
Non era amichevole e scherzoso, non ancora. Era serio, composto, un uomo d’affari, spesso impegnato. Mio padre e io stavamo riallacciando i rapporti lentamente, ma sentivo che mi voleva bene.
Da quando lo avevo visto piangere avevo cominciato a provare uno strano sentimento. Non vorrei essere esagerata o inopportuna, ma mi faceva quasi pena. Intendo, certo, aveva sbagliato a lasciare me e la mamma da sole, a commettere quegli errori. Ma tutti hanno diritto a una seconda chance, e io ero pronta a fidarmi di lui. Certo, non completamente, stavo sempre in guardia. Eppure, sembrava che amasse prendersi cura di me. Non mi faceva mancare mai nulla, era premuroso e aperto al dialogo. Mi dava consigli su come conoscere nuova gente e mi incitava ad uscire più spesso, e decisi di abbracciare la sua idea. Stare sempre chiusa in casa non migliorava certamente la mia situazione. Per il momento la mia unica amica era Ramona. Passavo con lei gran parte del tempo, quando papà era a lavoro, e non mi dispiaceva darle una mano. Collaborando con lei stavo quasi imparando a cucinare. Beh, mettevo il sale e l’olio e accendevo i fornelli, ma era già un passo avanti. Sapevo preparare solo panini e macedonie, e seguendo Ramona, magari, avrei imparato a cucinare qualcosa di più impegnativo. Mi aveva chiesto riguardo il mio passato, cercando di essere meno indiscreta possibile, io le avevo raccontato della mamma e di Jim. Non avevo accennato alla storia di papà, non volevo essere una ficcanaso e poi avevo l’impressione che lei lo sapesse, dal modo in cui evitava di parlare di lui e del mio passato contemporaneamente. Mi aveva parlato della sua storia e della sua gioventù difficile e povera. Di quando era arrivata qui e di come papà l’aveva accolta in casa, come una di famiglia, mi aveva detto. Non scendeva troppo nei dettagli, ma se mi parlava del suo passato, il suo viso si rabbuiava. Poi tornava sereno e luminoso, con un sorriso e una battuta stupida, per evitare di diventare tristi.
Quel giorno incontrai di nuovo lo strano ragazzo sullo skate. No, questa volta non mi colpì.
Si fermò a salutarmi, mentre uscivo di casa.
«Ciao ragazza che ho investito!» mi salutò allegramente.
Gli sorrisi imbarazzata.
«Ciao ragazzo con poco controllo!»
«Oh, questa era cattiva. Io ho molto controllo! Sono una scheggia sullo skate! Vuoi che ti faccia vedere qualche acrobazia complessa? Eh?» cominciò a roteare con la tavola sotto i piedi.
«Preferirei di no – scherzai – sai, mio padre non c’è, e non saprei come arrivare all’ospedale.»
Si fermò di scatto e fece balzare il suo skate fino a che non gli finì direttamente tra le braccia.
Fece un passo verso di me, e mi guardò scherzosamente con uno sguardo minaccioso.
«Ah, ti piace scherzare, forse? Guarda che stai parlando con il miglior skater della zona!»
Non seppi cosa dire, e lo guardai con un mezzo sorriso.
«Hey, sto scherzando – scoppiò a ridere – non ti voglio mica picchiare! Eri tutta spaventata!»
«Non ero spaventata! – arrossii – Non sapevo cosa dirti!»
Ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere entrambi.
«Sai cosa? Non mi sono presentato l’altra volta! Oddio, che vergogna. Bene, io sono Gabe, ma mi chiamano Draco!» mi tese la mano, la lasciò e con un gesto veloce si inchinò, dandomi ancora l’impressione di essere snodabile.
«Io sono Nichole. Draco? Perché sei un pericolo pubblico?»
«Oh, no! Perché... beh, non c’è un motivo. – si grattò la nuca – Forse a causa delle fiamme disegnate sul mio skate. Alcuni di noi hanno un soprannome... okay, in realtà solo io, ma Gabe è troppo... scontato! Capisci?»
«Certo, certo.» risi leggermente. Lui mi sorrise per qualche istante.
«Beh, adesso devo proprio andare. Devo passare a prendere la mia amica. Amica. Capito? Amica! Non è la mia ragazza, sia chiaro. Beh, se impari lo skate magari ti unisci a noi, qualche volta. Ma sai che ti dico? Puoi farlo anche senza saperci andare, sullo skate! - cominciò a parlare molto velocemente – Sei nuova, qui. Suppongo tu non conosca molta gente. Quindi, boh. Ti va di uscire con me e la mia banda qualche volta? Siamo tutti carini e coccolosi, non preoccuparti!»
Arrossii ancora. Arrossivo sempre, troppo spesso. Gabe sembrava essere piuttosto loquace e confusionario, ma in fondo era simpatico.
«Beh, sì, credo di sì. Penso vada bene! Perché no.» gli sorrisi.
«Fantastico. Allora... a domani! Sì, domani. Andiamo a mangiare una pizza. Vengo a prendere Frankie, la mia amica, e poi passiamo a prendere anche te, okay?»
«Certo, per me va benissimo!» risposi. Ero contenta, almeno non avrei passato il sabato sera rinchiusa nella mia camera a spararmi qualche CD.
«Meraviglioso. Allora a domani, alle otto e mezzo qui. Ciao... Nichole!» disse, mi salutò con la mano e io ricambiai, poi scappò, come sempre, a tutta velocità sul suo skate.
«Domani esco.» annunciai, con un po’ di contentezza e una goccia di nervosismo.
Non è che fossi propriamente nervosa, ma non conoscevo nemmeno le persone con cui avrei trascorso la serata, e vista la mia incomparabile timidezza, era lecito che fossi leggermente agitata.
«Con chi?» domandò papà mentre addentava un pezzo di pane.
«Qualche giorno fa ho conosciuto un ragazzo. Ero appena tornata a casa e mi ha quasi travolto con lo skateboard. Lunga storia, insomma.» ci sedemmo a tavola per il pranzo. Papà annuì e mi lasciò continuare.
«E, insomma, una sua amica abita nella casa azzurra in fondo al viale, e l’ho visto qualche altra volta. Gli ho spiegato che vivo qui da poco e mi ha invitata ad uscire con lui e i suoi amici, domani sera. Mangeremo una pizza.» lo guardai in attesa di una sua risposta.
«Oh, fantastico! Quindi hai trovato degli amici.» sorrise, poi puntò il dito verso di me e con uno sguardo scherzosamente minaccioso continuò:  «Ma niente ragazzi, mi raccomando!»
«Certo, papà.» risi.
«Niente ragazzi! – ripetette – Ascolta, Nichole. Ti dispiacerebbe passare un pomeriggio con Stevie? Io e Grace dobbiamo fare delle commissioni, ultimare tutto per il trasferimento, sai... Ma Rebecca verrà con noi, lei non si separerebbe mai da sua madre. Saranno qui tra un paio d’ore.»
«Oh, certo che posso!» risposi, contenta che non avrei visto Rebecca tanto a lungo.
Il suono del campanello di un po’ dopo mi risvegliò. Ero sulla poltrona del salotto a leggere, e non mi ero assolutamente resa conto che fosse passato così tanto tempo.
Papà si stava preparando e mi urlò dal bagno in corridoio di aprire la porta. Poggiai il libro sul tavolino di vetro e mi alzai.
«Ciao Nichole!» mi salutò gioiosa Grace, seguita  da due smorzati saluti da parte delle sue figlie.
Mi si presentò ancora davanti, stavolta con un vestitino rosa, ma la solita espressione stampata sulla faccia. Essendo solo una bambina pensai che fosse cortese offrirle un gelato o dirle qualcosa di carino, ma visto che non avevo idea di cosa dirle, optai per il gelato.
«Rebecca, vorresti un...»
«No.» mi rispose secca, senza nemmeno lasciarmi finire. Le stavo sullo stomaco. Mi scrutò per qualche secondo con i suoi occhi chiari e la sua espressione impassibile, poi si voltò guardando di fronte a sé, sbattendo le palpebre con disinteresse. Fu in quell’istante che vidi che stava stringendo in pugno il vestito della madre, e la guardava, accigliata, come sempre.
Dietro di lei sbucò Stevie, imbarazzata e con un sorriso smorzato, mi guardava cercando un dialogo. In quell’istante arrivò papà, di fretta. Mi diede un bacio sulla testa e chiese se tutto fosse pronto mentre si sistemava le maniche.
«Noi andiamo, allora!» disse. Grace farfugliò qualcosa  a Stevie, che annuì, ma non riuscii a capire una sola parola. Quando chiusero la porta riuscivo a percepire il disagio che stava provando la povera ragazza davanti a me. Ci fu un silenzio imbarazzato che durò qualche istante. Stevie si girò lentamente verso di me, con le guance infiammate e un sorriso che voleva quasi nascondere.
«Allora! – esordii con entusiasmo, cercando di alleggerire la situazione – Stevie... uhm, siediti pure.» accettò il mio invito e scostò la sedia dal tavolo, così accuratamente e in modo silenzioso che sembrava non volesse svegliare un terribile bambino di due anni che dormiva sul divano lì accanto. Si sedette senza fiatare, e io feci lo stesso. Cominciai a tamburellare sul tavolo, cosa che facevo ogni qualvolta non sapevo cosa fare, e cercavo freneticamente qualcosa da dire.
«Vuoi qualcosa da bere? Ci prendiamo un gelato... un... caffè?»
«No, grazie.» rispose in modo gentile, ma così flebilmente che la sentii a malapena. Continuò a sorridermi. Mi faceva quasi pena, non volevo essere nei suoi panni. Sembrava così a disagio che riuscì a farmi percepire la sua sensazione in pochissimo tempo.
«Stevie... passeremo un intero pomeriggio insieme. Dài! Cosa vuoi fare? Non... sentirti a disagio. So che è una strana situazione ma... pensa che forse saremo quasi sorelle, presto! Iniziamo a conoscerci meglio, che ne dici? Vuoi fare un giro... restare a casa, guardare un film. So che non ci conosciamo affatto, ma vedrai che romperemo il ghiaccio facilmente!» finii con entusiasmo e un gran sorriso stampato sulla faccia. Mi sembrò di scorgere un leggero luccichio negli occhi di Stevie, come se fosse rimasta contenta delle mie parole, ma non si smosse. Continuò a torturarsi le dita, evidente segno di imbarazzo, e mi guardò sorridendo. Ricambiai il suo sguardo, e mi resi conto che con gli occhi stavo cercando di incitarla a dire qualcosa. Sembravo una mamma che incita la propria figlia che deve dire al padre di essere incinta. 
«Sì. – cominciò – Hai ragione.» disse lentamente.
Ecco, fu un colpo nello stomaco. Ero speranzosa e puntavo su qualche parola in più, e quando finì di parlare respirai profondamente. Sembrava un coniglio impaurito.
Mi chiesi se fossi così tanto male, o se davo l’impressione di essere una professoressa cattiva. Le avrei voluto dire qualcosa tipo: “Hey, guarda che non ti interrogo! Abbiamo quasi la stessa età, smuoviti cazzo!”  ma effettivamente mi faceva tenerezza. Così provai ad assumere l’atteggiamento di una giovane infermiera, che tranquillizza il bambino che deve fare il prelievo del sangue, dicendogli che sarà come un pizzico e che dopo mangerà un gustoso gelato.
Stevie continuava a giocherellare con le sue mani, oramai arrossate. Le guardava sbattendo gli occhi rare volte, e cercava di non fare rumore nemmeno respirando.
Cominciai quasi ad annoiarmi, e passammo cinque lunghi, lunghissimi, minuti in silenzio. Fissavo le lancette mentre frugavo nella mia testa alla ricerca di qualcosa di più convincete, che riuscisse a farla reagire. Per qualche istante mi chiesi se avesse amici o se fosse così timida solo perché ero la figlia del compagno della madre. O perché non mi conosceva. Improvvisamente feci un pensiero non troppo generoso: ero felice di non aver dovuto passare il pomeriggio con Rebecca, dovevo ammetterlo. Quella bambina mi faceva seriamente paura. So che era una cosa stupida, ma voi avreste dovuto vedere quegli occhi gelidi che si ritrovava. Da brivido.
«Stevie. Parlami un po’ di te.» azzardai.
Stavolta da coniglio impaurito divenne un cane bastonato, e i suoi occhi si incurvarono in un’espressione che sembrava dire “Noo, ti pregooo! Non farmi parlare di me!”. Così, da brava ragazza, decisi che avrei iniziato io. Sospirai e cominciai a pensare a cosa dire.
«Allora, Stevie. Facciamo così, inizio io, okay? Bene... Mi chiamo Nichole. Nichole Sanderson. Ho diciassette anni, quasi. Sono la figlia di George, come sai, e... amo... leggere! Sì, un sacco di libri, sai com’è... Ne ho... tre scaffali pieni, e altri negli scatoli.» mi seguiva con lo sguardo e annuiva a tempi regolari, con un leggero e cortese sorriso sulle labbra.
«E... a volte disegno. Sì, ma... faccio abbastanza schifo, però è divertente. E poi, la cosa che amo di più al mondo è la musica.» dissi in modo filosofico.
Lei continuava ad annuire e aprì la bocca, ma poi la richiuse subito. Era un caso perso.
«La musica! – cominciai di nuovo con il mio entusiasmo incoraggiante – A chi non piace? Suono la batteria! Mi piace davvero molto, è... stupendo. È ancora dove abitavo prima, sai, ma arriverà presto e la metterò nel garage. E poi te la farò vedere, okay? Che ne pensi?»
«Va bene.» deglutì. Sospirai ancora, profondamente, ma proprio quando non me lo aspettavo sentii una voce. Era quella di Stevie! Stava continuando a parlare!
«Io suono la chitarra, invece. Anche io amo la musica.» disse in tono leggero e pacato.
Finalmente, cazzo!” pensai. Le sorrisi, in segno di approvazione, e mi sentii fiera di me stessa.
«Che musica ascolti?»
«Rock, Alternative, Pop...»
«Oh, davvero? È ciò che principalmente ascolto anche io.» le sorrisi.
Stevie annuì, sempre stropicciandosi le mani, sempre arrossata e sorridente.
«Vedi, abbiamo trovato qualcosa in comune! E abbiamo cominciato a parlare di più.»
«Hai ragione. Sai, io sono davvero timida. Esageratamente timida... forse lo hai notato.»
La osservai con un’espressione piuttosto accigliata.
«E questo mi causa molti problemi...  – continuò – Non riesco a difendermi o a creare un rapporto stabile con qualcuno.» abbassò lo sguardo. Mi fece ancora più tenerezza. Pensavo di essere davvero timida, ma dopo aver visto Stevie, mi resi conto che esistevano casi chiaramente peggiori.
«Capisco. Beh, dovresti provare ad aprirti di più!»
«Lo so... ma... non riesco. Io... ecco... Mi sento sempre a disagio. Anche con persone che conosco, con i miei familiari. E non so nemmeno perché mi sto sfogando con te, adesso. Scusami. Non immaginavo di... riuscire a farlo.» divenne ancora più rossa.
Mi alzai dalla mia sedia e mi sedetti più vicino a lei.
«Ma no! Anzi, è un bene! Vedi, sei riuscita a dire ciò che premevi dentro di te. A volte parlare dei propri problemi con qualcuno che non si conosce è un bene. Insomma, poi non te ne importa più di tanto del suo giudizio, e puoi avere consigli da... un occhio esterno. Quindi, continua pure, se vuoi, io ti ascolterò molto volentieri e cercherò di aiutarti.»
«Grazie. – sorrise – Beh, è qualcosa con cui convivo da tempo. Quando mio padre è morto ho dovuto sopportare gli sguardi della gente. Così cominciai a chiudermi, come dentro un guscio... fu un periodo tristissimo per la mia famiglia. Non faceva altro che venire gente a casa e vedevo mia madre piangere ogni giorno, disperata. Piangevo così tanto anche io, Rebecca era ancora piccola. La gente era così compassionevole, anche le persone con cui avevamo perso i contatti da tempo. Anche quelli che avevano passato la vita a criticarlo, quando morì tutti amavano mio padre.»
«Tutti ti amano quando sei due metri sotto terra. John Lennon.»
«Ecco. Io odiavo quella falsa compassione, le persone che si offrivano di prendersi cura di noi, ma in realtà non avrebbero mai voluto un peso del genere e sapevano che mia madre non avrebbe accettato. Fu un periodo davvero terribile, smettemmo di vivere per un lasso di tempo. Mio padre era un bravissimo uomo, onesto, generoso e tanto dolce... e me l’hanno portato via.» la sua voce cominciò a tremare, finché dai suoi occhi cominciò a scorrere qualche lacrima che le rigò il viso velocemente. Cercò con tutte le sue forze di smettere di piangere.
«No, dai! Su...» l’abbracciai istintivamente.
«Va tutto bene – respirò profondamente – È... successo anni fa. Ma mi ha segnata fortemente. E tornando al punto iniziale, quindi... sono un caso perso di... chiusura. Per questo non riesco a farmi degli amici, sono stata vittima di bullismo un paio di volte e non ottengo i voti che merito a scuola.» terminò, annuendo leggermente e guardando verso il basso.
Mi alzai per prenderle un pacchetto di fazzoletti e tornai a sedermi accanto a lei.
«Ascolta, Stevie. Anche io sono una persona piuttosto timida. Certo, non ho passato ciò che hai vissuto tu, ma anche la mia situazione familiare non è un granché. Insomma, non potrei elencarti le cause per cui ho un carattere piuttosto introverso, né gli episodi in cui ho fatto tante figuracce a causa della mia timidezza. Ma il punto è che devi cercare di superarlo, okay? Non puoi... farti rovinare la vita così. Hai bisogno di voltare pagina. Di cambiare capitolo. Di cambiare libro! Mi spiego meglio, devi aumentare la tua fiducia in te. Devi riuscirci, e ti aiuterò.»
Mi sorrise piena di speranza, con gli occhi lucidi, e sperai con tutta me stessa di riuscire a mantenere la mia promessa nel migliore dei modi.


  
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